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Visualizzazione post con etichetta Cristiana Dobner. Mostra tutti i post
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domenica 15 febbraio 2009

Colloquio di studio su Edith Stein



La testimonianza filosofica ed umana di E. Stein continua ad interpellare i giovani d'oggi; il suo iter di maturazione umana che la condusse fino alla dedizione assoluta è iter di santità.
Al Coloquio di Studio organizzato dal Carmelo Teresiano di Enna, Cristiana Dobner, prenderà parte in video conferenza, soffermandosi in modo particolare sull'irruzione di Dio che, in Edith Stein, si palesò soprattutto come Verità.

martedì 10 febbraio 2009

Eluana Englaro - Una traccia feconda

La sua morte e le nostre domande

Il tessuto della vita umana si è lacerato, definitivamente, il punto di non ritorno non è stato raggiunto con esperimenti scientifici o in base a protocolli legali, Eluana ha dimostrato di essere persona e persona viva, con decisione propria. Ha riconosciuto il suo momento.
Attraversare quella linea che separa il tempo dal non tempo è inscritto già nel nostro nascere, non saremmo persone umane se così non fosse. Tutto il creato conosce questo moto che procede inesorabile. Non è però da tutti poterlo attraversare facendolo proprio, non con un’eutanasia indotta o provocata, ma con il gesto di colui che lancia in mare, per l’ultima volta, la sua barca e poi la segue, iniziando così l’ultimo grande viaggio. Solenne perché la partenza è nota, è nostra, l’arrivo desiderato e amato, se si è vissuti nella fede, perché è il Volto del Padre, ma pur sempre con un margine di non conoscenza che scuote la nostra natura umana.
Mentre scoccavano le sue ultime ore, riandavo ad una xilografia antica, conservata in un’abbazia, in cui il Padre abbraccia il Figlio inchiodato sulla Croce, mentre lo Spirito aleggia sopra di loro. Un abbraccio che sostiene, che dona forza nella paura attanagliante della prospettiva di un deserto in cui mancano cibo e acqua, non perché non ci sono o sono esauriti, ma perché, consapevolmente, ti sono stati negati e sottratti.
Questo è l’oltraggio più tagliente: chi con te cammina e condivide l’esistenza, proprio questi ti costringe nella trappola di un deserto che non conosce oasi. Da qui, la grande marea montante e impetuosa del panico che avvinghia e che conosce una sola uscita: lasciarsi travolgere.
Nell’abbraccio del Padre però Eluana non è stata travolta ma accolta, fin da quando l’amore dei genitori l’ha immessa nella storia, un grembo che stringe sempre generando e ricomponendo, quando gli eventi del quotidiano ammaccano.
Per i credenti, tutta la Chiesa, non in una massa anonima ma in una comunità di volti conosciuti, è sempre stata pulsante intorno a lei e con lei, tutti con l’empatia dettata dall’appartenere alla grande schiera di coloro che sono stati in cammino verso il Padre, ciascuno a suo tempo e nel suo proprio segmento di storia.
Il silenzio della lastra di marmo che la copriva ora si è rotto, ma rimane il nostro, forse finalmente non ribollente, privo del rumore delle parole polemiche e degli interventi di schieramento, ma ricco della nostra umanità condivisa e partecipata dinanzi ad una realtà che sempre ci supera e ci interpella.
Il bozzolo di pietra si è scisso e si è schiuso, non verso la pianura degli asfodeli del mondo greco, ma verso quel giardino in cui il Creatore passeggia alla brezza della sera e parla con gli uomini e con le donne, guardandoli in volto.
Non si percepisce estraneità e tristezza in questo lasciare noi ancora viandanti, perché Eluana ha impresso una traccia feconda che ha suscitato le grandi interrogazioni, sempre micidialmente senza esiti, ma simultaneamente lo slancio delle risposte concrete, intrise di dedizione, di amore, per mesi e anni di prossimità gratuita.
La sua debolezza non parlò il linguaggio dell’inefficienza, dell’inutilità ma quello della fragilità della nostra argilla che, improvvisamente, può cedere nella sua struttura e ridursi ad un ammasso informe.
Nessuno nella vita è forte oppure ha acceso un contratto di garanzia di riuscita, di vigore, di potenza; tutti se non sono deboli, possono diventarlo domani. Tutti, solo se coesi e solidali possiamo arginare la nostra argilla, ridarle forma con qualche colpo di pollice amico.
Chi è debole diventa quella leva che aziona i pensieri segreti trattenuti nel più intimo del cuore, che emergono senza steccati e rivelano la verità del sentire.
Una fecondità nuova può venire a noi proprio da Eluana, una presa di coscienza verso gli inermi, verso chi non può neppure tendere la mano ma ha bisogno che sia afferrata per resistere. Nessun secolo è stato indenne dalla sofferenza fisica o mentale, dalle malattie o dai disastri ecologici, la vita però non ha mai perso la speranza.
Margherite Yourcenar chiamava il transito “morire a occhi aperti”, Eluana vissuta ad occhi aperti, ha deciso lei stessa che il suo soffio avrebbe trovato il riposo, si sarebbe potuto adagiare nel grande Soffio dello Spirito.
Il respiro donatole in quel soffio creatore non si è spento o si è esaurito, il Creatore stesso lo ha raccolto nell’abbandono del primitivo gesto di amore, in quel bacio che suggella il ritorno a casa, soffio nel Soffio.

di Cristiana Dobner, carmelitana scalza, in SIR, 10 febbraio 2009

domenica 8 febbraio 2009

Grido Muto


Nota su Eluana Englaro

Il silenzio avvolge Eluana da tanti anni, sembra che una lastra di marmo impedisca ogni contatto, ogni rapporto, quando la persona umana invece è dialogo, parola, corrispondenza sensibile. La conclusione parrebbe lineare: Eluana non è una persona umana, meglio, non lo è più, perché vive una condizione di morte, di assenza. La parola, espressa ed accolta, è indubbiamente la condizione privilegiata della comunicazione ma, se ad essa non fosse sotteso il silenzio, sarebbe solo borbottio, susseguirsi di suoni. Chi ha saputo entrare nel silenzio di Eluana, perché ogni giorno si è chinato su di lei e si è preso cura di ogni sua necessità, ha appreso una nuova lingua, una comunicazione che passa nell’immobilità attraverso quanto abbiamo di più sensibile: la nostra pelle, il nostro semplice esistere. Noi siamo pelle, siamo dentro questo sacco che ci contiene e che dice chi noi siamo. La rispondenza ci attraversa senza che ce ne rendiamo conto. Quante volte ci riscontriamo sensibili a presenze silenti? Al nostro sentire lasciato libero, senza coercizioni?
Mi infilo nel sacco di Eluana e provo a comunicare e mi risulta impossibile, ma trasmetto onde, dolore, sensibilità, gratitudine. La sofferenza e il dolore, da sempre hanno attanagliato l’esistenza umana con i loro interrogativi ineludibili e senza risposta. Non possedere, cioè tenere argomentata una risposta non significa essere irrazionali o dementi. Significa camminare nella storia delle persone con il cuore che pulsa dinanzi al mistero che procede con noi e che suscita, questo sì, una risposta precisa dinanzi al fratello o alla sorella che sta incidendo, nel grande mosaico della storia, la sua tessera con il proprio dolore. Significa porgere la mano e prestare ascolto al grido che lacera il nostro quotidiano e ci distoglie dalla ricerca del welfare, del benessere, della corsa alla carriera, dalla vacuità. Il grido muto di Eluana percorre le tenebre e le lacera, ed è luce perché la sua drammatica realtà comporta l’interrogativo ultimo sul nostro esistere e sul nostro essere e contiene anche la nostra risposta, se la vogliamo dare.
I genitori hanno donato la vita e l’esistenza, ma l’hanno donata per sempre, non diventiamo mai un numero – ed è spontaneo ricorrere alla barbarie nazista- non diventiamo mai un caso, siamo sempre figli e figlie da scortare nel tratto di esistenza che ci è riservato. Non sono medico e non posso esprimere pareri scientifici, ma sono persona che respira e che ha potuto stare accanto ad una sorella che, nella stessa situazione di Eluana, respirava e nulla più. Per noi, sue sorelle, il suo silenzio, la sua immobilità, erano celebrazione, rimando a realtà più grandi, ad uno stare insieme perché si è giunti a quel punto in cui tutto crolla, ma l’essere e il suo destino eterno rimane. La dignità del morire risiede, negli ultimi istanti, nella comunione di consapevolezza che circonda chi è morente, non nella rapidità dell’eliminazione senza agonia, ma nel riconsegnare il respiro a Colui che lo ha donato. Con quale consapevolezza Eluana respira?
Con la nostra, con quella comunione che stringe e non avvinghia chi, attonito ed addolorato, fa cerchio intorno. Soprattutto quando il silenzio grava e morde. Il Creatore sta piangendo con noi: piange con Eluana in quel pianto silenzioso che non udiamo, piange con noi che non sappiamo lasciarci intridere da quelle lacrime e dare una svolta alla nostra mentalità. Vita non è solo efficienza, “normalità”, vita è dono che consacra il tempo e la storia, vita è flusso continuo di grazia, di amicizia. Se la nostra vicinanza solidale ed orante continua a stringere la mano di Eluana, quanto più il Signore che la abita, la sta accompagnando. Non è retorica o pia devozione, è certezza di fede e rispetto per ogni essere umano che non si può eliminare con strumenti giuridici o scientifici, ma che si deve solo accogliere e servire. E non è retorica immaginifica ma realtà, chiedersi quanto Eluana percepisca, se non proprio oda, di tutto il nostro tramestio che rompe il suo silenzio e lo rende ancora più doloroso perché non accogliamo lei così com’è ma come noi vorremmo fosse. La lastra di marmo la frantuma soltanto l’accoglienza amorosa di Eluana che declina una lingua nuova per comunicare nel più profondo, per dare al silenzio il suo valore di attesa, di restituzione, di figlia e sorella che attende solo un abbraccio caldo e solidale e non un giudizio sulla sua esistenza, se già lo da lei con il suo respiro.

di C. Dobner, in SIR, Domenica 08 Febbraio 2009, ore 13:45

lunedì 19 gennaio 2009

L'impeto dell'irruzione


Leggendo il messaggio dei vescovi

Con tutto il rispetto e l'ammirazione dovuta al genio di Simone Weil qua e là un colpo di pollice al suo pensiero è dovuto; scriveva: "Come gli indù hanno visto, la grande difficoltà per cercare Dio è che lo portiamo al centro di noi stessi. Come andare verso di me? Ogni passo che compio mi conduce fuori di me. È per questo che non si può cercare Dio. Il solo procedimento è di uscire da sé e di contemplarsi dall'esterno. Allora dal di fuori, si vede al centro di sé Dio tale qual è. Uscire da sé è la rinuncia totale ad essere qualcuno, il consenso completo ad essere qualcosa".
Prova a cercarLo e continuerai a cercarLo senza sosta perché rischi di non trovarLo, mai e in nessun luogo, neppure con il procedimento suggerito dalla filosofa francese.
Noi non conosceremmo Dio se Dio stesso non fosse venuto verso di noi. Il movimento è decisamente di segno opposto. Il messaggio della Cei per la Giornata della vita consacrata lo sottolinea con vigore e autorevolezza, citando lo stesso Benedetto XVI: "Tutto ciò che Paolo fa, parte da questo centro. La sua fede è l'esperienza dell'essere amato da Gesù Cristo in modo tutto personale; […] è l'essere colpito dall'amore di Gesù Cristo, un amore che lo sconvolge fin nell'intimo e lo trasforma; [...] è l'impatto dell'amore di Dio sul suo cuore".
E, se si parla di impatto non si parla di scontro o di inciampo. In modi diversi, tanti quanti sono i volti delle persone, Dio irrompe. Quando crede e come crede e, soprattutto con chi crede. Ma irrompe. Vale a dire si fa sentire, si rende percettibile, in sfumature dalla diversa cromatura, fino a far dire a Paolo "l'amore del Cristo ci possiede" (2Cor 5,14). Tre sono le dimensioni che il verbo greco contiene ed esprime nell'amore agapico di Cristo:
- ci avvolge: è un abbraccio che stringe? Una nube che circoscrive? Una luce che penetra e stacca da tutto? Un sussurro che annulla ogni richiamo? Ognuno, secondo l'antico detto, reagisce … secondo il proprio recipiente!
- ci coinvolge: non è un punzone di qualità però inerte, è come il morso di una tarantola che mette in movimento ma per la vita non per la morte. Richiede tutta la persona perché il Tutto ha donato tutto.
- ci travolge: perché il mutamento scatta e contagia. Le dimensioni di prima appaiono (e forse sono) insufficienti, limitanti. Abbatte perché crea. Quella gamba ferita di Inigo de Loyola che preludeva alla fine della sua carriera militare e di corte per un'infermità inaccettabile, è diventata la sua salvezza e la salvezza di tanti.
Irruzione significa moto irruente, inarrestabile, movimento che nessuno può fermare, ostacolare e , malgrado, tutti i monitoraggi odierni neppure prevedere. Nessun sensore scatta in preallarme.
L'irruzione avviene e poi si constata.
Con buona pace di Simone Weil, peraltro acuta e fine interprete del sentire umano, Edith Stein invita invece ad entrare dentro di noi, a lasciarci trasportare dall'impeto dell'irruzione, di Lui che si fa presente e pone un pressante e ineludibile interrogativo: Lo accetto o lo rifiuto? È in gioco la libertà.
Chi nel vortice subito comprende che Cristo lo vuole tutto per il Padre, quale segno profetico della vita che ci attende, si slancia e accetta i sigilli dei tre voti. Non pensati o ritenuti, ahimè, quali vincoli giuridici, canonici (conoscono anche questo aspetto), ma quale risposta alla Luce che travolge, quale dono di una vita avvolta, coinvolta e travolta dall'amore agapico.
Le battute sulla molteplicità e pluriformità degli Istituti di vita consacrata pullulano ma rivelano un aspetto che dovrebbe far tremare le vene ai polsi: Colui che irrompe e travolge, rispetta nel modo più assoluto la persona e la lascia reagire per quella che è ma con lo stigma dell'Assoluto ormai impresso.
Allora non si è qualche cosa, anche se per Simone Weil tale espressione indica l'esproprio totale, ma si è un "chi" in relazione, viva e pulsante, con il "Chi" che si è rivelato e donato. L'alchimia della pietra filosofale dell'amore è compiuta: la ferita impressa da Colui che irrompe sana e sospinge al servizio del Padre, della Chiesa e dei fratelli. Non dal di fuori guardando Dio, ma dall'interno, nel Dio che ha rotto le barriere trasfigurandole.
Simone Weil si è spesa gratuitamente fino a morire, cioè a donare la vita. Chi porta impresso l'amore agapico nel segno dei tre voti, vive in Colui che è morto per noi e può gridare con Paolo: "Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura". "Per me il vivere è Cristo". Nell'irruzione.
C. Dobner in SIR, 14 gennaio 2009

martedì 6 gennaio 2009

BENEDETTO XVI - La luce e le stelle


Dall’Epifania un messaggio per la vita

La Luce dell’Epifania dal piccolo Bambino si scinde in tre luminosi fasci che colpiscono tre momenti della vita di Gesù Cristo nella storia: i Magi che aprono la strada alla rivelazione del Dio d’Israele ai pagani, aspetto tanto privilegiato dalla sensibilità della tradizione latina; il Battesimo del Signore nelle acque del Giordano, cui guarda con stupore la tradizione orientale; le nozze di Cana in cui Egli si manifestò, compì cioè la sua “epifania”, e i discepoli al mutare dell’acqua in vino credettero in Lui.
Sono solo tre momenti, tre punti, nella storia della salvezza fissati nella cornice di un evento? Sarebbero in questo caso tre punti di luce ma di luce morta, oppure sculture di luce effimera. La misericordia di Dio nel venire incontro all’uomo e alla donna ha donato invece una Luce sempre viva, sempre presente che, irraggiando, stupisce chi vive nella fede. Papa Benedetto, sapientemente, lo rileva: «…che dovremmo dire noi, cari fratelli, specialmente noi sacerdoti della nuova Alleanza, che ogni giorno siamo testimoni e ministri dell’"epifania" di Gesù Cristo nella santa Eucaristia?».
Proprio da questo mistero sacramentale si diparte quella Luce che non abbandona mai, che riesce a penetrare le tenebre di questi giorni insanguinati e burrascosi, in cui ragioni politiche e militari si affrontano con la violenza e non con la diplomazia, con il terrore e non con la chiarezza che possa dirimere le questioni umane. Da questa Luce scaturisce la Luce di ogni giorno, di ogni momento, da cui nessuno, se lo vuole, è escluso: Egli, la Luce, sempre presente nel Sacramento.
Il Padre questa Luce ce la dona, in modo simbolico, nella stella che guida i Magi. Fiumi di inchiostro sono stati spesi per trovarne il nesso scientifico, ricostruirne i percorsi, individuarne la traiettoria. Papa Benedetto tutto questo scavo ben lo conosce, anche perché fede e ragione, fede e scienza, sono in lui dei pungoli, intellettuali e spirituali, che lo sollecitano ad un confronto senza soste, sia nel passo da tenere sia nella profondità delle conoscenze. «Il pensiero cristiano paragona il cosmo ad un "libro" – così diceva anche lo stesso Galileo –, considerandolo come l’opera di un Autore che si esprime mediante la "sinfonia" del creato». Questo “libro” si srotola dinanzi a noi ed è stupendo, suscita una meraviglia sempre nuova, le sue lettere vibrano di Luce e la trasmettono; sembra però che noi, creature umane, tutto si faccia e si tenti di fare per oscurarLa, per cancellare e lettere e pagine.
I disastri ecologici, l’inquinamento, le guerre, i disboscamenti (si potrebbe continuare con un elenco sterminato) costituiscono grandi ombre che coprono o mascherano la Luce. Filtri opachi, vie sabbiose. Eppure la Luce li trapassa, innesta il grande processo alchemico dell’amore, misterioso ma reale, affidato a quella «stella dell’evangelizzazione» che è Maria. Donna che brillò, ma non di luce propria e quindi non gettò fili propri nella storia, ma seppe accogliere la Luce e porgerla, donarla. Il fascio luminoso si diparte da qui, da un grembo che accolse e generò il tutto Luce, il Figlio di Dio che irruppe nelle tenebre e le convertì.
La rivoluzione cosmologica, cui accenna Papa Benedetto dandoci così la chiave di lettura dell’episodio evangelico, scuote le fondamenta del mondo e della storia, impone con la sua Luce la signoria del Servo, che diviene Uomo in carne ed ossa, ma rimane il Dio che governa con armoniosa sapienza il cosmo e lo mette nelle nostre mani: «Non c’è ombra, per quanto tenebrosa, che possa oscurare la luce di Cristo». Allora noi, semplici creature, capaci di gettare ombra, possiamo creare luce, diventare artefici, creatori, se esposti ai raggi luminosi: accogliamo la Luce e tutto da noi sarà trapassato di speranza, di incandescenza che contagia.
Benedetto ci dona anche quell’aspetto simbolico che a tutti è offerto e a cui nessuno può sottrarsi, una volta che il fascio di Luce abbia fatto irruzione nella sua coscienza: «Cari amici, in questo anno paolino, la festa dell’Epifania invita la Chiesa e, in essa, ogni comunità ed ogni singolo fedele, ad imitare, come fece l’Apostolo delle genti, il servizio che la stella rese ai Magi d’Oriente guidandoli fino a Gesù. Che cos’è stata la vita di Paolo, dopo la sua conversione, se non una "corsa" per portare ai popoli la luce di Cristo e, viceversa, condurre i popoli a Cristo? La grazia di Dio ha fatto di Paolo una "stella" per le genti».
Questa Luce ci fa stella, se lo desideriamo. Ogni giorno.

di Cristiana Dobner, in SIR, martedì 06 gennaio 2009

venerdì 21 novembre 2008

Vivere l'armonia

Nel monastero le dimensioni dell'esperienza umana

Di secoli ne sono passati proprio tanti, pari o tutt'al più inferiori, alle parole sprecate nel recriminare contro le claustrali, tanto da non valer neppure la pena di offrirne un assaggio!
Passiamo da questo "happy hour" al vero banchetto: quello della Parola che ogni giorno la Chiesa offre a chi voglia prendervi parte.
Vita contemplativa non significa vita reclusa o imbottigliata, significa fare dello spazio dello propria vita lo spazio della Parola. Esserne talmente magnetizzate che ogni uscita dalla Parola - Gesù Cristo, presente nell'Eucaristia e nella Sacra Scrittura - non viene neppure ipotizzata. La relazione con Colui che è presente e con le sorelle crea un'intersoggettività che innerva il quotidiano ed esige di sostare, intendendo così riconoscere alla clausura non il valore di un principio autonomo - si rischierebbe di essere assimilato agli ergastolani - ma la realtà che consente e custodisce la comunione amorosa con Dio e ne fonda la stessa possibilità.
Tutte le persone sono in cammino, lo ammettano o meno, dalla nascita alla morte (per usare il termine autentico e non ricorrere "alla dipartita della cara estinta!") da un dove preciso ad un altro dove, anch'esso preciso, conosciuto e amato nella fede: il Volto del Padre.
Tutta la vita monastica è un pellegrinaggio interiore parallelo a quello esteriore: attraversiamo il deserto guidate dalla colonna di fuoco e dalla nube. Lo attraversiamo come persone in relazione fra di noi, monache, ma dilatate ed aperte alla storia, alle sue vicende, a tutti i fratelli e le sorelle.
Il più piccolo monastero, situato nel borgo più sperduto del mondo, non è un buco in cui la donna-struzzo ha infilato la sua testa per rimuovere il grande spettro della falce... è il punto irradiante, centro del mondo delle relazioni, da cui la Luce di Dio si espande e si rifrange esattamente là dove deve andare, là dove la sofferenza è più acuta, là dove il fratello e la sorella gemono e patiscono.
Uno spazio amato che, purtroppo, viene definito con un termine, clausura, che suscita subito nell'immaginario umano un vortice di chiavistelli, di linee di demarcazione, di sanzioni disciplinari. Indubbiamente la Chiesa, da madre qual è, indica e tutela ma, soprattutto, suscita e incoraggia a permanere nell'ascolto dello Spirito, il solo che, nel silenzio e nella solitudine, sappia schiudere i sentieri del silenzio interiore.
Il rapporto fra le sorelle innerva il quotidiano e il monastero diventa così spazio di equilibrio fra le diverse dimensioni della vita: preghiera, lavoro, studio. Alla ricerca di un'armonia che è una grande sfida: vivere il Vangelo come anticipazione dei beni futuri.
L'insensatezza diventa allora la grande e unica sensatezza cui è chiamata la monaca: scoprirsi abitata per lasciarsi abitare da ogni gioia e dolore, da ogni evento, da ogni grido e da ogni richiamo. Non è un vuoto, è un'apertura proprio come la persona, così insegnava il prof. Ratzinger, è un'apertura all'Infinito. Noi Lo accogliamo e Lo doniamo, come Maria di Nazaret.
di C. Dobner, in SIR, 21 novembre 2008

venerdì 14 novembre 2008

La terrificante parola




Shoah, mai più: l'impegno dei giovani di Europa


Solo il fungo spunta improvvisamente, però ci vuole l'acqua e l'umidità, nelle stagioni secche ben pochi funghi sfondano il terreno ed emergono alla luce.
L'orrore di quella notte, detta "Notte dei cristalli", fu ampiamente preparato, con l'acqua dell'antisemitismo, della propaganda hitleriana, nella violenza delle coscienze.
L'avanzare del nazionalsocialismo nel cuore dell'Europa si prospettava martellante: il 17 agosto 1938 fu stabilito l'obbligo per gli ebrei di assumere il nome di Sarah o di Israel; nell'ottobre dello stesso anno fu imposto l'obbligo della stampigliatura "J"(Jude) sui passaporti degli ebrei.
La situazione chiaramente precipitava e, nella notte fra il 9 e il 10 novembre, scoppiò in un'autentica deflagrazione, soprattutto da parte degli uomini delle SA.
L'esito l'11 novembre fu tangibile, la "Notte dei cristalli", in riferimento ai vetri infranti di case e botteghe, comportò: 36 ebrei uccisi e 36 gravemente feriti, 815 negozi distrutti, 29 magazzini, 171 abitazioni e 191 sinagoghe incendiate, circa 20 mila ebrei arrestati.
Vennero fracassate le vetrine di circa 7.500 negozi e magazzini ebraici . Dietrich Bonhoeffer, nella Bibbia di cui si serviva per la preghiera, sottolineò al salmo 74 il versetto "Hanno dato fuoco a tutte le case del Signore nel paese", e accanto vi scrisse "9.11.38".
La patrona d'Europa Teresa Benedetta della Croce era ormai carmelitana e proprio nel suo monastero di Colonia venne a sapere dell'efferata azione, per prima, perché in quel periodo accoglieva chi bussava alla porta delle carmelitane.
Un'amica delle monache narra: "Il 9 novembre 1938 fui testimone a Euskirchen dell'assalto dei nazionalsocialisti alle case degli ebrei e anche dell'incendio della sinagoga. Il giorno stesso mi recai dalla Serva di Dio al Carmelo e glielo riferii. Stando alla ruota, non potei osservare il suo viso, ma notai che ella diventava sempre più silenziosa e triste. Non si lamentò; disse che il Signore avrebbe vendicato il suo popolo".
Come? Ci chiediamo oggi. Con una "vendetta" che non conosce il sapore delle nostre umane vendette ma con quell'azione di Dio nella storia e nel cuore delle persone che, sempre, è misericordiosa, compassionevole.
Oggi il papa tedesco ci confida che da allora, da quella terribile notte, il dolore abita e feconda il suo cuore avendovi stampato la terrificante parola Shoah. Esplosa nella sua patria, la Germania, nel suo popolo ricco di tradizioni umanitarie e culturali.
Un dolore che la sua persona, quale sacerdote consacrato a Dio per il bene di tutti, ha macerato nella riflessione storica e teologica e in quella orante e oblativa.
Da allora, il giovane ragazzo, nella carta geografica della Shoah che disegnava un ampio arco semicircolare che andava in senso antiorario dalla Norvegia alla Romania e nel cui centro si trovava Auschwitz, porta in sé una cicatrice: la certezza che la Shoah sia lo sterminio offerto dal nazismo alla propria follia, la contaminante profanazione dell'idea stessa di uomo. Un dolore che non conosce espressioni altisonanti o plateali, volte a conquistare le folle o a procacciarsi benefici economici, ma che indica nettamente un percorso proprio di salvezza costruita in dignità e che oggi, offre a tutta l'Europa e a tutto il mondo, i lineamenti precisi della risoluzione.
Il ragazzo Joseph, ora Benedetto XVI, non rimuove o cancella la terribile notte, la guarda in faccia per quello che realmente è: un orrore. Bisogna che non si ripeta e si stani quindi ogni forma "di antisemitismo e di discriminazione" dovunque possa trovare coltura tale germe.
Il papa pensa ai giovani, a quelle persone che ancora possono modellare il cuore e la mente e, concretamente, cambiare le strutture della società impregnate dal mistero dell'iniquità che però non ha mai la meglio, quand'anche sembri prevalere, penultimo sulle realtà ultime vincenti, "rispetto ed accoglienza", apertura per il diverso, per ogni persona o gruppo che non pratichi la propria religione e «solidarietà» a Israele, popolo di Dio.
di C. Dobner, carmelitana scalza, in SIR, 14 novembre 2008

sabato 1 novembre 2008

Il tempo e l'eternità

Dall’«avere e spendere» al «donare e spendersi»

Il fascino della giovinezza che non ha mai fine è il grande imbroglio, occulto o palese, che viene teso a tutti noi dalla moda corrente e dai trend che infestano il nostro quotidiano. Per poco che ci si guardi in giro e si osservi, la corsa all’apparire, al coprire le rughe e allo scoprire i corpi, è frenetica e travolgente. Oggi un mercato fiorente è proprio quello del fitness, del lifting, del silicone, del botulino, di una medicina che non garantisce all’individuo di diventare persona sana e vigorosa ma che gli crea l’illusione di un traguardo inesistente e che si sposta sempre più in là. Comunque che gli anni «si tengano»!
Si rimuove, prima di tutto, la realtà. Quindi la mistificazione concerne l’umano in sé.
Cresce così il degrado sotto tutti i profili, perché la vita come dono di incontro con Dio e fra i fratelli non è più considerata come essere insieme pellegrini, viandanti che, tenendo fisso lo sguardo sul Fratello Gesù, corrono incontro al Padre.
Tutto viene scardinato e inizia la grande corsa che poggia su due piedi con due nomi differenti: Avere e Spendere. L’accumulo, allora, diventa il grande scopo e la meta di ogni desiderio, si accumula tutto e di tutto, così che la casa (e le case) sembrano botteghe di cianfrusaglie e conservano, in bella mostra, tutti gli oggetti e dispositivi del proprio «status symbol». Case esibite, non vissute e che si riducono a dormitori.
Avere e Spendere tengono il passo, lo accelerano e vincono primati... fasulli... Conti in banca opulenti che gli eredi consumeranno come neve al sole, irridendo magari alla fatica sottesa. Residenze geniali ed avanguardiste: vuote di figli, di amici, vuote di calore umano. Crociere da nababbi che stordiscono e consentono di pavoneggiare l’abilità del proprio medico estetista.
Quando ci si stende a letto, posto che Morfeo non giunga subito attirato da qualche pillolletta all’uopo ingurgitata, la coscienza (o quel che ne resta) non ha mai un sobbalzo? Se così avvenisse il cumulo non sarebbe ancora diventato spam!
Il guaio reale è che si corre il contagio: spam genera spam!
Eppure tutti muoiono, cioè abbandonano misteriosamente il loro corpo, anche se reso perfetto dal botulino e dai muscoli sodi e lucidi. Se qualcuno sparge le ceneri dei trapassati con intento religioso e mistico, volendoli unire alla creazione, al suo divenire e al suo ritornare al Creatore, quanti le spargono per non avere più un punto di riferimento, cioè la tomba, che diventa terrificante perché ineludibile?
L’amicizia con Dio, avere sperimentato la Sua Presenza, dentro di noi e nella creazione, genera per Avere e Spendere una nuova identità, trasparente e chiara: Donare e Spendersi .
Donare e Spendersi sa guardare ai fratelli e alle sorelle in simultanea con se stesso, le proprie necessità. I propri desideri allora si aprono, comprendono e accettano quelli degli altri. Come non condividere il pane? La libertà della coscienza e della propria religione? Come non desiderare vantaggiosa per tutti una vita ecologica e pacifica? Donare e Spendersi non conosce l’esibizione, la vanagloria, il tornaconto e non apre la carta di credito. Donare e Spendersi si consuma e sa bene che, solo così facendo, apre il tempo all’eternità, a quella vita in cui tutti ci ritroveremo, deposte le nostre spoglie per ritrovarle trasfigurate.
L’alchimia è certa, scatenata da Donare e Spendersi ora, in tutti i momenti dell’esistenza, per costruire quella città celeste, Gerusalemme, costruita da pietre vive: ciascuno di noi nella sua realtà non mistificata.
Allora il morto, morto non è, risulta vivente nel Vivente, il Cristo dinanzi al Padre.
I nostri trapassati, mancati, estinti, con tutti i sinonimi che si possono inventare, indicano persone che furono insieme a noi ma che già stanno creando il noi eterno, in nostra attesa. Morti e, quindi, santi, non in senso canonico ma ormai come persone che poste dinanzi all’ultima decisione del loro esistere hanno riconosciuto in Dio il Volto del Dio dell’Agape.
Donare e Spendersi non camminano soli, dimenticati, gettati nel tempo e nella storia, camminano con tutti i viventi, sempre in lieto e continuo raccordo, una realtà istantanea che batte e precede Skype. A costo zero perché non esiste moneta, non esiste scambio, esiste solo il gioioso condividere.
Il passo Donare e Spendersi, allora, si fa alacre e ogni ruga diventa geografia di vita sulla crisalide che sembra avvizzita ma invece si sta aprendo alla sua maturità, in piena fioritura. Non in solitudine ma già da ora insieme e pur nell’attesa di poter far parte di quel grande cerchio che loda e canta «l’amore che move il sole e l’altre stelle».
di Cristiana Dobner in Sir, 29 ottobre 2008

giovedì 23 ottobre 2008

I due volti di Madame le professeur

Marguerite Aron
La storia dell’educazione delle donne nei secoli è sempre stata soggetta a discriminazioni e barriere, sconcerta però constatare come anche in tempi recenti - mi riferisco alla fine dell’Ottocento e agli inizi del Novecento - nella pur progressista e illuminata Francia ancora resistenze e pregiudizi fossero ben vivi e tenaci.
La ben conosciuta e rinomata scuola di Sèvres che avrebbe diplomato quelle giovani donne dette poi sévriennes, cioè la prima generazione di insegnanti nella scuola secondaria francese, era stata aperta solo nel 1881. In Senato, durante la discussione sull’opportunità di aprire una scuola Normale Superiore per le ragazze, un senatore conservatore ebbe a dire dinnanzi a un’idea così innovativa: «Un seminario laico per ragazze che vorrebbero essere delle signore professoresse, non sono abituato a questo tipo di mostri!».
Le giovani invece si sentivano pioniere del futuro, educate per creare l’anima della nuova donna, oltre che ad afferrare la grandezza e la bellezza del ruolo dell’educatrice. La lotta di queste coraggiose giovani per farsi accettare dalla società fu di non poco conto, pregiudizi e tabù gravavano ancora sulla donna che si sarebbe dedicata all’insegnamento superiore. La novità procurò notevoli commenti e disagi a queste «donne nuove» della Terza Repubblica: una barriera fu frantumata da queste giovani che passarono dal livello generico di istitutrici a quello socialmente riconosciuto di insegnanti a livello superiore. Inoltre, gli schemi e i parametri maschili non dovevano diventare impositivi e determinanti si apriva allora un tracciato inedito, tutto femminile.
La targa che ricorda tutte le Sévriennes morte per la Francia, non porta un nome, quello di Marguerite Aron che morì vittima della furia distruttrice del nazismo. Nata in una famiglia ebraica a Parigi nel 1873 nel ix arrondissement, nei pressi della stazione Saint-Lazare, Marguerite al compiere dei sette anni ricevette in dono dal nonno Aronhauser il libro delle preghiere degli ebrei d’Alsazia. Margherite, culturalmente, venne allevata sulle «ginocchia dell’università» e assorbì idee scettiche e indifferenti verso il cattolicesimo.
Un dissesto economico familiare costrinse la giovane ragazza, che si sentiva inclinata agli studi universitari, a virare invece nel 1893 verso quell’istituto di studi della Scuola Normale di Sèvres, detto Couvent laïque. La sua formazione fu quindi quella dell’insegnante, professione che intraprese una volta diplomata, dapprima in provincia, poi a Versailles e infine a Parigi. Il metodo e la personalità «del mostro» suscitarono notevoli problemi, tanto da venire invitata a non allargare troppo le idee delle allieve e a non prestare loro libri! Un problema però angustia madame le professeur ed è quello della sua vocazione nella vita: «Come vorrei avere una vocazione chiara, imperiosa, senza repliche! Eppure non ce l’ho. Appartengo a quel tipo di persone equilibrate e mediocri che riescono un poco dappertutto, senza riuscire da nessuna parte, che esitano, ponderano, che si servono di una parte della loro attività nel domandarsi che cosa vogliono fare (...) Quando ero piccola, era già il mio cruccio: sognavo d’avere una vocazione». Quando ancora frequentava la scuola di Sévres, Marguerite nelle sue sterminate letture si era imbattuta e aveva letto Pascal, mentre l’Imitazione di Cristo, per l’austero ascetismo non entrò nel suo spirito. Fu invece toccata nel profondo da un altro incontro con una persona di spicco nel suo tempo: il domenicano Héribert che aveva fondato il Circolo Veritas, nei cui interessi culturali religiosi poneva un accento ben preciso sul ruolo del popolo di Israele nella storia della salvezza. Si ignora come Marguerite ne incontrò il fondatore, però ne seguiva le attività e cominciò a percepire dentro di sé un richiamo interiore che promanava dalla sua stessa stirpe ebraica. Iniziò quindi il cammino della conversione al cristianesimo su cui ella mantenne sempre un silenzio denso di discrezione; un indizio può tuttavia gettare luce su quanto le accadde se ci si riferisce a quanto scrisse su Marie-Alphonse Ratisbonne: «Egli, d’un sol colpo, ricevette tutto, fede, luce; venne folgorato e illuminato, la sua partenza è l’arrivo degli altri». Sempre in lei rimarranno presenti «due tempi, due volti», non in conflitto ma in complementare armonia, ebraismo e cristianesimo.
Marguerite fu battezzata nel 1914 e si legò alla spiritualità e all’attività domenicana: collaborazioni a riviste quali La Vie intellectuelle e La Vie spirituelle, un vivo gusto per la ricerca e la scrittura di tanti libri di spiritualità, brillanti conferenze e l’animazione di circoli aperti ai liceali.
Fondamentale fu il suo avvicinamento all’abbazia di Solesmes dove giunse per la prima volta l’8 settembre 1930, frequentandola durante la Settimana Santa e per periodi personali di ritiro e riflessione, insieme con un fedele gruppo di amici.
La sua maturazione religiosa fu progressiva e attenta: «Giunge il momento in cui le cerimonie che incantavano annoiano, che all’ufficiatura solenne si preferisca l’orazione silenziosa. Ma se si è veramente figli della Chiesa universale si capisce poi che tutto questo non fa che un grande tutto la cui cifra è la lode, l’amore, l’obbedienza».
Un tratto della sua spiritualità fu anche il legame con Maria la Madre di Gesù; aveva scritto commentando le xilografie della Via Crucis di Raymond Dubois: «In Lui, tutti i morti della stirpe sono presenti, quelli dei secoli passati, quelli dei secoli futuri; e dopo il sacrificio di Abele, prima vittima del genere umano, mai nessun prete ha avuto o ha offerto una simile ostia (...) È così che Maria diviene la Madre di tutte le grazie, la misericordiosa dispensatrice del perdono, la tesoriera del sangue di Gesù».
Marguerite conobbe anche e strinse grande amicizia con quella che sarebbe divenuta la beata Ursula Ledochowska, la fondatrice delle Orsoline, la cui storia si deve alla sua penna.
Malgrado la persecuzione nazista che infuriava in Europa, Marguerite non volle lasciare Solesmes e nascondersi. Non solo ma osò ospitare nella sua casa un’ebrea ricercata, Elisabeth Cahen d’Anvers. Le due anziane, evidentemente denunciate, il 26 gennaio 1944 mentre uscivano dalla celebrazione della messa furono arrestate e deportate. Il 13 gennaio il convoglio giunse ad Auschwitz, quasi certamente Marguerite non superò la selezione del dottor Mengele che eliminava immediatamente i «pezzi» che contavano più di cinquant’anni, così ella condivise con il suo popolo l’odio contro il popolo di Israele e i suoi due volti trovarono, nel martirio silenzioso e sconosciuto ai più, quella pace e quell’unità cui tutti aneliamo.

di Cristiana Dobner in Osservatore Romano, 22 ottobre 2008

sabato 18 ottobre 2008

La bellezza dei semplici


Verranno beatificati domani, 19 ottobre, a Lisieux i genitori di santa Teresa

Domenica 19 ottobre, verranno beatificati, nella basilica di Lisieux (Francia), Luigi Martin (1823-1894) e Zelia Guérin (1831-1877), genitori di santa Teresa del Bambino Gesù, dottore della Chiesa, patrona delle missioni e della Francia (insieme a santa Giovanna d'Arco). Il rito sarà presieduto dal vescovo di Bayeux et Lisieux, mons. Pierre Pican, mentre la formula di beatificazione sarà pronunciata dal card. José Saraiva Martins, prefetto emerito della Congregazione delle cause dei santi.
Luigi e Zelia avevano entrambi pensato alla vita religiosa, prima di incontrarsi e di sposarsi il 12 luglio 1858. Cristiani ferventi, ebbero nove figli, di cui quattro morirono nei primi mesi o anni di vita. Nel 1865, Zelia fu colpita da un cancro, ma non per questo rinunciò a nuove maternità; all'età di 41 anni diede alla luce l'ultimogenita, Teresa, che aveva poco più di quattro anni quando la madre morì. Luigi seguì la crescita umana e spirituale delle figlie e diede il suo consenso alla loro vocazione religiosa. Nel 1888, iniziò per lui la prova di una malattia, durata fino alla morte. La quotidianità più semplice e, se si vuole banale, è quella domestica, della propria casa, della propria famiglia: padre, madre e prole. Un ritmo che batte intenso lo scorrere del tempo e delle giornate. L'esperienza della vita, dell'esistenza che inizia e che si conclude, donando a ciascuno un volto, un'educazione, un sentire specifico per cui si può dire "noi".
"Noi" Martin appunto. Luigi e Zelia e una schiera di bimbi, purtroppo con sole cinque figlie sopravvissute all'alta mortalità infantile di allora. Borghesi lavoratori: orologiaio e gioielliere lui, imprenditrice lei. Orari precisi, commerci da sviluppare. Zelia, donna dalle mani d'oro, aveva appreso un famoso punto detto Alençon, un traforo di pizzo straordinario. Non si accontentava però di produrlo, era capace di farlo produrre da una serie di operaie a domicilio. Per sé riservava la parte più ardua: unire i diversi pezzi senza che le cuciture risaltassero all'occhio. Lavoro massacrante e "detestato" perché sottraeva energie, ricercato però perché educare e accasare ben cinque figlie non era impresa da poco, neppure nella seconda metà dell'Ottocento.
Luigi, pur lui uomo dalle mani d'oro, prosperava con il suo negozio, coltivava l'hobby della pesca e dei viaggi. La richiesta però del pizzo l'indusse a diventarne l'incaricato delle vendite (così viaggiava ancora!!) e il conto in banca dei Martin si ingrossava notevolmente. Una bella casa, una domestica, qualche vacanza al mare, gli "status symbols" della vita borghese si notavano tutti. Eppure, in questo contesto, così ovvio e scontato, vibrava ben altro: il centro della vita dei genitori era il loro amore radicato nell'Amore di Dio. Non era il succedaneo della domenica o delle feste, quel tocco natalizio e pasquale che, via, allora non poteva mancare nella Francia cattolica. Era atmosfera, aria che si respirava a pieni polmoni. Senza costrizione, senza rigore, con piena e sovrana libertà: Luigi rideva e giocava con le sue bimbe, Zelia a fatica si separava da lui durante le vacanze al mare. In casa risuonava il canto della bella voce di Luigi, il chiacchiericcio delle piccole, i loro bisticci infantili presto corretti e riportati alla pace. I rapporti umani, solidi e veri, erano il terreno più fecondo perché l'amicizia di Dio pervadesse tutto. Niente di strano che da questo piccolo ambiente scaturisse la grande santa Teresa di Gesù Bambino.
Un quotidiano portato a santità, un quotidiano vissuto nella relazione con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, senza forzature ma con piena riconoscenza e adesione.
Spesso i genitori chiedono: come fare a trasmettere la fede ai figli? Talvolta, diventa un interrogativo dilaniante che si scontra con il muro del rifiuto opposto proprio da chi nella vita è più caro perché gli si è data la vita stessa. Luigi e Zelia forse non se lo sono mai chiesto, semplicemente hanno vissuto la loro testimonianza. Teresa scrive di non aver mai avuto bisogno di imparare a pregare, le era sufficiente guardare il volto di suo padre orante per capire come pregavano i santi. E non si sbagliò, neppure in questo! Santi entrambi i genitori, santi nel vincolo del matrimonio, del loro reciproco affetto.
Una società, per molti aspetti, sdolcinata e legata a forti condizionamenti borghesi, illuminata dalla luce del Vangelo, avrebbe prodotto il frutto della semplicità più rara: una coppia di amanti, di genitori attenti, di cristiani volti al servizio di chiunque avesse bisogno. Prestare ingenti somme, intaccando il capitale in banca per soccorrere qualche persona caduta nell'indigenza, non è una decisione facile, neppure per un single, figurarsi per una famiglia con cinque figlie! Alzarsi in tempo per la prima messa delle 5 e 30, malgrado il cancro divorante che per ben 12 anni annientò il fisico di Zelia, senza per questo sottrarsi a nessuno compito lavorativo ed educativo, non è "normale". Prestarsi nelle mansioni più umili (in concreto: svuotare i pitali della famiglia!) era per Luigi compito onorevole, quanto l'Adorazione notturna e un bel viaggio/pellegrinaggio. Temperamento coraggioso e irascibile il suo, eppure reso mite dalla grazia: lo si vedeva arrossire ma non trascendere. Quanto gli costò separarsi da Zelia e rimanere solo con cinque giovani figlie, lo dissero le lacrime copiose; decise anche, generosamente, di lasciare Alençon, dove aveva cari amici ed era stimato, per avvicinare le figlie alla cognata a Lisieux.
Luigi e Zelia: il volto feriale, borghese, di una coppia trasfigurata dall'Amore e divenuta festa di santi.

C. Dobner in Sir, 15 ottobre 2008

mercoledì 17 ottobre 2007

NUOTARE

Nuotare è sempre una notevole sfida entrando in acque sconosciute e da percorrere per la prima volta. Ci si pone in contrasto o in accoglienza con le correnti che possono portare alla deriva, con la forza della marea che monta o che decresce? L’impeto del vento impone una scelta, nuoto perché nuoto e quindi mi lascio portare o cullare oppure ho una meta precisa e devo lottare e giungere alla mia meta?
La persona, il suo corpo con tutti i muscoli e i nervi, con tutto il sistema nervoso all’erta, si gioca del tutto e osa, sia per il piacere di una lunga nuotata, sia per salvarsi la pelle se necessario.
Comunque, misurarsi, conoscere e sperimentare, è ovvio ed l’unica strada per non dover rimanere seduti sulla battigia, inerti e, magari, delusi.
Questa descrizione potrebbe risultare una sorta di metafora della nostra vita così attratta e, simultaneamente respinta, da ideali, desideri, sconfitte e vittorie, e mete da voler raggiungere.
Il piano concreto è non solo visibilissimo, ma addirittura svincolato da dimostrazioni: non mi tuffo e nuoto in acque che non mi consentono, misurato lo stipendio mensile, di vivere ogni giorno. Ovvero un’offerta di lavoro può rispondere ad ogni mio desiderio e capacità ma se la prestazione rimane gratuita, io come vivo? Cioè come declino il mio quotidiano se non posso contare su di un introito sicuro? Oppure, voglio avere un tetto sopra la testa, mia e della mia famiglia, come fare? Ancora una volta la misura del concreto si impone, correnti, maree e venti: tutto da tenere in conto.
Perché allora quando accogliamo il Dio che fa irruzione della nostra vita serpeggia un disagio magari inespresso? Perché ci sfiora l’angoscia di abbandonare il terreno del concreto per avventurarsi in quello dell’inesistente, dell’irreale. Insomma, perché per noi Dio, e la relazione con Lui, non sono il concreto più concreto?
Statistiche, indagini, progetti e programmi invadono il quotidiano, è davvero, talora, imbarazzante, sapersi orientare ed evitare la reazione, adolescenziale, di cestinare tutto: trash, Ok.
Uno sguardo più profondo, più concreto oso affermare, ci farebbe individuare e percepire le grandi correnti della storia dei popoli, le maree che ci lambiscono e si ritirano per poi ritornare con più energia e vigoria, i venti che soffiano portando in avanti e quelli invece che fanno perire e colare a picco.
Sulla scena politica odierna, così lacerata e lacerante, la marea inarrestabile delle tuniche arancione e delle ciotole capovolte dei monaci buddisti birmani, è di una forza dirompente, incalcolabile e senza ritorno. Dall’interno di una vita che rifiuta i parametri “concreti”, economici, di profitto e di carriera e si affida, giunge un appello che si rovescia sull’esterno per poi ricondurre, da vento impetuoso, all’interno ancora una volta: che senso ha il vivere concreto delle persone se manca la libertà?
Il richiamo dello Spirito è netto, tangibile.
Non però solo la situazione limite dell’oppressione richiama una corrente inattesa, nuova, è il quotidiano, nella sua ripetitività, che deve essere nuovamente scoperto e affrontato.
Dire relazione con Dio, significa dire preghiera, ascolto e colloquio, attesa e risposta. Certezza che l’interlocutore è là ad attenderti, ad attendere proprio solo te e a proporti la chiave della vita. Può insegnarti a nuotare sul filo di una corrente che, anche se non pare, muove le forze della storia umana e di ogni storia.
Significa non essere gettati, improvvisamente, senza scopo e con danno proprio, nel tempo e nella storia (chi mai lo ha chiesto?), come postula qualche filosofia contemporanea, ma ritrovarsi dono ricevuto, dall’amore dei propri genitori (perché credo ancora nell’amore del padre e della madre e non solo nell’alchimia delle provette) e dalla bontà di un Dio che ha pensato a me, così come sono e come vorrei essere.
Il tuffo allora non è pericoloso e attanagliante, è un immergersi sorretti da braccia potenti che ti immettono, se tu lo vuoi, nella grande corrente degli oranti, di tutti coloro cioè che vivono il quotidiano più concreto possibile, quello della relazione con Lui, il concreto per eccellenza e possono sospingere, alimentare, corroborare ogni concreto visibile e tangibile.
Ognuno di noi può esserlo con una semplice modalità: avvertirLo presente e considerarLo l’Amico dell’uomo e della donna e l’Amico dell’umanità intera.
Le bracciate allora non sono affannose e senza ritmo, puro battere le onde senza avanzare, schiuma che travolge, ma ritmo sicuro che fende l’acqua, la smuove e dona impulso a procedere.
Vorrei dire: rovescio la mia ciotola ma non ne sono capace, è quasi ora del pasto (molto concreto). Voglio però dire: la ciotola è scagliata lontano ed io a mani nude e vuote attendo che la forza di Lui mi trapassi e si getti su tutto e tutti, come forza dirompente, come incitamento reale. Così nuoto in quel concreto che è il grande mare dell’amore Trinitario e la storia si riplasma. Possiamo farlo tutti e sempre.

Cristiana Dobner

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