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domenica 2 settembre 2012

L'ultima intervista

Il rito della lavanda dei piedi in Duomo

Padre Georg Sporschill, il confratello gesuita che lo intervistò in Conversazioni notturne a Gerusalemme, e Federica Radice hanno incontrato Martini l'8 agosto: «Una sorta di testamento spirituale. Il cardinale Martini ha letto e approvato il testo».

Come vede lei la situazione della Chiesa? «La Chiesa è stanca, nell'Europa del benessere e in America. La nostra cultura è invecchiata, le nostre Chiese sono grandi, le nostre case religiose sono vuote e l'apparato burocratico della Chiesa lievita, i nostri riti e i nostri abiti sono pomposi. Queste cose però esprimono quello che noi siamo oggi? (...) Il benessere pesa. Noi ci troviamo lì come il giovane ricco che triste se ne andò via quando Gesù lo chiamò per farlo diventare suo discepolo. Lo so che non possiamo lasciare tutto con facilità. Quanto meno però potremmo cercare uomini che siano liberi e più vicini al prossimo. Come lo sono stati il vescovo Romero e i martiri gesuiti di El Salvador. Dove sono da noi gli eroi a cui ispirarci? Per nessuna ragione dobbiamo limitarli con i vincoli dell'istituzione».

Chi può aiutare la Chiesa oggi? «Padre Karl Rahner usava volentieri l'immagine della brace che si nasconde sotto la cenere. Io vedo nella Chiesa di oggi così tanta cenere sopra la brace che spesso mi assale un senso di impotenza. Come si può liberare la brace dalla cenere in modo da far rinvigorire la fiamma dell'amore? Per prima cosa dobbiamo ricercare questa brace. Dove sono le singole persone piene di generosità come il buon samaritano? Che hanno fede come il centurione romano? Che sono entusiaste come Giovanni Battista? Che osano il nuovo come Paolo? Che sono fedeli come Maria di Magdala? Io consiglio al Papa e ai vescovi di cercare dodici persone fuori dalle righe per i posti direzionali. Uomini che siano vicini ai più poveri e che siano circondati da giovani e che sperimentino cose nuove. Abbiamo bisogno del confronto con uomini che ardono in modo che lo spirito possa diffondersi ovunque».

Che strumenti consiglia contro la stanchezza della Chiesa? «Ne consiglio tre molto forti. Il primo è la conversione: la Chiesa deve riconoscere i propri errori e deve percorrere un cammino radicale di cambiamento, cominciando dal Papa e dai vescovi. Gli scandali della pedofilia ci spingono a intraprendere un cammino di conversione. Le domande sulla sessualità e su tutti i temi che coinvolgono il corpo ne sono un esempio. Questi sono importanti per ognuno e a volte forse sono anche troppo importanti. Dobbiamo chiederci se la gente ascolta ancora i consigli della Chiesa in materia sessuale. La Chiesa è ancora in questo campo un'autorità di riferimento o solo una caricatura nei media? Il secondo la Parola di Dio. Il Concilio Vaticano II ha restituito la Bibbia ai cattolici. (...) Solo chi percepisce nel suo cuore questa Parola può far parte di coloro che aiuteranno il rinnovamento della Chiesa e sapranno rispondere alle domande personali con una giusta scelta. La Parola di Dio è semplice e cerca come compagno un cuore che ascolti (...). Né il clero né il Diritto ecclesiale possono sostituirsi all’interiorità dell'uomo. Tutte le regole esterne, le leggi, i dogmi ci sono dati per chiarire la voce interna e per il discernimento degli spiriti. Per chi sono i sacramenti? Questi sono il terzo strumento di guarigione. I sacramenti non sono uno strumento per la disciplina, ma un aiuto per gli uomini nei momenti del cammino e nelle debolezze della vita. Portiamo i sacramenti agli uomini che necessitano una nuova forza? Io penso a tutti i divorziati e alle coppie risposate, alle famiglie allargate. Questi hanno bisogno di una protezione speciale. La Chiesa sostiene l'indissolubilità del matrimonio. È una grazia quando un matrimonio e una famiglia riescono (...). L'atteggiamento che teniamo verso le famiglie allargate determinerà l'avvicinamento alla Chiesa della generazione dei figli. Una donna è stata abbandonata dal marito e trova un nuovo compagno che si occupa di lei e dei suoi tre figli. Il secondo amore riesce. Se questa famiglia viene discriminata, viene tagliata fuori non solo la madre ma anche i suoi figli. Se i genitori si sentono esterni alla Chiesa o non ne sentono il sostegno, la Chiesa perderà la generazione futura. Prima della Comunione noi preghiamo: "Signore non sono degno..." Noi sappiamo di non essere degni (...). L'amore è grazia. L'amore è un dono. La domanda se i divorziati possano fare la Comunione dovrebbe essere capovolta. Come può la Chiesa arrivare in aiuto con la forza dei sacramenti a chi ha situazioni familiari complesse?»

Lei cosa fa personalmente? «La Chiesa è rimasta indietro di 200 anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio? Comunque la fede è il fondamento della Chiesa. La fede, la fiducia, il coraggio. Io sono vecchio e malato e dipendo dall'aiuto degli altri. Le persone buone intorno a me mi fanno sentire l'amore. Questo amore è più forte del sentimento di sfiducia che ogni tanto percepisco nei confronti della Chiesa in Europa. Solo l'amore vince la stanchezza. Dio è Amore. Io ho ancora una domanda per te: che cosa puoi fare tu per la Chiesa?».

Georg Sporschill SJ, Federica Radice Fossati Confalonieri

mercoledì 24 giugno 2009

Messaggio Littizzetto a Maria (Star) Gelmini sulla scuola

..Magari questo aiuta qualcuno a riflettere... perdonate l'ultimissima parte un po' scurrile. Ringraziamo "neumanesimo" di YouTube

Da questo punto invece sovrascrivi a queste parole la sua continuazione in modo che la pagina principale del blog non sia appesantita e chi vuole continuare la lettura deve cliccare su continua. (naturalmente puoi dopo sopprimere la linea vuota

domenica 25 gennaio 2009

La Teoria dell'Attaccamento

Carissimi Amici… vi posto qui un pezzo scritto interamente da me. Essendo il primo articolo, che risale a circa un anno fa e che scrivo interamente per il web, vorrei il parere un po' di tutti voi… e… SIATE CLEMENTI!!

La Teoria dell'Attaccamento

Il termine “attaccamento” ha un significato generale e rimanda alla condizione di attaccamento di un soggetto: il sostenere che un bambino ha un attaccamento vuol dire che egli avverte il bisogno di percepire la vicinanza ed il contatto fisico con una persona di riferimento, soprattutto in particolari situazioni. Secondo John Bowlby (psicanalista) l’attaccamento è un qualcosa che, non essendo influenzabile da situazioni momentanee, perdura nel tempo, si struttura nei primi mesi di vita intorno ad un'unica figura; molto probabile è che tale legame si instauri con la madre, dato che è la prima ad occuparsi del bambino, ma, come Bowlby ritiene, non sussiste nessun dato che avalli l’idea che un padre non possa diventare figura di attaccamento nel caso in cui sia lui a dispensare le cure al bambino. Con la crescita, l’attaccamento che si viene a formare tramite la relazione materna primaria o con un "caregiver di riferimento", si modifica e si estende ad altre figure, sia interne che esterne alla famiglia, fino a scomparire: nell’adolescenza e nella fase adulta il soggetto avrà maturato la capacità di separarsi dal caregiver primario e legarsi a nuove figure di attaccamento. Bowlby riteneva che l’attaccamento si sviluppa attraverso alcune fasi e che possa essere di tipo "sicuro" o "insicuro". Un attaccamento di tipo sicuro si ha se il bambino sente di avere dalla figura di riferimento, protezione, senso di sicurezza, affetto; in un attaccamento di tipo insicuro invece il bambino riversa sulla figura di riferimento comportamenti e sentimenti come instabilità, prudenza, eccessiva dipendenza, paura dell’abbandono. Il comportamento di attaccamento è stabile e profondo fino a circa tre anni, età in cui il bambino acquisisce la capacità di mantenere tranquillità e sicurezza in un ambiente sconosciuto; deve però essere in compagnia di figure di riferimento secondarie ed avere la certezza che il caregiver faccia presto ritorno.

L’importanza del legame di attaccamento.
Per Bowlby è molto importante che il legame di attaccamento si sviluppi in maniera adeguata, poiché dipende da questo un buono sviluppo della persona: stati di angoscia e depressione, in cui un soggetto si può imbattere durante l’età adulta, possono essere ricondotti a periodi in cui la persona ha fatto esperienza di disperazione, angoscia e distacco durante l’infanzia. Secondo Bowlby il modello di attaccamento, sviluppatosi durante i primi anni di vita, è qualcosa che va a caratterizzare la relazione stessa con la figura di riferimento durante l’infanzia. Questo diviene successivamente un aspetto della personalità e un modello relazionale per i futuri rapporti. Rilevanti sono le difficoltà di sviluppo per i bambini che vivono fin dalla tenera età in istituti, di quanti vengono separati dalla figura di riferimento e di coloro che hanno a fianco un caregiver incapace di provvedere convenientemente alla loro cura…

Tutta questa teoria, proveniente dai banchi di scuola (dal mio banco di scuola) perché? Beh, cerco di spiegarvelo subito.

Questa teoria dell’attaccamento è stata ipotizzata e dimostrata da molti altri psicologi, Bowbly fu il primo, e devo riconoscere che tutti hanno sostenuto questa teoria con validi argomenti. Vi sembrerà strano, ma questo come può non rimandarci al nostro rapporto con il Signore? Siamo “attaccati” a Lui o no? Ne sentiamo il bisogno? Ci sentiamo disorientati se non lo percepiamo come prima? Il rapporto con il Signore non può non essere paragonato a quello della mamma con il bimbo. Ci sono delle differenze sostanziali però per noi… Ad esempio, se la mamma ad un certo punto scompare dagli occhi del bimbo, il bimbo piange, ma non tanto perché la mamma gli manca già, ma piuttosto perché non è ancora in grado di realizzare a livello cognitivo che la mamma può tornare (e lo farà si spera!). Ma a noi quando il Signore manca (partiamo da questa condizione, altrimenti cadiamo nelle sabbie mobili) siamo in grado di pensare che non se ne è mai andato in realtà? Non mi preoccupo del fatto che siamo in grado di pensare che il Signore torna… Lui non torna… il Signore non torna mai. Perché non se ne va mai!! Attaccamento vuol dire essere dipendenti dall’oggetto dell’attaccamento: il bimbo senza la mamma o qualcuno a cui è “attaccato” non sopravvive. Noi a volte sopravviviamo tanto bene… senza gli altri… addirittura senza il Signore. E ci illudiamo di essere delle isole quando invece siamo come tanti capillari di un’unica vena. A parte questo, non abbiamo mai pensato che anche noi siamo dipendenti da Lui? Ma non lo siamo perché lo vediamo come nell’Antico Testamento: se non lo esaudiamo, se non obbediamo ai suoi comandamenti, ci schiaccerà… assolutamente no! Siamo dipendenti dal Suo Amore!! Lui stesso dice di amarci: «Quando Israele era giovinetto, io l’ho amato… Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore; ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare» (Os 11,1.4). E se Lo percepiamo meno, se ci sembra che non ci ascolti, che non prenda in considerazione i nostri desideri, i nostri bisogni, dobbiamo ascoltarlo per AMORE! Dico ascoltarlo, perché Gesù c’è tanto più nel silenzio che in tanti comizi elettorali. Il bambino a 3 mesi quando ha fame urla come se lo stessero trafiggendo con una lama e la mamma non può dire: “scusa, piangeresti un pochino più piano che sto facendo dell’altro?”… Allo stesso modo il Signore non lo chiede mai a noi. Non ci dice mai di non pregare proprio in quel momento che ha cosa ben più importanti da fare. Scherziamo??? Stiamo parlando di Gesù: “Come una madre consola un figlio così io vi consolerò” (Is 66,13). È pur vero che noi non siamo più bambini. E possiamo pazientare che il Suo progetto si svolga… su di noi, sugli altri, anche se non capiamo dove si debba arrivare. L’attaccamento è un processo necessario per la crescita del bambino e condizionerà tutta la sua vita. A questo punto immagino che ognuno di noi stia pensando: “Beh, da piccolo mia mamma mi ha voluto bene, sono cresciuto bene io…” Ma il problema principale non è questo. Ci abbiamo mai pensato che nella nostra mamma c’era il Signore mentre ci accudiva?… che pensieri impegnativi… eppure non c’è niente di più ovvio.
Perché preoccuparsi se il salmista dice:
Io sono tranquillo e sereno come bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l’anima mia”? (Sal 130).

L'Educazione è cosa del cuore


Dalle Lettere di san Giovanni Bosco

Se vogliamo farci vedere amici del vero bene dei nostri allievi

ed obbligarli a fare il loro dovere, bisogna che voi non dimentichiate mai che rappresentate i genitori di questa cara gioventù che fu, sempre tenero oggetto delle mie occupazioni, dei miei studi, del mio ministero sacerdotale, e della nostra Congregazione salesiana. Se perciò sarete veri padri dei vostri allievi, bisogna che voi ne abbiate anche il cuore; e non veniate mai alla repressione o punizione senza ragione e senza giustizia, e solo alla maniera di chi vi si adatta per forze e per compiere un dovere.

Quante volte, miei cari figliuoli, nella mia lunga carriera ho dovuto persuadermi di questa grande ve­rità! È certo più facile irritarsi che pazientare: minacciare un fanciullo che persuaderlo: direi ancora che è più comodo alla nostra impazienza ed alla nostra superbia castigare quelli che resistono, che correggerli col sopportarli con fermezza e con benignità. La carità che vi raccomando è quella che adoperava San Paolo verso i fedeli di fresco convertiti alla religione del Signore, e che sovente lo facevano piangere e supplicare quando se li vedeva meno docili e corrispondenti al suo zelo.

Difficilmente quando si castiga si conserva quella calma, che è necessaria per allontanare ogni dubbio che si opera per far sentire la propria autorità, o sfogare la propria passione.

Riguardiamo come nostri figli quelli sui quali abbiamo da esercitare qualche potere. Mettiamoci qua si al loro servizio, come Gesù che venne ad ubbidire e non a comandare, vergognandoci di ciò che potesse aver l'aria in noi di dominatori; e non dominiamoli che per servirli con maggior piacere. Così faceva Gesù con i suoi apostoli, tollerandoli nella loro ignoranza e rozzezza, nella loro poca fedeltà, e col trattare i peccatori con una dimestichezza e familiarità da produrre in alcuni lo stupore, in altri quasi lo scandalo, ed in molti la santa speranza di ottenere il perdono da Dio. Egli ci disse perciò di imparare da lui ad essere mansueti ed umili di cuore (Mt 11,29).

Dal momento che sono i nostri figli, allontaniamo ogni collera quando dobbiamo reprimere i loro falli, o almeno moderiamola in maniera che sembri soffocata del tutto. Non agitazione dell'animo, non disprezzo negli occhi, non ingiuria sul labbro; ma sentiamo la compassione per il momento, la speranza per l'avvenire, ed allora voi sarete i veri padri e farete una vera correzione.

In certi momenti molto gravi, giova più una raccomandazione a Dio, un atto di umiltà a lui, che una tempesta di parole, le quali, se da una parte non producono che male in chi le sente, dall'altra parte non arrecano vantaggio a chi le merita.

Ricordatevi che l'educazione è cosa del cuore, e che Dio solo ne è padrone, e noi non potremo riu­scire a cosa alcuna, se Dio non ce ne insegna l'arte, e non ce ne mette in mano le chiavi.

Studiamoci di farci amare, di insinuare il sentimento del dovere del santo timore di Dio, e vedremo con mirabile facilità aprirsi le porte di tanti cuori ed unirsi a noi per cantare le lodi e le benedizioni di Colui, che volle farsi nostro modello, nostra via, nostro esempio in tutto, ma particolarmente nell'educazione della gioventù.

giovedì 23 ottobre 2008

I due volti di Madame le professeur

Marguerite Aron
La storia dell’educazione delle donne nei secoli è sempre stata soggetta a discriminazioni e barriere, sconcerta però constatare come anche in tempi recenti - mi riferisco alla fine dell’Ottocento e agli inizi del Novecento - nella pur progressista e illuminata Francia ancora resistenze e pregiudizi fossero ben vivi e tenaci.
La ben conosciuta e rinomata scuola di Sèvres che avrebbe diplomato quelle giovani donne dette poi sévriennes, cioè la prima generazione di insegnanti nella scuola secondaria francese, era stata aperta solo nel 1881. In Senato, durante la discussione sull’opportunità di aprire una scuola Normale Superiore per le ragazze, un senatore conservatore ebbe a dire dinnanzi a un’idea così innovativa: «Un seminario laico per ragazze che vorrebbero essere delle signore professoresse, non sono abituato a questo tipo di mostri!».
Le giovani invece si sentivano pioniere del futuro, educate per creare l’anima della nuova donna, oltre che ad afferrare la grandezza e la bellezza del ruolo dell’educatrice. La lotta di queste coraggiose giovani per farsi accettare dalla società fu di non poco conto, pregiudizi e tabù gravavano ancora sulla donna che si sarebbe dedicata all’insegnamento superiore. La novità procurò notevoli commenti e disagi a queste «donne nuove» della Terza Repubblica: una barriera fu frantumata da queste giovani che passarono dal livello generico di istitutrici a quello socialmente riconosciuto di insegnanti a livello superiore. Inoltre, gli schemi e i parametri maschili non dovevano diventare impositivi e determinanti si apriva allora un tracciato inedito, tutto femminile.
La targa che ricorda tutte le Sévriennes morte per la Francia, non porta un nome, quello di Marguerite Aron che morì vittima della furia distruttrice del nazismo. Nata in una famiglia ebraica a Parigi nel 1873 nel ix arrondissement, nei pressi della stazione Saint-Lazare, Marguerite al compiere dei sette anni ricevette in dono dal nonno Aronhauser il libro delle preghiere degli ebrei d’Alsazia. Margherite, culturalmente, venne allevata sulle «ginocchia dell’università» e assorbì idee scettiche e indifferenti verso il cattolicesimo.
Un dissesto economico familiare costrinse la giovane ragazza, che si sentiva inclinata agli studi universitari, a virare invece nel 1893 verso quell’istituto di studi della Scuola Normale di Sèvres, detto Couvent laïque. La sua formazione fu quindi quella dell’insegnante, professione che intraprese una volta diplomata, dapprima in provincia, poi a Versailles e infine a Parigi. Il metodo e la personalità «del mostro» suscitarono notevoli problemi, tanto da venire invitata a non allargare troppo le idee delle allieve e a non prestare loro libri! Un problema però angustia madame le professeur ed è quello della sua vocazione nella vita: «Come vorrei avere una vocazione chiara, imperiosa, senza repliche! Eppure non ce l’ho. Appartengo a quel tipo di persone equilibrate e mediocri che riescono un poco dappertutto, senza riuscire da nessuna parte, che esitano, ponderano, che si servono di una parte della loro attività nel domandarsi che cosa vogliono fare (...) Quando ero piccola, era già il mio cruccio: sognavo d’avere una vocazione». Quando ancora frequentava la scuola di Sévres, Marguerite nelle sue sterminate letture si era imbattuta e aveva letto Pascal, mentre l’Imitazione di Cristo, per l’austero ascetismo non entrò nel suo spirito. Fu invece toccata nel profondo da un altro incontro con una persona di spicco nel suo tempo: il domenicano Héribert che aveva fondato il Circolo Veritas, nei cui interessi culturali religiosi poneva un accento ben preciso sul ruolo del popolo di Israele nella storia della salvezza. Si ignora come Marguerite ne incontrò il fondatore, però ne seguiva le attività e cominciò a percepire dentro di sé un richiamo interiore che promanava dalla sua stessa stirpe ebraica. Iniziò quindi il cammino della conversione al cristianesimo su cui ella mantenne sempre un silenzio denso di discrezione; un indizio può tuttavia gettare luce su quanto le accadde se ci si riferisce a quanto scrisse su Marie-Alphonse Ratisbonne: «Egli, d’un sol colpo, ricevette tutto, fede, luce; venne folgorato e illuminato, la sua partenza è l’arrivo degli altri». Sempre in lei rimarranno presenti «due tempi, due volti», non in conflitto ma in complementare armonia, ebraismo e cristianesimo.
Marguerite fu battezzata nel 1914 e si legò alla spiritualità e all’attività domenicana: collaborazioni a riviste quali La Vie intellectuelle e La Vie spirituelle, un vivo gusto per la ricerca e la scrittura di tanti libri di spiritualità, brillanti conferenze e l’animazione di circoli aperti ai liceali.
Fondamentale fu il suo avvicinamento all’abbazia di Solesmes dove giunse per la prima volta l’8 settembre 1930, frequentandola durante la Settimana Santa e per periodi personali di ritiro e riflessione, insieme con un fedele gruppo di amici.
La sua maturazione religiosa fu progressiva e attenta: «Giunge il momento in cui le cerimonie che incantavano annoiano, che all’ufficiatura solenne si preferisca l’orazione silenziosa. Ma se si è veramente figli della Chiesa universale si capisce poi che tutto questo non fa che un grande tutto la cui cifra è la lode, l’amore, l’obbedienza».
Un tratto della sua spiritualità fu anche il legame con Maria la Madre di Gesù; aveva scritto commentando le xilografie della Via Crucis di Raymond Dubois: «In Lui, tutti i morti della stirpe sono presenti, quelli dei secoli passati, quelli dei secoli futuri; e dopo il sacrificio di Abele, prima vittima del genere umano, mai nessun prete ha avuto o ha offerto una simile ostia (...) È così che Maria diviene la Madre di tutte le grazie, la misericordiosa dispensatrice del perdono, la tesoriera del sangue di Gesù».
Marguerite conobbe anche e strinse grande amicizia con quella che sarebbe divenuta la beata Ursula Ledochowska, la fondatrice delle Orsoline, la cui storia si deve alla sua penna.
Malgrado la persecuzione nazista che infuriava in Europa, Marguerite non volle lasciare Solesmes e nascondersi. Non solo ma osò ospitare nella sua casa un’ebrea ricercata, Elisabeth Cahen d’Anvers. Le due anziane, evidentemente denunciate, il 26 gennaio 1944 mentre uscivano dalla celebrazione della messa furono arrestate e deportate. Il 13 gennaio il convoglio giunse ad Auschwitz, quasi certamente Marguerite non superò la selezione del dottor Mengele che eliminava immediatamente i «pezzi» che contavano più di cinquant’anni, così ella condivise con il suo popolo l’odio contro il popolo di Israele e i suoi due volti trovarono, nel martirio silenzioso e sconosciuto ai più, quella pace e quell’unità cui tutti aneliamo.

di Cristiana Dobner in Osservatore Romano, 22 ottobre 2008
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