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lunedì 14 febbraio 2011

La Strada

Commento alle letture liturgiche della VI Domenica del Tempo Ordinario (Anno A)


Ci vorrebbe un dizionario speciale.
Sapete quei dizionari che traducono i termini da una lingua in un’altra… Ebbene ci vorrebbe un dizionario speciale dei termini Io-Tu.
Noi usiamo delle parole per parlare, ma ben spesso ci rendiamo conto che davanti a certe parole, ciascuno gli dà un “contenuto” proprio…
Se io per esempio dicessi “amore”, “giustizia”, “bellezza”… e chiedessi a ciascuno di scrivermi su un foglio che cosa “per lui significano”, beh son convinto che ne leggeremmo delle belle…

Sì, ciascuno dovrebbe scriversi questo dizionario con nel frontespizio il suo nome e quello della persona con la quale vorrebbe entrare in comunicazione. Ce ne vorrebbe per ogni amico/a che conta.
Ce ne vorrebbe uno anche per le parole che la tradizione religiosa ci ha trasmesso, e che noi abbiamo interiorizzato ed elaborato all’interno dei nostri orizzonti esistenziali: delle parole della Bibbia, del Vangelo, di Gesù. Se non facciamo questo “lavoro” potremmo passare la vita sulla Bibbia senza mai riuscire a coglierne l’originalità. Credo che sia per questo che la bibbia annoia i più…

Prendiamo la parola “legge”. Questa parola evoca a ciascuno di noi molte immagini che dipendono anche dal proprio ruolo sociale: un conto è il significato che gli dà un avvocato, un conto un cittadino “comune”, un altro ancora un… condannato. Immaginatevi che cosa ne pensa della legge chi attende il giorno della sua esecuzione nel braccio della morte… Eppoi perché Legge e non legge? La “grafica” qui ha la sua importanza, perché?

Lo stesso dicasi per “giustizia”: chiedetelo a (o immaginatelo di) uno che subisce l’ingiustizia, e poi a/di uno che vive di soprusi…

Che “gatta ci cova”, si vede anche nella traduzione del Vangelo di oggi: secondo l’attuale traduzione Gesù direbbe: “non crediate che io sia venuto ad abolire la le Legge e i Profeti…” e ancora: “se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei…”. Solo che Gesù non dice così.
La prima (a parte il fatto che dovrebbero spiegarmi come si fa ad abolire un profeta, seppur nei suoi scritti!) andrebbe tradotta meglio così: “non crediate che io sia venuto a demolire la Legge e i Profeti…”. Così però la frase appare assurda: si demolisce una casa, mica un codice giuridico, se non in senso raffigurato, più propriamente per la norma giuridica si dice appunto abolire… Resta ancora la difficoltà dell’espressione riguardo “ai profeti”… Ma proprio qui casca l’asino che rivela la differenza di “mentalità” tra un ebreo (Gesù, Matteo, gli ascoltatori…) e il lettore “occidentale”.

Cominciamo allora a fare il viaggio tra i diversi mondi semantici.

Noi traduciamo Legge, ciò che nel testo originale è Torà (o più comunemente Torah) . Ma Torah propriamente parlando non è una “legge”. Anche se la sua forma è tipica dei codici legislativi… Propriamente e più correttamente la sua traduzione sarebbe “Via”, “Cammino”, “Strada”.
Si può tradurre Legge, tenendo conto anche della traduzione in greco del termine ebraico che gli stessi ebrei ne hanno fatto (ad es. nella cosiddetta Settanta). Ma la legge per un ebreo non è tanto una norma giuridica, quanto piuttosto una strada, una “via che conduce a”…
Ora appunto la strada si costruisce, anche se non come un palazzo in verticale, ma in orizzontale. E smantellare una strada esige che essa sia “demolita”. Una strada infatti non la si abolisce, la si demolisce! Al massimo si può “non percorrerla” e prendere altre strade…

Ora una strada, ha la sua importanza non in sé, ma per il “dove conduce”, ciò che conta in una strada è “il ‘dove’ porta”, ciò a cui destina: la meta, la direzione verso la quale si “distende”. La sua capacità di essere strada consiste proprio nel fatto che conduca effettivamente là per cui è stata costruita. È quindi importante che la strada “spiani i monti e colmi le valli” (cfr Isaia 40,2-5) e sul suo “selciato” non ci siano ostacoli che ne interrompano l’itinerario ostacolando il cammino dei viandanti. Se un “macigno” la ostruisse, per andare oltre dovremmo uscire di strada o tornare indietro. E se un altro “macigno” ci impedisse di tornare indietro? Sarebbe la morte sicura, bloccati su quella strada interrotta o, che è lo stesso, cercare errabondi di percorrere sentieri sconosciuti e pieni di pericoli…

A questo punto credo che le idee comincino a chiarirsi e a trovare il nesso tra Torah e Profeti: entrambi indicano la via, la strada, il cammino che conduce al Signore. Anche i profeti cioè tentano di “costruire” una strada o meglio “sgomberare” ogni ostacolo che l’umana ingiustizia pone in essa: il termine “demolire”, usato da Matteo quindi li concerne benissimo entrambi.

Anche la “Strada” (Torah) che Dio ha dato porta in una certa direzione: la Vita. Quindi Dio stesso, “il Vivente”… Che Gesù non può che confermare: Non verrebbe da Dio, non sarebbe (Figlio) di Dio! Anzi, proprio questo Gesù è venuto a fare: a togliere definitivamente ogni ostacolo, i limiti, che ci impediscono di percorrerla fino in fondo, fino alla meta. E proprio questo vuol dire quando dice che è venuto per “dare pieno compimento”!

E da qui si comprende meglio l’altra più corretta traduzione in rapporto alla giustizia: In realtà Gesù afferma: “Se la vostra giustizia non andrà oltre i limiti, i confini posti dagli scribi e dai farisei” che con la loro interpretazione fissista e legalistica dei testi sacri impedivano alla Torah (e ai profeti che con la loro testimonianza cercavano di rivitalizzarla), di essere “strada”, dinamico cammino (cfr Gv 1,1: pros), ed espletare così il compito a cui erano destinati: condurre a Dio (cfr in Gv 1,1 il pros) attuando la sua giustizia nella storia.

Ecco allora che fatto questo “viaggio culturale” per appropriarci della mentalità biblica, tutti i brani della liturgia di oggi si illuminano di un significato “nuovo”.

Se Gesù si pone come strada altra, cammino altro, senza ostacoli verso la meta (che non cambia!), ogni altra strada acquista o perde di valore a seconda che corrisponda alla strada maestra che Gesù nella sua persona è venuto a realizzare. E che da sempre era presente nel piano di Dio e che le “tradizioni umane” (Mc 7,6; Mt 15,9) hanno offuscato. Anzi è da sempre la stessa struttura del Figlio e quindi di ogni figlio/a! In Gv 1,1 questo è chiaramente espresso, ove si dice che il Verbo/Logos è dinamicamente rivolto a [pros] Dio/Padre. E non, come tradotto, banalmente presso Dio: con Dio e in Dio, non c’è vicinanza fisica, ma di orientamento esistenziale. Quindi nel momento in cui ti decidi di percorrere la “strada”, di prendere quella direzione, “sei in Lui” (cfr ad es. Gv 14,17-23!; 15,4-17).

I comandamenti quindi non sono nient’altro che “pezzi di strada”, tratte del cammino proposti verso una meta fatta di luce e di vita che è la comunione con Dio e con i figli suoi. Valgono se e perché mantengono “in strada”, conducono nella strada, alla meta.

Il progetto di Dio, la strada che si getta verso Dio stesso, costituisce proprio quel “mistero” di cui parla san Paolo: è noto, perché si conosce la meta e già il camminarci è esserci, appartenervi, ma non siamo ancora arrivati alla meta finale che non è ancora sperimentata e per questo “ignota”. Noi occidentali nel nostro linguaggio, della parola “mistero” abbiamo sottolineato esclusivamente l’aspetto “non noto” del compimento finale e abbiamo trascurato invece l’aspetto noto, progettuale, della strada spianata davanti a noi. Perdendo così tutta la ricchezza del significato a cui Paolo attribuisce alla parola mistero. Ed è chiaro che percorrendo la strada, esso si rivela sempre di più. E per questo c’è un “tempo” in cui si chiarisce, si notifica… di “tempo” in “tempo”, di cammino in cammino.

Gli esempi successivi che Matteo giustamente riunisce qui dei detti di Gesù, vanno ovviamente in questa direzione. I “ma io vi dico” non stanno ad indicare una alternativa alla strada, ma indicano un lavoro di sgombero della medesima. Perché la meta, la giustizia di Dio in mezzo agli uomini, sia raggiunta senza alcun ostacolo anzi altrove dirà “senza fatica”.

Ecco allora che il quadro del Vangelo si chiarisce. Dopo aver annunciato le Beatitudini ecco che Gesù dà, come dire, le istruzioni per l’uso. E nello stesso tempo le chiarisce: beato (felice) non è il povero o chi piange: c’è una povertà triste, c’è un pianto disperato… Felice (beato) è colui che pone al centro della sua esistenza il rapporto con l’altro. Anche a costo di pagare di persona. Tutti gli esempi riportati sottolineando il “modo” di vivere il rapporto con l’altro/a (anche nel tradimento e nel conflitto) vanno in questa direzione, bisognerebbe rileggerli ancora una volta per meglio annotarseli.
Ciò che dà vita, luce, gusto alla vita è la capacità di ogni persona, di essere persona appunto. Disposti a tutto perdere pur di vivere la relazione con l’altro: anche il denaro, anche la propria materiale comodità, anche la propria spensierata allegrezza, anche il proprio concetto di giustizia, anche il proprio occhio… se scandalizzano, se cioè sono causa di rottura della relazione con l’altro… L’alternativa sarebbe il deserto della propria solitudine. Benestante mortificazione dell’Io. Lussuosa tomba della vita.

Ecco perché la Croce diventa il mistero (ora definitivamente noto in Cristo ma non ancora compiuto nel proprio vissuto storico) che ciascuno deve percorrere fino in fondo per poter vivere.
La morte non nasce come punizione di Dio, ma come conseguenza della rottura col “tu”.

Sottolineo una ulteriore conseguenza pratica che mi coinvolge più direttamente: All’interno di questa prospettiva biblica (l’unica fondante ogni altra prospettiva!), crolla come inconsistente tutta quella dimensione esistenzialmente schizofrenica, molto presente in ambito praticante che rende spesso il cuore del fedele “duro” verso ogni altra forma di fragilità umana… L’uomo religioso si trova spesso come strattonato tra la falsa antinomia dell’obbedienza alla legge in tutte le sue forme (Codice di Diritto Canonico, Regola religiosa, Costituzioni, Norme applicative, Ordinazioni capitolari) da una parte e le “esigenze della Carità” dall’altra: a questa, quelle sono finalizzate e condizionate. Con il conseguente obbligo da parte del cristiano di eliminare quanto in esse è di ostacolo alla realizzazione del fine per il quale esse esistono e, positivamente, andare oltre una loro “osservanza” materiale. Questo si intende quando si parla dello “spirito della legge”…

Il “vincolo” delle leggi sta solo in quanto (e per quel tanto che…) riescono ad espletare il loro compito di accrescere la comunione, la fraternità, la carità, la bellezza… della vita comunitaria (in tutte le sue numerose forme storiche di “convivenza sociale”: ad es. famiglia, convento, parrocchia, società nazionale…). In una parola l’Amore del Regno di Dio. Per questo ogni figlio dell’uomo è signore del sabato (cfr Mt 12,8).

2 commenti:

maria sole ha detto...

Due passi interessanti sul tuo commento. Il primo riguarda ciò che dà luce, gusto alla nostra vita: il coraggio di spendersi in relazioni coinvolgenti, non provvisorie e temporanee. Come può essere possibile? Quante volte partecipando in modo annoiato, quasi come tanti zombi, ad una nostra messa feriale o festiva che sia, ci sconvolge l'elevazione eucaristica PER CRISTO, CON CRISTO E IN CRISTO?
Il secondo è riscoprire la bellezza della comunità, dove il mio esserci non parte da quello che so fare meglio, ma da quello che c'è bisogno. Oggi il bisogno maggiore, a mio parere, è l'aggregazione. Mi spieghi il significato dell'ultima frase che siamo signori del sabato, visto che mi sento figlia di Dio Padre?

greg50 ha detto...

Don Sciortino:incontro c/o Istituto Regionale di Studi sociali e politici “A. De Gasperi” Bologna

In una battuta dico che oggi è morta la profezia nella chiesa. La diplomazia ha preso il posto della profezia. La Chiesa deve ritrovare il coraggio di parlare con libertà…

Direi che questa frase 'profetica' spiega questa chiesa flebile e spaventata dal futuro: che è Gesù! Gregg50

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