Il vangelo che la Chiesa ci propone per questa sesta domenica del Tempo Ordinario è il proseguimento del discorso della montagna iniziato ormai due domeniche fa con il testo delle beatitudini.
Il versetto 17, quello che inaugura il brano odierno, e il discorso che a partire da esso Gesù pronuncia, suscita però, rispetto ai toni dei vangeli delle ultime due domeniche, qualche istintiva perplessità: «Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento. In verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto. Chi dunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e insegnerà agli altri a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà, sarà considerato grande nel regno dei cieli». Una perplessità, dovuta al fatto che non siamo più molto abituati ad avere a che fare con un Gesù “intransigente”, soprattutto sui cavilli della Legge (che infatti lui stesso trasgredirà nella sua vita, basti pensare al vespaio che suscitano i suoi miracoli in giorno di sabato…). Perché dunque – proprio nel momento in cui fa un discorso programmatico sulla sua vita e sulla vita della Chiesa (in questo infatti consiste il discorso della montagna) – introduce questa “intransigenza”? Come va interpretata?
Mi pare che, innanzitutto, per non farsi trascinare in letture non conformi al più ampio contesto evangelico, sia utile chiedersi quale sia, dal punto di vista di Dio (e di Gesù), il senso della Legge… Perché se diamo troppo per scontato che la Legge sia quella “cosa” che abbiamo in testa noi, cadere in cortocircuiti ermeneutici è molto facile… Se invece proviamo ad andare ad indagare il significato profondo che il dono della Legge ha nel testo biblico (interessante la locuzione “dono della Legge”… perché noi, che istintivamente la sentiamo come un qualcosa di ostico e opprimente, facciamo fatica a considerarla un dono… e già questo dovrebbe farci spuntare un campanellino d’allarme… perché, forse, quello che istintivamente pensiamo, non è esattamente il pensiero di Dio – e di Gesù – in proposito…), forse riusciremo anche a capire meglio il senso dell’“intransigenza” che Gesù propone nella sua osservazione…
Dunque cimentiamoci in un piccolo excursus… Innanzitutto una curiosità: la parola latina testamentum deriva da quella greca diatheke, che, a sua volta, è la traduzione di una parola ebraica (berit), che vuol dire “alleanza”. Perciò i nostri “Antico” e “Nuovo Testamento” non vogliono dire altro che “antica” e “nuova alleanza”… Essi cioè sono la storia di come Dio liberamente e gratuitamente decide di stringere con l’uomo un rapporto di amicizia.
L’amicizia che però Dio propone, la sua alleanza, ha contorni diversi da quelli delle nostre “amicizie/alleanze” umane: noi – solitamente – per “alleanza” (anche per quelle non sancite giuridicamente, come le amicizie) intendiamo un accordo tra due o più persone all’interno del quale avviene come uno scambio, fatto di reciprocità nell’offerta e nei benefici messi in campo. Esempio evidente è un contratto d’affitto (ma in genere tutte le alleanze economiche, fondate sul do ut des): uno mette a disposizione la casa e ci guadagna i soldi; l’altro mette a disposizione dei soldi e ci guadagna la possibilità di abitare in una casa.
Dicevo, anche nelle alleanze non sancite giuridicamente noi “funzioniamo” un po’ così: in un’amicizia ti offro il mio bene, la mia confidenza, la mia vicinanza, ma in cambio mi aspetto altrettanto bene, altrettanta confidenza, altrettanta vicinanza…
Bene, l’alleanza proposta da Dio funziona altrimenti: innanzitutto – se si segue un po’ il testo biblico – ci si accorge che l’iniziativa è sua e consiste in una gratuita disposizione ad essere amico/alleato del popolo. Per esempio Dio non chiede nulla in cambio della cessazione del diluvio universale: fa un patto unilaterale, in cui si offre come “il Dio del popolo di Israele”.
Inoltre – e veniamo a ciò che più direttamente ci interessa – anche quando sembra faccia un patto bilaterale (proponendosi come “il Dio del popolo”, quindi proponendosi come guida, protettore, custode, ecc… e chiedendo “in cambio” che “Israele sia il popolo di Dio” osservando le tavole della Legge del Sinai) in realtà, nuovamente, segue criteri diversi da quelli del do ut des. Sarebbe infatti interessante chiedersi perché Dio dà una Legge al suo popolo… a che pro? Cosa ci guadagna?
Lui non è che diventa “più Dio” se l’uomo osserva la sua Legge… anzi… proprio il contrario: è l’uomo che diventa “più uomo” se osserva la Legge… Cioè, forse, il modo giusto per guardare ai comandamenti di Dio non è tanto quello che ci ha introiettato una certa morale del contrappasso (devi osservare la Legge, altrimenti Dio ti punisce), quanto piuttosto quello di intendere la Legge come quei consigli che – dentro alla confidenza di un’amicizia – Dio si permette di dare all’uomo per suggerirgli un modo bello per essere uomo. Dei “consigli” dunque, non un’imposizione sotto minaccia di repressione! E con il fine, non di guadagnarci Lui (Dio), ma di consegnare all’uomo qualche suggerimento per arrivare alla fine della vita e – guardandosi indietro – essere contenti di ciò che si è diventati. Una Legge per l’uomo dunque, per la sua felicità, per la sua umanizzazione! Dei consigli che – certo – l’uomo può non seguire (senza per questo incorrere nella punizione di Dio), ma – sembra suggerire il testo biblico – col rischio di immischiarsi col male, che la prima persona che abbruttisce (dis-umanizza) è esattamente chi lo fa!
Ma, se dunque è questo il senso vero della Legge (e Gesù lo ribadirà continuamente, tant’è che a chi lo accusava di trasgredire l’osservanza del riposo sabbatico, risponderà: «Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato!», Mc 2,27), allora, forse, si inquadra meglio l’invito di Gesù ad un’intransigenza. Come a dire: quei “consigli” che Dio ha dato ad Israele per vivere una vita buona (che in greco coincide con “bella”), io non li invalido, anzi li voglio portare a compimento!
E infatti ecco l’elenco dei suoi “Avete inteso che fu detto / ma io vi dico”, dove ciò che è importante non è tanto – almeno a mio parere – la casuistica che Egli propone (son solo esempi, lascia fuori molte cose, dunque non ha certo qui una pretesa catalogativa esaustiva), quanto piuttosto l’evincere un criterio che possa farci capire cosa Gesù, con così tanta forza, voglia sostenere: e cioè, che il problema non è (l’ipocrisia del) l’osservanza legalistica della Legge (che appunto rimanda ad un’interpretazione errata di cosa sia la Legge, dal punto di vista di Dio e dunque di Gesù), ma la disposizione interiore del cuore dell’uomo verso il suo prossimo, l’intenzione del suo cuore, il modo di sentirlo, pensarlo, mettirglisi di fronte… Questo è il punto: se in una logica che rende bella la vita (una logica di Vita appunto, di donazione della vita, cioè di amore: l’unica cosa che – a dar retta a Dio e a Gesù – fa bella la vita), o una logica di sopraffazione e morte (che disumanizza l’uomo, soprattutto quello che la attua, più ancora di quello che la subisce)…
In questo senso allora torna interessante l’osservazione che fa il libro del Siracide nella prima lettura: «Se tu vuoi, puoi osservare i comandamenti; l’essere fedele [felice, nel senso di Dio, cioè amante e perciò contento di ciò che sei diventato] dipende dalla tua buona volontà. Egli ti ha posto davanti fuoco e acqua: là dove vuoi tendi la tua mano. Davanti agli uomini stanno la vita e la morte: a ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà».
A noi non piace questo discorso sulla “buona volontà”. Troppo immediatamente infatti ci risuonano nelle orecchie dinamiche di volontarismo che ci hanno introiettato da piccoli (devi essere bravo, se no… devi riuscire, se no… devi essere adeguato sempre, se no…). Ma qui – se proviamo a staccarci dal senso che noi diamo a queste parole e riusciamo a prenderle nel senso che hanno in loro stesse – vediamo che l’accento è del tutto diverso: qui si parla di quell’educazione interiore di sé che pian piano cura l’istinto di sopraffazione, di violenza, di omicidio che abbiamo nei confronti degli altri, per abituarci (gli antichi non a caso parlavano di habitus, una virtù talmente sedimentata da aver plasmato ormai la mia interiorità, cosicché non devo neanche più sforzarmi per essere quella cosa lì, perché ormai la sono diventata) a guardarli, sentirli, pensarli e mettersi di fronte a loro con lo sguardo della custodia, come per una cosa preziosissima che ho… Tutti gli “ma io vi dico” vanno infatti in questa direzione…
Per questo c’è bisogno di una “recisione” («se il tuo occhio destro ti è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te», «se la tua mano destra ti è motivo di scandalo, tagliala e gettala via da te»)… altro termine che a noi non piace… perché l’abbiamo sempre inteso come una recisione di qualcosa di nostro, che ci fa, ci costituisce, per cui “reciderlo” sarebbe una castrazione… Invece qui si intende recidere una logica… impedirsi proprio di attuarla, e poi – pian piano – anche pensarla; e poi – pian piano – anche sentirla… per lasciar sempre più spazio ad un altro modo di porci di fronte agli altri, di pensarli, di sentirli…
E a chi dice che tutto questo è impossibile, Paolo risponde: «Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano. Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito; lo Spirito infatti conosce bene ogni cosa, anche le profondità di Dio».
E io vi dico: io non sono capace, ma ho visto chi – pian piano – in vita, si è trasfigurato in questo modo! E perciò ci credo. E ci provo.
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1 commento:
E' proprio qui che si scommette la nostra vita: io non sono capace, ma ho visto chi - pian piano - in vita, si è trasfigurato in questo modo e perciò ci credo, combatto e ci provo, senza alcun desiderio di essere compresa, di essere fuori dalle logiche comuni, con l'unico desiderio di servire per Lui, con Lui e in Lui così come sono, lasciandomi trasfigurare da tutto il mio vivere.
Sempre grazie
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