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giovedì 14 febbraio 2008

La Trasfigurazione: il coinvolgimento dell'uomo nella drammatica della libertà di Gesù, il Cristo

In questa seconda domenica di Quaresima, la Chiesa attraverso il Vangelo di Matteo (17,1-9) ci invita ad addentrarci in uno degli eventi più enigmatici dell’esperienza terrena di Gesù, che è appunto la sua trasfigurazione.
Già di fronte al solo pronunciare questa parola, trasfigurazione, in noi è come se si creasse un senso di inadeguatezza, un alone di mistero… quasi forse un sentimento di inquietudine: ci sentiamo messi di fronte a uno di quegli episodi della vita di Gesù che, per come ce li hanno raccontati fin da piccoli, si discostano troppo dalla nostra capacità di comprensione, perché li sentiamo al di là della nostra umanissima esperienza. E chissà come, dalle profondità ataviche del Cristianesimo succhiato al seno di nostra madre, sentiamo improvvisamente che l’umanissimo Gesù che siamo abituati a trovare nel Vangelo, ora ci pare così lontano… ci incute quasi timore.
Eppure, se guardiamo bene al testo, non ci sarebbero poi così tanti elementi a sostegno di questa sensazione istintiva che ci nasce in cuore: tutta la vicenda è infatti raccontata nel giro di pochi versetti, manca di qualsiasi presentazione dal sapore enfatico, è priva di ogni euforico senso del miracoloso e addirittura si conclude con un deciso invito a non sponsorizzare l’accaduto.
Si potrebbe quasi anzi dire che il modo di raccontare questo fatto da parte di Matteo (come anche di Luca e Marco) sia il più demitizzato possibile: volendo, avrebbe potuto caricarlo di prodigiosità, avrebbe potuto sfruttarlo per convincere alla fede i suoi lettori, avrebbe potuto anche forzare un po’ la mano e sottolinearlo tanto da farlo diventare il momento clou del suo vangelo.
E invece no: invece, appunto, gli dedica pochi versetti e tiene un profilo narrativo basso.
Questo è un indizio significativo di quale sia l’intento dell’evangelista: egli non sta pubblicizzando Gesù, come una delle tante proposte di salvezza presentate all’umanità, ma dentro all’evoluzione della narrazione evangelica, con la quale questo brano sta in continuità, vuole portare pian piano il discepolo all’incontro con l’identità del suo Maestro e Signore.
È in questa prospettiva che va letta anche la trasfigurazione: essa, da un lato, è uno dei momenti della vicenda della libertà di Gesù (è un’esperienza che fa Gesù); dall’altro, è il coinvolgimento in questa vicenda da parte dei suoi discepoli, i quali non la conoscono su un libro o attraverso il sentito dire di qualcun altro, ma lasciandosene implicare e compromettendosi in prima persona.
Questo modo, che è l’unico vero, di conoscere qualcuno, non è stato possibile solo allora e a noi precluso per un’incolmabile distanza spazio-temporale: tutto il NT anzi trasuda la certezza di un’accessibilità reale per il discepolo di qualunque tempo alla drammatica storica di Gesù. Essa è percorribile proprio nella stessa dinamica di implicazione e compromissione, che era propria dei discepoli della prima ora.
Ecco perché credo utile provare a ripercorrere il senso del brano evangelico che la liturgia ci propone, puntualizzando proprio questa dimensione: il coinvolgimento con la sua identità che il Signore ha inteso proporre ai tre discepoli, in questo episodio della trasfigurazione.
Dicevo prima infatti che questa è sia un’esperienza di Gesù, sia un coinvolgimento dei discepoli (e di noi in quanto discepoli) in questa stessa vicenda. Perché sottolineo questo? Perché mi veniva da chiedermi: Ma Gesù quando ha chiamato «in disparte su un alto monte Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello» sapeva che sarebbe stato trasfigurato «davanti a loro»?
So che sono quelle domande che non si dovrebbero mai fare, perché – come insegnano agli studiosi – al testo non si dovrebbero mai porre domande eterogenee al testo stesso, però mi pare che possa aiutarci a inquadrare un po’ la situazione.
Infatti, leggendo il resto del brano, sembra che Gesù viva con molta naturalezza questa esperienza: di lui non è raccontata nessuna reazione, nessuna parola, se non sul finale quando appunto «Gesù si avvicinò, li toccò e disse: “Alzatevi e non temete”». Forse questo può farci dire che non è stata un’esperienza così inaspettata per Gesù; forse possiamo addirittura arrivare a dire che il suo comportamento, per come ce lo dipingono i sinottici, in quell’occasione è stato quello di chi vive qualcosa di conosciuto, quasi di usuale: Gesù non si è spaventato come gli altri.
In questa prospettiva, riprendendo la nostra impertinente domanda, potremmo dire che, sì,in qualche modo, Gesù ha scelto di portare con sé i tre discepoli (quelli delle occasioni importanti) per coinvolgerli appunto in uno dei momenti essenziali della sua identità: la sua relazione col Padre e in Lui, con la Legge (Mosè) e i profeti (Elia).
Di questo rapporto, quello che emerge dai versetti matteani, sono sì i tratti classici della teofania (la luminosità, l’apparizione, la voce dalla nube…), che stanno lì a dire che appunto in gioco c’è il relazionarsi a Dio, ma soprattutto la messa in campo di una dialogicità: «Mosè ed Elia, che conversavano con lui», «una voce dalla nube che diceva: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo”».
È in questa sua esperienza di relazione dialogica con Dio e con la storia della salvezza che Gesù vuole coinvolgere i suoi tre discepoli, quasi a tirarli dentro nel più intimo della sua intimità (il suo rapporto col Padre). In questo senso questa è davvero un’esperienza rivelativa, un momento cioè in cui Gesù dice davvero di sé; ma appunto lo fa non con un bel discorso, ma tirando dentro alla sua vicenda (intanto che la vive!) anche altri.
E questi altri?
Beh, questi altri… che siamo poi un po’ anche noi, fanno un po’ la figura degli inetti…
La prima cosa che si dice a loro riguardo, di Pietro in particolare (gli altri sono addirittura ammutoliti), è che prende la parola, ma, come Marco e Luca addirittura esplicitano, non sa che dire: «Non sapeva infatti che cosa dire, poiché erano stati presi dallo spavento» (Mc 9,6), «Egli non sapeva quel che diceva» (Lc 9,33). Matteo invece, per mostrare il suo dire inopportuno, non lo fa neanche finire di parlare: «Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce…».
Matteo inoltre aggiunge anche un’ulteriore notazione dell’inebetimento dei discepoli: «All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore».
Pare che il tentato coinvolgimento di Gesù non sia andato a buon fine: i tre discepoli non capiscono, non sanno che dire e anzi si spaventano, tanto da ritrovarsi a terra tremanti e quasi tramortiti…
Ma non è il caso di essere troppo duri con loro, anche perché forse non sono così lontani da noi e da quell’immagine che tutti noi uomini abbiamo misteriosamente impressa nella mente di un dio spauracchio dell’uomo, di un dio rivale all’uomo, di un dio che fa paura («il serpente disse alla donna: “Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male”»)!
In questa ottica è comprensibile la reazione dei tre; senza contare che stiamo parlando di Ebrei, per i quali udire la voce di Dio può comportare addirittura la morte (Dt 4,32-33: «Interroga pure i tempi antichi, che furono prima di te: dal giorno in cui Dio creò l'uomo sulla terra e da un'estremità dei cieli all'altra, vi fu mai cosa grande come questa e si udì mai cosa simile a questa? Che cioè un popolo abbia udito la voce di Dio parlare dal fuoco, come l'hai udita tu, e che rimanesse vivo?»).
Eppure la voce di Dio («voce di tuono» secondo Es 19,19) stavolta aveva un messaggio di speranza: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo». Ma neanche questo basta.
È qualcos’altro che fa da chiave di volta nell’emotività dei discepoli. Perché effettivamente un cambiamento in loro c’è; li ritroviamo infatti un versetto dopo (v. 10) tutti tranquilli che intraprendono un discorso teologico con lo stesso Gesù: «Allora i discepoli gli domandarono: “Perché dunque gli scribi dicono che prima deve venire Elia?”».
Cosa gli ha fatto ritrovare il riordinamento della sensibilità poc’anzi così sconvolta?
È stato il tocco di Gesù: «Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: “Alzatevi e non temete”».
È proprio questo modo nuovo di essere Dio in Gesù che permette all’uomo di non stare più prostrato pieno di paura, ma, toccato, di rialzarsi e coinvolgersi, in un ritorno al dialogo con Gesù, il Figlio che rivela un Dio che ama («Questi è il Figlio mio, l’amato»), che promette affidabilmente benedizione («Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e possa tu essere una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò, e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra»). E questa è la buona notizia (Vangelo) per cui val la pena anche soffrire («soffri con me per il Vangelo»): che Dio è questo qua!

giovedì 20 dicembre 2007

La forma dell'attesa: senza paura d'amare, ma con fedeltà e coinvolgimento

Ed eccoci giunti all’ultima domenica prima di Natale… Ormai ci siamo… il mistero tanto atteso inizia ad essere intravisto, tant’è che il brano del Vangelo di Matteo che la Chiesa ci propone incomincia con la dichiarazione esplicita di che cos’è ciò che stavamo aspettando: «la nascita di Gesù Cristo». Ma ci vien detto di più… infatti non solo è detto il fatto, ma il desiderio di volercelo narrare: «Ecco come avvenne la nascita di Gesù Cristo».
È un incipit davvero promettente… anche liturgicamente parlando: dopo queste settimane di attesa (di Avvento – appunto –), finalmente siamo arrivati a leggere e celebrare la Parola che delinea chiaramente cosa c’era da aspettare…
E dunque? Ormai è chiaro che quanto dovevamo aspettare era una nascita…
Ma… leggendo fino in fondo il testo proposto dalla liturgia di questa IV domenica di Avvento ci rendiamo conto con un sorriso che non è raccontata proprio nessuna nascita… Essa infatti nel Vangelo di Matteo è sì al cap. 1, ma al versetto 25… mentre il testo proclamato in chiesa si ferma al v. 24… Curioso, no?
No… il fatto è che siamo vicini… ma non ci siamo ancora… è ancora tempo di attesa (di Avvento – appunto –)… un’attesa che però si fa sempre più carica di aspettativa perché ormai le fila principali del discorso iniziano a snodarsi… ed oggi ci è dato di fare non un passettino qualunque verso il mistero che celebreremo martedì, ma quello decisivo… l’ultimo: ben sapendo che “quando si fanno 10 passi verso qualcuno, 9 sono solo la metà”…
Ma allora di cosa è fatto quest’ultimo avvicinamento a Natale? Se non c’è la nascita di Gesù, come ci avevano detto (cfr Mt 1,18a), di che cosa parla sto Vangelo?!?
Beh… parla di un uomo a cui è successa una cosa strana… una cosa che potremmo delineare con queste parole: a quest’uomo, che si chiamava Giuseppe, è successo di passare dal rannicchiamento sui suoi pensieri agli orizzonti ampi apertigli da un incontro speciale…
Si sa, Matteo racconta i fatti dell’infanzia di Gesù dal punto di vista di Giuseppe… a quest’ultimo era stata data in sposa Maria. La procedura matrimoniale ebraica prevedeva 2 fasi: lo scambio del consenso e il trasferimento della sposa nella casa del marito… Ecco… Maria e Giuseppe nel momento che l’evangelista sta descrivendo erano promessi, ma non abitavano ancora insieme.
La sorpresa è che Maria si ritrova incinta… letteralmente «si trovò avente in ventre»…
Forse a noi questo ventre riempito, che si ritrova con dentro qualcosa non fa più tanto problema… noi sappiamo già tutto il proseguimento della storia e la sua spiegazione: sappiamo che lì dentro c’è Gesù, che è il Figlio di Dio, che Maria l’ha concepito verginalmente, che c’ha pensato lo Spirito santo… è vero sappiamo tutto… ma – ipotizziamo – se un ragazzino dei miei arrivasse e mi chiedesse “Tu che queste cose le sai già tutte, dimmi allora chi è Gesù, cosa vuol dire che è il Figlio di Dio, che Maria l’ha concepito verginalmente, che c’ha pensato lo Spirito santo…?”… ecco, se arrivasse, non so voi, ma io sbiancherei e con un bel giro di parole lo intorterei su per evitare il discorso…
E allora, forse… anche a noi, a me, che sappiamo già tutto e sappiamo già come va a finire la storia, fa bene metterci un po’ nei panni dei protagonisti e lasciarci istruire da come loro hanno vissuto le cose… o almeno da come ce le racconta Matteo…
Insomma… sto Giuseppe si ritrova con sto ventre riempito… e il problema c’è… tant’è che sa che Maria potrebbe incorrere nel «pubblico ludibrio», potrebbe essere additata con una donna scandalosa, come una di quelle che ha concepito un figlio fuori dal matrimonio…
[…che peccato che i cristiani non abbiano imparato da Giuseppe…]
Il versetto 19 e la prima parte del 20 ci descrivono quest’uomo contorto nei suoi pensieri, nella preoccupazione sul da farsi, nei giramenti di viscere tra incredulità di fronte all’accaduto, rabbia per un tradimento subito, amore per la sua Maria a cui comunque non vuol far del male: «Giuseppe poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto», «mentre stava considerando queste cose».
Potremmo immaginarlo seduto, con la testa fra le mani, incapace di star fermo, col cervello che gli fuma e il cuore che gli sanguina… a me vengo subito in mente io… quante volte mi ritrovo, ci ritroviamo così… raggomitolati su noi stessi alla ricerca di una via che non troviamo… con quella sensazione di impotenza, incapacità, sfiducia che ci ridona la consapevolezza di essere caduti, ancora una volta, nel circolo vizioso del gatto che si morde la coda…
E Giuseppe, proprio come noi, alla fine di tutto il ragionare, partorisce la sua risoluzione… una risoluzione che non può che essere il male minore, il meno peggio… come ogni uomo, nei contorcimenti della vita, non può che trovare espedienti, escogitare risposte in seconda battuta, tamponare la falla…
Eppure gli rimane, come rimane a noi d’altra parte, la terribile sensazione che era altro quello che dovevamo fare, che la vita aveva promesso altro a noi e a chi ci sta intorno… ma d'altronde che potevamo fare d’altro? Che poteva fare Giuseppe d’altro?
«Però, mentre stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati”. […] Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa».
È avvenuto qualcosa… Giuseppe arriva all’unica risoluzione che dà gioia, all’unica che aveva sempre sperato di poter realizzare, ma che nel giro di un momento gli era morta in mano: prender con sé la sua sposa!
È successo qualcosa in quest’uomo che avevamo lasciato poco fa incurvato sotto il peso dei suoi pensieri e che ritroviamo qua determinato e quasi felice (il testo non lo dice, ma l’incalzare dei verbi indica che lo scenario – anche interiore – è mutato: c’è dell’aria fresca da respirare ora…).
È successo che mentre sognava gli si è fatto vicino Dio (“un angelo del Signore” nella Bibbia è l’espressione per dire la presenza di Dio) e gli ha sciolto il groppo che aveva in gola «non temere di prendere con te Maria, tua sposa». Gli ha detto di non avere paura a prendere in casa una ragazza madre, gli ha ricordato un’appartenenza promessa e da mantenere (quella ragazza madre è «Maria, tua sposa»), lo ha coinvolto nella vicenda di sua moglie, del figlio di lei, del figlio di Dio… l’ha coinvolto nella vicenda di Dio… che mai infatti – ci insegnerà lo stesso Gesù – si svolge senza l’uomo («ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù »).
E questo incontro speciale ha trasformato Giuseppe…
Troppo spesso lo immaginiamo come lo sfigato – passatemi il termine – della situazione: non fa niente, gli tocca tenere e crescere un figlio non suo, con sta storia dello Spirito santo che fa sorridere i malpensanti, non può stare con sua moglie (che per la Chiesa è vergine prima durante e dopo), a un certo punto della storia sparisce pure, senza che si sappia più niente di lui… insomma…
E invece no! Invece Giuseppe è uno di quegli «amati da Dio e santi per chiamata» di cui parla Paolo nella sua lettera ai Romani: è uno di quelli che attraverso il richiamo a non avere paura (di amare), la fedeltà ad una storia (d’amore) e il coinvolgimento da parte di Dio in una Storia (d’Amore) esce trasformato, convertito, trasfigurato…
Giuseppe fa l’esperienza di passare, nell’incontro con Dio, dalla vita mortifera alla Vita vitale. E il suo sollevarsi dal raggomitolamento all’azione («Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa») è rivelazione che quel Dio lì che ha incontrato è il Dio della Vita… Giuseppe è testimone, nella sua carne, che con Gesù si ha a che fare con il Dio che dà vita, che fa fare esperienza di vita…
È interessante che la Chiesa ci metta proprio questo testo l’ultima domenica prima di Natale: che ci voglia dire che la disposizione per accogliere questa nascita è il non avere paura di amare, essere fedeli alla storia e lasciarci coinvolgere nella dinamica vitale di Dio? Di quel Dio-con-noi che curiosamente è detto a noi, ma non a Giuseppe…?
Matteo infatti mette la citazione di Isaia come suo commento al discorso dell’angelo… le parole «Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: “Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele, che significa Dio con noi”» non fanno parte del discorso che l’angelo fa a Giuseppe… Giuseppe sa che il figlio che ha in pancia Maria «viene dallo Spirito Santo» e che «egli salverà il suo popolo dai suoi peccati», ma non sa che è l’Emmanuele, cioè non sa che è un Dio che sta dalla parte dell’uomo…
Ma secondo me a lui non l’hanno detto, perché non c’era bisogno: l’aveva già scoperto nella sua carne…
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