Il brano di vangelo che la Chiesa ci propone per questa ottava domenica del Tempo Ordinario è tratto anch’esso (come i tre precedenti) dal discorso della montagna, anche se – in questo caso – non abbiamo a che fare con la prosecuzione diretta del testo di domenica scorsa, ma con una sezione successiva (il liturgista omette Mt 6,1-23). In questo modo l’incipit del vangelo odierno, risulta la lapidaria espressione di Gesù: «Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza», dove – nuovamente – si impone con forza alla nostra attenzione il tema della ricchezza…
Ci eravamo già soffermati su questo argomento in chiusura dell’anno liturgico C, quest’autunno, quando – commentando la parabola del povero Lazzaro e del ricco epulone (Lc 16,19-31) – sottolineavamo come la questione là in gioco non sembrasse essere morale: il ricco, nella finzione parabolica, era all’inferno non perché cattivo, ma perché ricco; e il povero era con gli angeli, non perché buono (non si sa, stando al testo!), ma perché povero. Ciò che emergeva come discriminante, pareva allora essere non tanto una o più azioni malvagie, una o più azioni buone, ma l’ingiustizia radicale dell’essere ricco… Che ci portava a concludere che, nella logica di Gesù, la tanto travisata frase «Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti», non andasse interpretata nel suo senso immediato (come se fosse meglio nascere poveri e patire per un po’ – nell’aldiqua – godendo poi però per sempre – nell’aldilà –, piuttosto che nascere ricchi e godere per un po’ – nell’aldiqua – e patire per sempre – nell’aldilà). Dicevamo, infatti, che il contesto rimandava ad un’altra lettura di quella medesima frase, quella per cui bisognerebbe quasi arrivare a dire, semplicemente: meglio nascere povero, che nascere ricco nell’aldiqua; non perché si avrà il contraccambio nell’aldilà, ma perché nella visione di Gesù della storia dell’aldiqua è meglio essere poveri.
Questa era la paradossalità della parabola. Infatti nessuno di noi arriverebbe a dire questa cosa in maniera così nuda e cruda: noi – infatti – diremmo piuttosto “è meglio essere poveri nell’aldiqua, per essere ricchi nell’aldilà”; oppure “il problema ricchi-poveri andrebbe risolto non con l’eliminazione dei ricchi, ma con l’eliminazione dei poveri”, e via discorrendo…
Gesù invece “entra a gamba tesa” su questi nostri giri di parole e dice “meglio essere poveri”, punto e basta!
Come a dire che dentro a questa categoria dell’umano che noi istintivamente rifuggiamo, c’è qualcosa che invece è in sintonia col “mondo come Dio lo pensa”, con l’idea che Lui ha della nostra felicità, della nostra “buona riuscita”, della pienezza della vita. E al di là di tutte le poesie che si possono fare sulla povertà, sulla libertà interiore che essa “regala”, ecc… credo che l’elemento decisivo stia nella restituzione della qualità originaria e autentica della vita dell’uomo cui la povertà fa accedere, a renderla così ben vista agli occhi di Dio.
“Qualità autentica e originaria della vita dell’uomo” che – non a caso – caratterizza le esperienze di santità più grandi della storia della Chiesa. Basti pensare a san Francesco d’Assisi o al tema dell’umiltà tanto caro a santa Teresa d’Avila, che con “umiltà” intendeva – appunto – il far luce sulla verità di sé…
L’essere ricco invece è la grande illusione per l’uomo, è il grande inganno sulla sua vera realtà, su chi è lui veramente: cioè povero e dunque inevitabilmente necessitato da un affidamento…
Come mostra bene il testo (già più volte citato, ma che, mi pare, fa sempre bene rileggere) di Armido Rizzi in Dio in cerca dell’uomo: «L’uomo è povertà. In quanto oggetto e destinatario dell’agape l’uomo è l’essere-di-bisogno; dove bisogno dice a un tempo la relazione a un insieme di beni da fruire e la problematicità del possesso di quei beni. Nella prima faccia il bisogno dice ricchezza, almeno virtuale, potenzialità di espansione e di felicità; nella seconda, dice che ogni bene conquistato non è mai garantito, che ogni ricchezza acquistata è sempre insicura, ogni espansione precaria, ogni felicità fragile. Non siamo mai le cose che abbiamo, neppure le più intime: il nostro modo di essere è l’avere, in un senso più profondo di quanto dica l’abituale distinzione tra essere e avere. Infatti quella distinzione si istituisce sul piano valutativo, come discriminazione tra beni autentici e beni estranianti; ma sia gli uni che gli altri non diventano mai noi stessi al punto da essere inalienabili, rimangono sempre sotto il segno dell’aleatorietà. Qui non siamo più sul piano della valutazione, ma della struttura dell’esistenza umana, di quella che possiamo chiamare povertà radicale dell’uomo. […] Povertà non è sinonimo di finitezza. Un essere finito potrebbe avere tutto ciò che gli compete, e averlo in maniera così salda e sicura da non correre pericoli per la propria realizzazione: […] parlare di povertà in questo caso avrebbe senso soltanto misurando l’uomo su un metro, a lui estrinseco, di infinito. […] Povertà non è limite del proprio essere; è limite dentro il proprio essere. […] Ma abbiamo detto povertà radicale. E con questo intendiamo porre una distinzione tra le situazioni attuali, effettive, di povertà e quella condizione di base, quella fragilità che permane anche nelle situazioni di opulenza e di esteriore sicurezza, e che nessun possesso o potere può superare. […] È questa crepa che chiamo povertà radicale; quella che una famosa immagine biblica chiama i piedi d’argilla che reggono la statua di metalli preziosi. […] Ma: gloria Dei vivens pauper. Quest’espressione di Oscar Romero, che riprende e precisa quella di Ireneo (gloria Dei vivens homo), costituisce la definizione dell’essere umano alla luce dell’agape divina. Dire che Dio ama l’uomo come altro da sé equivale a dire che nell’uomo egli ama il povero: non ciò che l’uomo ha ed è, ma quell’essere-di-bisogno che è bisogno di avere e di essere. […] Ma proprio questa povertà, che in sé non ha né è nulla di amabile, viene amata da Dio e da lui colmata: e in questo gesto Dio si rivela Dio. Dunque, la volontà di colmare il povero – ogni uomo in quanto povero – è la parola originaria che Dio dice su di sé: è la sua gloria. Quando parliamo della predilezione di Dio per i poveri non tracciamo un limite al suo amore – quasi Dio amasse soltanto coloro che sono attualmente poveri – ma indichiamo il luogo privilegiato in cui riconoscere questo amore. Nella preferenza di Dio per i poveri attuali si testimonia la qualità del suo amore per tutti gli uomini nella loro povertà radicale».
La ricchezza è allora mancanza di umiltà (in senso teresiano), cioè mancanza di verità su di sé, rinnegamento di questa qualità originariamente povera, di ciascun uomo…
La ricchezza è la grande illusione, di riuscire a bastare a se stessi, di salvarsi da soli, di “farcela” da soli…
Ecco perché – nel testo odierno – è messa radicalmente in antitesi col Dio del vangelo: «Non potete servire Dio e la ricchezza»! Perché l’essere ricchi, cioè l’illudersi di non essere poveri, fa dimenticare di essere figli… fa dimenticare di aver bisogno di stare nelle braccia di qualcun altro che tiene in mano la nostra vita… fa dimenticare la necessità di un affidamento…
Ecco perché Gesù, dopo la lapidaria frase iniziale, prosegue dicendo: «Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita»… Perché la domanda fondamentale a cui vuol spingere l’uomo è precisamente questa: “Nelle mani di chi / di che cosa hai posto la tua vita?”; a cui fa eco la sua simmetrica: “Per chi / per che cosa ti affanni, ti preoccupi mentre vivi?”…
Per il Regno di Dio (cioè per il mondo come Dio lo vuole, e cioè fatto di fratelli che si amano e si prendono cura – si liberano dal male – gli uni gli altri) o per la tua auto-salvezza (denaro, cibo, vestiti, relazioni che ti riempiano la vita…)?
Perché solo una vita affidata nelle mani di un altro, può essere vissuta per… qualcuno che non siamo noi…
Se infatti essa è solo in mano nostra, passeremo tutto il tempo preoccupati (affannati) a cercare di conquistare o mantenere l’abilitazione a stare al mondo (grazie ai nostri averi, ai nostri saperi, ai nostri meriti…), per scoprire poi che essi non servono a un tubo per salvarci la vita, come chiosa bene Paolo nella seconda lettura: «io non giudico neppure me stesso, perché, anche se non sono consapevole di alcuna colpa, non per questo sono giustificato. Il mio giudice è il Signore »…
Se, invece, diamo credito alla rivelazione di Dio che ci si fa incontro in Gesù e che Isaia sintetizza in quella insuperabile frase della prima lettura messa in bocca a Dio stesso («non ti dimenticherò mai»), e per questo ci decidiamo per un affidamento, cioè ci sbilanciamo a pensarci (a pensare noi stessi) nelle mani di un Altro, allora avremo la vita abilitata da lui e per questo libera da affanni… libera di dedicarsi a qualcun altro… che non sia sempre e solo il nostro io.
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1 commento:
Sempre e soltanto grazie.
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