I testi che la liturgia ci propone per questa diciassettesima domenica del tempo ordinario si aprono, nella prima lettura tratta dal libro dei Re, con una domanda, già da sola, capace di far sussultare mente e cuore di chi legge; infatti «In quei giorni a Gàbaon il Signore apparve a Salomone in sogno durante la notte. Dio disse: “Chiedimi ciò che vuoi che io ti conceda”».
«Chiedimi ciò che vuoi che io ti conceda» è l’inaspettato che irrompe nella storia, la richiesta che tutti, specialmente in alcuni momenti della vita, vorremmo sentirci porre, in special modo da Dio...
Certo, non potendolo fare abbiamo elaborato tutta una teologia capace, se non di rendere ragione, almeno di acquietare l’animo di fronte a questa impossibilità, e dunque tutta una schiera di ben pensanti – a ragione – si solleverebbe a ricordarci che Dio non è una bacchetta magica, che dunque non ci si può rapportare a lui come ad una macchina dei desideri... Eppure, anche se queste indicazioni sono vere e ci aiutano a non avere un approccio di fede ingenuo, ciò che in esse viene taciuto è che nel fondo del cuore di ogni uomo, anche il più istruito o teologicamente preparato, rimane l’atavico, arcaico e forse infantile anelito di poter esprimere e veder realizzati i propri desideri in modo facile: senza la fatica di una storia, la preoccupazione di un esito mai certo, la complessità delle situazioni in gioco...
È lo stesso anelito che sta alla base di tutte le storie e leggende che ci parlano di geni che escono dalle lampade coi famosi tre desideri, di fate con le loro bacchette magiche e via discorrendo...
Esse però non devono ingannarci sulla portata della domanda. Sono storie per bambini, è vero, ma, a ben guardare, nelle loro versioni originali, non sono mai banali e per questo sono anche “storie per i grandi”.
Dico “nelle loro versioni originali” perché poi effettivamente si è andati incontro, per mezzo della satira e dell’ironia (quante barzellette hanno i “tre desideri della lampada”), ad un uso ridicolo della domanda «Chiedimi ciò che vuoi che io ti conceda».
Essa invece – come dicevamo – è molto più pregnante di quanto le sue volgarizzazioni mostrino. Essa infatti presenta il profilo del volere («Chiedimi ciò che vuoi») nel suo legame stretto a quello dell’essere: Cosa vuoi? Dunque chi sei? Sintetizzabili nella domanda: Chi vuoi essere?
Ecco perché non si tratta di storie da bambini ed ecco perché sono inadeguate tutte quelle risposte che non vanno a toccare il vero nucleo dell’io: “cosa voglio” è infatti ben più di “quale cosa voglia”; “cosa voglio” è cosa voglio essere, chi voglio diventare!
Salomone in questo senso dà la risposta “giusta”: «Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male». Non si tratta della richiesta della leggendaria “saggezza”; non è una dote o una virtù che Salomone vuol sviluppare! È piuttosto un modo nuovo di volersi, un disporsi nuovo di fronte a se stesso e per questo di fronte agli altri: la docilità del cuore, per saper rendere giustizia!
E in questo la sua risposta è “giusta” e dunque esemplare: non nel senso che sia l’unica “giusta” e dunque da imitare in modo pedissequo (come se tutti dovessero rispondere «un cuore docile...»), ma giusta e dunque esemplare perché “all’altezza” della domanda. È una risposta infatti che mostra la portata di verità di sé implicata nella domanda, la portata di autenticità di fronte alla propria interiorità e alla vita.
Questi infatti sono i due segnali della giustezza di una risposta: la verità verso il nucleo fondante e appassionato di noi stessi e il compimento di questo nucleo nel suo essere-per-gli-altri.
E proprio perché risposta adeguata alla domanda “Cosa voglio?” è solo quella che riesce a tenere il profilo alto del “Chi voglio essere (di fronte a me e per gli altri)?”, è inevitabile che ognuno abbia (e possa avere solo) la sua risposta! Non in un’accezione solipsistica, ma nel senso che, come per la morte, si è di fronte a qualcosa in cui nessuno ci può sostituire, nemmeno un modello! Sta a noi (e solo a noi) l’avventura del determinarci, del scegliere il tesoro su cui porre il nostro cuore (cfr Mt 6,21: «Là dov'è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore»).
Ma, proprio perché è così stretto il legame tra tesoro e cuore, tra senso e vita, tra fondamenta e costruzione, tra volontà e identità, è necessario un tesoro all’altezza, un senso per cui valga la pena, delle fondamenta stabili, una volontà appassionata!
È l’esperienza delle prime due parabole evangeliche: «Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo. Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra».
Per il vangelo dunque tesoro all’altezza, senso per cui valga la pena, fondamento stabile, volontà appassionata è «il regno dei cieli», quello che Paolo nel suo caratteristico gergo chiama l’«essere conformi all’immagine del Figlio».
Ma non dicevamo che non poteva esserci una risposta univoca per tutti che ognuno aveva la sua? E che nessuno (nemmeno un modello, neppure quello di Cristo) poteva sostituirci nell’avventura di determinarci nella vita?
Già... ma appunto: regno dei cieli e conformità all’immagine del Figlio sono tutt’altro che un libretto di istruzioni su come vivere la vita, con buona pace di chi tenta di generazione in generazione di liofilizzare il Vangelo in percorsi ascetici, itinerari spiritualistici, o codici etici.
Il regno dei cieli è anzi – ci dice la parabola – imbattersi in un tesoro nascosto, in una perla di grande valore: lasciarsi cioè incontrare, nel vivere quotidiano, nella fatica del crescere, nei tentativi di scoprire, nello sforzo di capire, nella delusione del regredire, nell’avvilimento del soffrire, nel provare ad amare... nell’impasto di confusione e ordine che siamo... da qualcosa che si rivela al nostro cuore come promettente per una vita bella.
Qualcosa di così promettente da accordargli un credito, spenderci passione e sudore, fino a giocarci la vita!
Se poi questo tesoro non è un qualcosa, ma un qualcuno si capisce ancora meglio quanto non si possa trattare di un canovaccio già scritto per tutti!
L’idea di conformità a Cristo, che immediatamente per l’accento desueto che hanno i termini o per l’uso distorto che ne è stato fatto, suscita in noi un’idea di austerità, lontananza, incomprensibilità, in realtà non è altro che la relazione trasformante con Lui. Proprio perché la Verità è una persona con cui si entra in relazione essa non è un insieme di dottrine e norme, valide per tutti, da sapere e da applicare; piuttosto un qualcuno con cui imbattersi (con cui ciascuno personalissimamente di imbatte), che ci appare promettente, come un tesoro per cui si vende tutto e si compra il campo in cui è sepolto o come una perla di gran valore per comprare la quale si vendono tutti i propri averi. Un imbattersi promettente a cui si dà credito, proprio perché appare senso fondato per la vita, e proprio per questo fonte di gioia!
Forse è proprio questo ciò di cui non siamo più capaci, come Chiesa, di far fare esperienza...
Forse è quanto aveva intuito anche Giovanni Paolo II, quando con un sussulto dello Spirito ha formulato queste parole:
«In realtà, è Gesù che cercate quando sognate la felicità; è Lui che vi aspetta quando niente vi soddisfa di quello che trovate; è Lui la bellezza che tanto vi attrae; è Lui che vi provoca con quella sete di radicalità che non vi permette di adattarvi al compromesso; è Lui che vi spinge a deporre le maschere che rendono falsa la vita; è Lui che vi legge nel cuore le decisioni più vere che altri vorrebbero soffocare. E' Gesù che suscita in voi il desiderio di fare della vostra vita qualcosa di grande, la volontà di seguire un ideale, il rifiuto di lasciarvi inghiottire dalla mediocrità, il coraggio di impegnarvi con umiltà e perseveranza per migliorare voi stessi e la società, rendendola più umana e fraterna».
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