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martedì 23 settembre 2014

XXVI Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro del profeta Ezechièle (Ez 18,25-28)

Così dice il Signore: «Voi dite: “Non è retto il modo di agire del Signore”. Ascolta dunque, casa d’Israele: Non è retta la mia condotta o piuttosto non è retta la vostra? Se il giusto si allontana dalla giustizia e commette il male e a causa di questo muore, egli muore appunto per il male che ha commesso. E se il malvagio si converte dalla sua malvagità che ha commesso e compie ciò che è retto e giusto, egli fa vivere se stesso. Ha riflettuto, si è allontanato da tutte le colpe commesse: egli certo vivrà e non morirà».

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippési (Fil 2,1-11)

Fratelli, se c’è qualche consolazione in Cristo, se c’è qualche conforto, frutto della carità, se c’è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi. Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri. Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!», a gloria di Dio Padre.

Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 21,28-32)

In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. Ed egli rispose: “Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo». E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli».

La parabola che costituisce il vangelo di questa ventiseiesima domenica del tempo ordinario, per essere ben compresa, va collocata nel contesto in cui Matteo la inserisce. Il rischio, altrimenti, sarebbe quello di una sua interpretazione riduttiva: qui infatti il senso non è tanto quello di un generico appello alla pronta osservanza della volontà di Dio, o una sottolineatura del primato dell’azione sulla parola, per cui elogiato sarebbe il primo figlio che, nonostante all’invito del padre in prima battuta, avesse detto «Non ne ho voglia, poi si pentì e vi andò»; il senso piuttosto va cercato altrove: in particolare tentando di delineare chi è rappresentato in questi due figli.

martedì 22 ottobre 2013

XXX Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro del Siràcide (Sir 35,15-17.20-22)
Il Signore è giudice e per lui non c’è preferenza di persone. Non è parziale a danno del povero e ascolta la preghiera dell’oppresso. Non trascura la supplica dell’orfano, né la vedova, quando si sfoga nel lamento. Chi la soccorre è accolto con benevolenza, la sua preghiera arriva fino alle nubi. La preghiera del povero attraversa le nubi né si quieta finché non sia arrivata; non desiste finché l’Altissimo non sia intervenuto e abbia reso soddisfazione ai giusti e ristabilito l’equità.
Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo a Timòteo (2Tm 4,6-8.16-18)
Figlio mio, io sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione. Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato. Nei loro confronti, non se ne tenga conto. Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero: e così fui liberato dalla bocca del leone. Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno; a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen.
Dal Vangelo secondo Luca (Lc 18,9-14)
In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».
Il vangelo che questa Trentesima Domenica del Tempo Ordinario ci propone, è la diretta continuazione di quello di domenica scorsa, sulla necessità di pregare sempre. Oggi il testo lucano, ci propone – in una nuova parabola di Gesù – due esempi di preghiera: quella del fariseo e quella del pubblicano.
Ma se la preghiera, come dicevamo la volta scorsa, non è tanto un dire preghiere, ma il collocarsi nella relazione col Signore, allora forse, i due protagonisti non sono tanto due tipi umani – di cui saremmo bravissimi a trovare esemplificazioni contemporanee tra le persone che conosciamo, ma sono due possibilità di porsi in relazione col Signore e quindi coi fratelli, che si ripresentano attimo dopo attimo in ogni momento della nostra vita. Noi possiamo essere e siamo il fariseo – con l’intima presunzione di essere giusti e sprezzanti verso gli altri – e il pubblicano – incapaci di alzare gli occhi al cielo, con la mano che ci batte sul petto.
L’immagine che dovrebbe venirci in mente non è quindi tanto quella di quel fratello che assomiglia al fariseo affiancata da quell’altra che ha il volto di quel fratello che assomiglia al pubblicano della parabola… quanto piuttosto quella di noi stessi, alle prese con la decisione sul chi essere…
A proposito, mi sono ricordata di un’immagine della mia infanzia, quella dei fumetti di paperino…
 

 
Il fariseo e il pubblicano sono dentro di noi, impegnati nella continua lotta tra il sentirsi giusti e l’incapacità di alzare lo sguardo verso il Signore.
È questa la posta in gioco della parabola di Gesù: la nostra giusta collocazione di fronte al Signore (e ai fratelli).
Da questo punto di vista, non v’è dubbio che Gesù indichi come corretta la posizione del pubblicano: si posiziona in maniera giusta colui che si riconosce peccatore.
Ma – onde evitare fraintendimenti – vorrei specificare i termini in gioco.
Da un lato la doppia valenza che ha il termine “giusto” e dall’altra quella che ha il termine “peccatore”.
La parola “giusto”, infatti, ha significati diversi nelle locuzioni da me usate: ha una valenza quando dico “sentirsi giusti”, ne ha un’altra quando dico “collocarsi nella posizione giusta”.
Nel primo caso infatti, l’intonazione del termine è etica, fa cioè riferimento al comportamento del soggetto in causa, che nella finzione parabolica è ben esplicitato: «O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo».
Nel secondo caso, invece, con il termine “giusto” non si fa immediatamente riferimento ad un comportamento moralmente corretto, ma all’esattezza e alla precisione di una determinata posizione: è la stessa valenza che il termine ha in una frase come la seguente “la giusta posizione per vincere la partita di scacchi è fare scacco matto”, oppure “la giusta combinazione per aprire la cassaforte è digitare la password esatta”.
Mentre nel primo caso alla “giustezza” si può concedere una sorta di gradazione (si può essere più o meno giusti), nel secondo no: o si è nella posizione corretta, che abilita a qualcos’altro (la precisa posizione degli scacchi, che consente la vittoria; o la password esatta che permette di accedere alla cassaforte) oppure non lo si è.
Considerato tutto questo e tornando alla parabola, riesce bene il gioco di parole per cui non è detto che essere giusti (moralmente) coincida con la giusta collocazione di fronte al Signore. Anzi, sembra che il giusto posizionarsi di fronte a Dio (quello che abilita ad una relazione consapevole con Lui, che altrimenti non si dà) coincida con il non essere giusti (moralmente).
Questo evidentemente non vuol dire che allora bisogna porsi in una condizione moralmente ingiusta per entrare in relazione col Signore o che non sia necessario lottare contro le ingiustizie di cui siamo artefici; piuttosto questo gioco di parole, suggerito dal vangelo stesso («Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti [in greco, dikaioi] e disprezzavano gli altri» - «Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato [in greco, dedikaiomenos]»), propone il riconoscimento di Dio come unico giusto e una ricollocazione nostra di fronte a Lui: nessuno di noi è giusto, noi siamo tutti peccatori.
Ed ecco entrare in gioco il secondo termine dalla doppia valenza che richiamavamo prima: “peccatore”.
Secondo un primo senso “peccatore” è chi commette dei peccati: preso in questa prima accezione il termine sembra contraddire quanto appena detto. In effetti esistono persone capaci di non fare peccati (almeno per un certo lasso di tempo) e dunque che potrebbero – come il fariseo della parabola – ritenersi giusti (moralmente).
Ma vi è una seconda intonazione che questo termine può avere: “peccatore” è colui che esistenzialmente è abitato dal peccato, cioè che in tutto ciò che fa (anche le cose giuste) porta con sé la contraddizione, la viscosità, la necessità della sua storia, del suo mondo, della storia che è e del mondo che è.
Da questo punto di vista nessuno di noi è “senza peccato”; per prendere solo un aspetto della questione ricordo quanto ci ricordava il prof. Moscatelli in un incontro sulla giustizia nella Bibbia: le nostre “vite giuste” galleggiano su fiumi di sangue di altri uomini… quello di coloro che abitano nel Terzo mondo e sulla cui ricchezza si fonda la nostra opulenza, quello di mia madre che mi ha dato alla luce, quello dei martiri della patria che mi consentono di vivere in un paese libero dalla dittatura, e via discorrendo…
Non si tratta del solito discorso – piuttosto abusato negli ambienti cattolici – che vuole insistere sulla peccaminosità dell’uomo, mettendola quasi al centro della lettura teologica della storia: non credo nella logica della mortificazione, delle penitenze e dei sacrifici atti a castigare la nostra natura cattiva. È infatti quella stessa logica che genera sedicenti giusti, che disprezzano gli altri.
Si tratta piuttosto della proposta (che a me pare nasca dalle pagine evangeliche) di guardarsi onestamente come un miscuglio (i cui elementi quasi mai sono ben rintracciabili) di caso, fortuna, grazia, necessità, precarietà, eredità, gratuità, bisogni, assoluto e chi più ne ha più ne metta… con due centimetri di libertà…
Se ci pensiamo così, come un grumo di sangue accanto ad altri grumi di sangue, siamo nella giusta posizione per una relazione consapevole col Signore, che col tempo ci insegna che la giustizia che disprezza il fratello, non sarà mai la sua giustizia… perché Lui, l’unico giusto, i suoi figli-miscuglietti non li ha mai disprezzati.

venerdì 22 ottobre 2010

XXX Domenica del Tempo Ordinario: Il comune impasto umano genera misericordia

Le letture che la Chiesa ci propone per questa trentesima domenica del Tempo Ordinario, vertono tutte sulla tematica di Dio «giudice giusto»… Un Dio che non fa «preferenza di persone»… Anzi un Dio giudice molto diverso e sorprendente rispetto a quello che abitualmente ci immaginiamo.

Solitamente, infatti, noi, di fronte all’idea del Dio giudice abbiamo un’istintiva reazione di paura, di soggezione, di sconcerto per Chi – sappiamo (o crediamo di sapere) – analizza puntigliosamente la nostra condotta, la nostra morale, la buona riuscita o meno della nostra vita e di tutti quegli atti che la compongono… In realtà – almeno così dicono i brani delle letture – questa prospettiva di “aggiustamento” della vita per risultare graditi a Lui, non pare propriamente in linea con quella che la sua Parola propone…
Lo si vede in maniera chiara già nel testo del libro del Siracide, dove si sottolinea come la preghiera più ascoltata, anzi lo sfogo del lamento più ascoltato, non sia quella del “giusto”, bensì quello di chi apparentemente risulta “non riuscito” (l’orfano, la vedova, il povero, l’oppresso…), indipendentemente dalla sua condotta… Un brano, dunque, dove ad emergere non è tanto il volto di un Giudice preoccupato della moralità di chi gli sta davanti, ma piuttosto quello di Chi è preoccupato della ferita (da umanizzare) di chi lo prega.
In proposito, dovremmo tornare a leggere sempre più spesso quello che Teresina scriveva sulla castità (e cito questo esempio perché, ancora oggi, i cristiani abitualmente quando parlano di “morale”, implicitamente fanno riferimento soprattutto alla “morale sessuale”): «É sorprendente come le anime perdono facilmente la pace a proposito di questa virtù! Il demonio lo sa bene: per questo le tormenta così tanto a questo riguardo! E invece non c’è tentazione meno pericolosa di questa. Il modo di liberarsene è di considerarle con calma, non meravigliarsene, ancor meno temerle. Normalmente, al primo attacco, ci si spaventa, si crede che tutto è perduto: è proprio di questa paura, di questo scoraggiamento che si serve il diavolo per far cadere le anime. E invece siate sicura che una tentazione di orgoglio è ben più pericolosa – e il buon Dio ne è ben più offeso quando uno vi soccombe – che quando fa una caduta, anche grave, contro la purezza, perché Egli ha riguardo della nostra natura ferita, mentre per una caduta d’orgoglio non c’è scusa. Però è una caduta – quella d’orgoglio – che le anime commettono spesso e facilmente, senza inquietarsene. Una tentazione di orgoglio dovrebbe essere temuta più del fuoco, mentre una tentazione contro la purezza non può che umiliare la nostra anima e proprio per questo farle più bene che male» [S.Teresa di Gesù Bambino fa questa confidenza a sr Maria della Trinità, che si lamentava con lei degli scrupoli di cui soffriva a riguardo della virtù della castità... CRM pp 86-87].
Ma, tra i testi odierni, è poi soprattutto nella parabola evangelica, che va in crisi l’immagine del Dio giudice che continuamente la nostra mente ci ripropone; un’immagine di Dio che – se è vero quanto diceva il papa e cioè che «Non ogni dio è degno di fede»! – ha bisogno continuamente di essere decostruita (perché questa è la conversione evangelica!) per far spazio – tra le macerie del nostro volto di Dio – al dissotterramento del suo volto, quello che Lui – attraverso suo Figlio – ci ha voluto raccontare.
La parabola è costruita su due personaggi chiave, il fariseo e il pubblicano. Ma dato che per esplicita dichiarazione di Luca, la vicenda è stata pensata appositamente «per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri», la corretta prospettiva con cui guardare al testo è quella di concentrarsi, almeno inizialmente, sul fariseo. Lui è l’efficace caricatura di chi ascolta, di chi legge.
Quel fariseo non è dunque immediatamente da identificare con quelle persone che – nella nostra vita, nella nostra chiesa, nella nostra comunità – noi individuiamo come particolarmente puntigliose nell’osservanza esteriore e legalistica delle norme ecclesiali, morali o cultuali e che hanno (quasi automaticamente – pare dire il vangelo) un innato disprezzo per gli altri che non sono bravi come loro o giusti come loro o osservanti come loro… Ma piuttosto l’identificazione va fatta col fariseo che c’è in ciascuno di noi… Con quella parte di noi che così spesso prende il sopravvento e che – appunto – nelle cose che fa, si sente giusta e – proprio per questo – pensa di trovarsi in una posizione tale (superiore) che gli permette di guardare gli altri dall’alto in basso, con disprezzo. Un disprezzo magari mascherato… dietro al pensiero che se a comportarsi in un certo modo o a costruire un certo tipo di vita «ci è riuscito lui, possono farlo anche gli altri – se ne avessero voglia!» [Giuliano], ma comunque un disprezzo acre nella sua sostanza, nonostante tutti i nostri tentativi postumi di dissimularlo…
I problemi in gioco sono dunque almeno due per noi farisei… e strettamente legati tra loro:

       - Il ritenersi giusti;
       - E il conseguente disprezzo per gli altri (non giusti come noi).

Perché questi atteggiamenti sono considerati problematici dal vangelo? E come si può fare per estirparli dal nostro cuore?

La prima domanda si pone da sé nel momento stesso in cui analizziamo il nostro sentirci giusti… Se faccio qualcosa di buono, perché non dovrei riconoscermelo (che vuol quasi sempre dire, “perché non dovrebbero riconoscermelo”, visto che siam sempre molto più preoccupati del giudizio altrui che del nostro…)? E perché – per altro verso e chiamando in causa l’altro atteggiamento problematico – se l’altro fa qualcosa di male o non fa bene ciò che deve fare, non devo biasimarlo? Perché non ci deve essere questo paragonarsi, mettersi in qualche modo in competizione nel bene, questo correggersi? Non ci sono forse passi biblici che indicano precisamente questa strada?

Come sempre, in questioni di questo tipo, bisogna intendersi sul linguaggio… perché altrimenti, con le stesse parole si rischia di dire tutto e il contrario di tutto e non arrivare mai ad intendersi…

Un metodo efficace per capire dietro alle parole di ciascuno, quale pensiero si nasconde, è quello di provare a immaginare il perché delle sue parole, delle sue domande, dei suoi perché. Cosa lo preoccupa, dove sta andando a parare… in altre parole… quali sono le sue vere intenzioni…

Allora, è evidente che va benissimo il riconoscimento (anche altrui) del bene che faccio e anche la saggia correzione fraterna per il male che l’altro fa, ma il punto è: in vista di che cosa? Faccio il bene per me, per la gratificazione del sentirmi dire “bravo” o perché nel bene che faccio vedo intorno a me che il mondo (o almeno un pezzettino di esso) si umanizza, sta meglio… per dirla come Gesù: perché per qualcuno arrivi il Regno di Dio…? E l’altro perché lo correggo? Perché così dal confronto emerga che io sono “più bravo” di lui o perché nel male che fa, vedo il male che si fa e allora cerco di umanizzargli la sua ferita?

Perché il punto – credo – sta proprio qui… è impensabile paragonare le esistenze e vedere quella “meglio riuscita”… ma non solo perché – come ci insegnano alle elementari – “non si fanno i confronti”, ma perché non è vero che ogni esistenza parte dalle stesse possibilità. E non è neanche vero che due esistenze con pari opportunità (chi sarebbe poi a stabilirlo che sono pari?) dovrebbero avere lo stesso esito… perché non esistono due individualità uguali (non sarebbero più individualità!), ma solo soggetti unici e irripetibili, con le loro storie, le loro ferite, la loro cultura, le modalità di reazione di fronte alle cose che gli si sono introiettate chissà quando…

Allora… è troppo facile stare dalla parte giusta del mondo e dimenticarsi che quella “giustezza” proprio in una piccolissima misura è nostra… è troppo facile condannare chi si separa, quando noi ci ritroviamo in mano un matrimonio riuscito per grazia, o – detto laicamente – perché c’è andata bene e neanche noi sapremmo dire poi perché… è troppo facile condannare il rom che ci rompe al semaforo per chiederci i soldi, quando noi abbiamo ogni giorno da mangiare, chi ce lo prepara e anche tutto il resto in aggiunta…

Cioè, io credo, finché l’altro lo guardiamo come estraneo, cioè non fatto della nostra stessa pasta umana, continueremo a guardare ai nostri privilegi (e anche l’essere giusti lo è!) come a qualcosa di “dovuto”, di “meritato”, dunque nostro; e alle loro disgrazie come qualcosa di loro, altrettanto “dovuto” e “meritato”… ma in negativo…

È questo il retro pensiero delle domande che – un po’ provocatoriamente – ponevo… è il retro pensiero di chi si sente – appunto – giusto! Ma non è la visione del Signore e nemmeno quella di quelle frasi bibliche che invitano a fare il bene (a essere giusti) e a correggere chi sbaglia! Usano le stesse parole nostre, forse, ma intendono tutt’altro… Mettono cioè al centro la parentela del comune impasto umano di cui siamo fatti, la comune figliolanza divina, la consanguineità della matrice con cui siamo generati… non a caso il primo discrimine è razziale (cioè è la messa in discussione di questa fraternità tra gli uomini di tutti i popoli)…

La prospettiva biblica, soprattutto evangelica, infatti, è quella per cui l’altro non mi è estraneo, nemmeno quando è colpevole (non giusto o non giusto come me…)… l’altro è mio e così caro che piuttosto che la sua vita, preferisco perdere la mia… che è la storia di Gesù (che non a caso è venuto ad insegnarci che faccia c’ha Dio e come si fa a essere uomini secondo il sogno di Dio!): «Infatti, quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» Rm 5,6-8.

Ma come si fa ad accedere a questo modo di stare al mondo, senza che risulti un bel pensiero che ci appiccichiamo addosso, ma che non riesce mai a penetrarci nella pelle e a convertirci la carne?

Beh… sicuramente stando a bagnomaria nel “modo di stare al mondo” del Signore… quindi nella sua Parola, nella memoria della sua carne data per noi, nella relazione personale con Lui… In più… ricordando quanto diceva Teresina («una tentazione contro la purezza non può che umiliare la nostra anima e proprio per questo farle più bene che male»), permettendoci di accedere all’umiliazione (all’essere humus, terra, carne umana strettamente imparentata con quella di tutti i peccatori della storia) non come ciò che ci annienta, ma come ciò che rompe la durezza della nostra giustizia e ci fa accedere alla misericordia per tutti: «O Dio, abbi pietà di me peccatore».

venerdì 2 novembre 2007

Chi è Dio, alla luce della povertà dell'uomo?

«Signore, tutto il mondo davanti a te, come polvere sulla bilancia, come una stilla di rugiada mattutina caduta sulla terra».
Mi pare che la liturgia di oggi con questa frase della Sapienza ci faccia ripartire là dove ci aveva lasciato la scorsa settimana: la condizione di povertà dell’uomo; una povertà, dicevamo, non accidentale o attuale, ma costitutiva, ontologica.
Di fronte a questa situazione dell’uomo, di dio e a dio si potrebbe dire: «Certo, non aveva difficoltà la tua mano onnipotente, che aveva creato il mondo da una materia senza forma, a mandare loro una moltitudine di orsi e leoni feroci o belve ignote, create apposta, piene di furore, o sbuffanti un alito infuocato o esalanti vapori pestiferi o folgoranti con le terribili scintille degli occhi, bestie di cui non solo l'assalto poteva sterminarli, ma annientarli anche l'aspetto terrificante. Anche senza questo potevan soccombere con un soffio, perseguitati dalla giustizia e dispersi dallo spirito della tua potenza. Ma tu hai tutto disposto con misura, calcolo e peso. Prevalere con la forza ti è sempre possibile; chi potrà opporsi al potere del tuo braccio?» (Sap 11,17-21, quelli immediatamente prima del brano della I lettura).
È proprio vero che di fronte a un uomo così, così piccolo, così povero, così fragile, così incapace di fedeltà, di costanza, di saldezza... Dio potrebbe proprio dilagare con la forza e il potere del suo braccio... L’uomo in questo senso non ha speranza di fronte a dio, tant’è che tutta la storia delle religioni, a partire dall’uomo preistorico fino ad oggi, si mostra come il perenne tentativo di ingraziarsi dio, di placarlo, di domarlo, di renderselo favorevole, attraverso pratiche magiche, rituali, sacrifici...
Ma la Sapienza rispetto a questa modalità arcaica di relazionarsi a dio, che riecheggia anche in ciascuno di noi, ha un’intuizione diversa. Di Dio parla come del «Signore, amante della vita».
«Amante della vita» perché l’ha creata Lui, perché non c’è niente di più suo: «Poiché tu ami tutte le cose esistenti e nulla disprezzi di quanto hai creato; se avessi odiato qualcosa, non l'avresti neppure creata», «Tu risparmi tutte le cose, perché tutte son tue»!
Fanno quasi sorridere la schiettezza e la lucidità di queste affermazioni, soprattutto se le si colloca nell’ambito anticotestamentario, così spesso additato come il luogo dove troverebbe attestazione l’idea di un dio vendicativo, e se lo si confronta con gli equilibrismi che spesso noi facciamo per tenere insieme Dio e tutti, «tutte le cose»...
A noi viene molto più naturale tirare i confini, definire bene chi è dei nostri (che nella nostra testa naturalmente equivale a dire “chi è di Dio”) e chi no, chi è giusto e chi no, chi è nella piena comunione della Chiesa (che nella nostra testa naturalmente equivale a dire “nella piena comunione con Dio”) e chi no... e che fatica facciamo a tenere insieme il dato che la salvezza è per tutti e che però abbiamo bisogno che qualcuno non si salvi... perché altrimenti cadono tutti i nostri apparati etici, spirituali, devozionali...
La Sapienza sembra parlare diversamente da noi e tratta, anche di una realtà grave come il peccato, con una “leggerezza” inaudita. Può farlo perché al centro del suo pensiero c’è Dio, il vero volto di Dio. Il punto prospettico da cui si guarda è Lui, non è il peccato o la condanna. Questi ultimi sono sempre riassorbiti in un orizzonte più ampio, che è quello della conversione (che in greco non ha connotazioni morali, ma esistenziale: è il cambiare il proprio pensiero, il proprio orizzonte di senso) e in ultima analisi della relazione con Dio: «Hai compassione di tutti, perché tutto tu puoi, non guardi ai peccati degli uomini, in vista del pentimento», «Per questo tu castighi poco alla volta i colpevoli e li ammonisci ricordando loro i propri peccati, perché, rinnegata la malvagità, credano in te, Signore».
Anche Paolo ha un’espressione di questo genere; prega «perché sia glorificato il nome del Signore nostro Gesù in voi e voi in lui». Il fine è la gloria di Dio, che sant’Ireneo dice essere l’uomo vivente! Tant’è che essa non si realizza mai senza l’uomo: «preghiamo di continuo per voi, perché il nostro Dio vi renda (ritenga) degni della sua chiamata e porti a compimento, con la sua potenza, ogni vostra volontà di bene (desideri buoni) e l'opera della vostra fede».
È proprio questo nucleo esplosivo, intuito dal libro della Sapienza e realizzato in Gesù, che Paolo vuole sia custodito a tutti i costi e non vada confuso, annacquato, sbiadito: «Ora vi preghiamo, fratelli, riguardo alla venuta del Signore nostro Gesù Cristo e alla nostra riunione con lui, di non lasciarvi così facilmente confondere e turbare, né da pretese ispirazioni, né da parole, né da qualche lettera fatta passare come nostra, quasi che il giorno del Signore sia imminente». C’è tutta una storia da vivere, guardandola finalmente dal punto di vista di Dio!
Il Vangelo di Luca mi sembra presenti proprio questo: una storia guardata dal punto di vista di Dio (che per un cristiano non può che essere il punto di vista di Gesù).
Siamo di fronte a una di quelle persone che il nostro bisogno di tracciare confini lascerebbe proprio fuori: c’è infatti Zaccheo, che è pubblicano (anzi, peggio, un capo dei pubblicani) e ricco (anzi, peggio, arricchito sulla pelle di altri, dei suoi).
Luca tra l’altro pochi versetti prima (18,18-26) ha appena raccontato l’episodio del “giovane” ricco, uscendosene con quest’espressione: «Quant'è difficile, per coloro che possiedono ricchezze entrare nel regno di Dio. È più facile per un cammello passare per la cruna di un ago che per un ricco entrare nel regno di Dio!».
Anche se c’è da dire che dopo il Vangelo di domenica scorsa (Lc 18,9-14), forse verso i pubblicani abbiamo un sguardo più simpatico (sia nel senso debole di “benevolo”, sia in quello forte di “patire-con”, “partecipare ai sentimenti altrui”).
In effetti anche Zaccheo suscita immediata simpatia: sia per la curiosità che ha di vedere Gesù, sia per gli stratagemmi che mette in atto per vincere gli ostacoli che glielo impediscono. Mi piace provare a pensare con che sentimenti se ne stava su quel sicomoro. Certo entrare nel cuore e nella testa di un personaggio di duemila anni fa, spazialmente e culturalmente così lontano è una bella pretesa... ma in questo desiderio di Zaccheo di vedere Gesù mi pare di poter scorgere la sete profonda dell’uomo di sempre di cercare la Vita...
Gesù arriva, proprio nel contesto di questa attesa carica di attrazione, e... appunto... guarda la storia, la storia di quest’uomo, dal suo punto di vista e gli dice che vuole fermarsi a casa sua, che per un ebreo vuol dire desiderare di fare comunione con lui. Noi forse siamo abituati a sentire questa storia e non ci sconvolgiamo più di tanto, ma le reazioni di chi era lì rivelano la portata di quanto Gesù stava facendo: «Vedendo ciò, tutti mormoravano: “È andato ad alloggiare da un peccatore!”».
Eppure, tanto per cambiare... ha avuto ragione lui! Se si nota, infatti, Luca non fa dire più niente a Gesù (tranne la frase rivelativa finale). Si parla solo di Zaccheo, del suo essere «pieno di gioia» e della sua decisione (non provocata da nessuna altra parola esplicitamente riportata di Gesù) di aprirsi a un rapporto nuovo con gli altri: «Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto».
A Zaccheo per uscire da se stesso e dai suoi circoli mortiferi è bastato davvero poco: che un altro lo guardasse e gli offrisse comunione... È così vero anche per noi: quante volte ci basta un altro che ci guarda con benevolenza per tirar su gli occhi dal nostro ombelico...
Chissà perché invece ecclesialmente (ma non solo) con un Dio che di fronte al peccato dell’uomo si rivela come colui che «è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto», riusciamo solo a tracciare i nostri confini escludenti?
Forse invece “gli altri” aspettano solo che li guardiamo e proponiamo loro comunione...

venerdì 26 ottobre 2007

gloria Dei vivens pauper

«Il Signore è giudice e non v'è presso di lui preferenza di persone. Non è parziale con nessuno contro il povero, anzi ascolta proprio la preghiera dell'oppresso».
Mi vien da dire: “Beati i poveri! Proprio la loro preghiera è ascoltata! La nostra invece…”.
Ma a dire “la loro preghiera” non sarò mica come quel fariseo che si tira fuori dalla solidarietà umana dicendo: «non sono come gli altri uomini».
In effetti mi accorgo di come sia una reazione immediata non identificarmi coi poveri… Insomma si fa poi sempre parte di quelli che non si dicono ricchi, ma di certo non muoiono di fame; che non sono premi Nobel, ma insomma neanche dei grandi ignoranti; che non sono senza colpe, ma nemmeno dei super peccatori… In fin dei conti le principali povertà del nostro mondo (economiche, culturali, morali…) ci sfiorano, o anche ci toccano, ma non ci identificano. Tant’è che anche nel mondo della vita religiosa pare si preferisca “farsi poveri”, piuttosto che “esserlo”.
Questo istintivo prendere le distanze dall’auto-identificarsi come poveri mi pare comprensibile seguendo gli schemi comuni: a nessuno piace essere nell’indigenza, aver bisogno di un altro, riconoscersi incapace, fallito, sbagliato, brutto, sporco… è troppo per l’alta considerazione che abbiamo di noi stessi, anzi, in qualche misura, che dobbiamo avere di noi stessi, dato che in questo mondo siamo gli unici di cui ci possiamo fidare… tutte le solidità e le solidarietà sono crollate: il lavoro è ridotto a competizione, i matrimoni (e le relazioni amorose in genere) sembrano destinati a finire o a ridurre alla reciproca estraneità i due, le amicizie hanno sempre l’ombra del “volersi bene per interesse”…
In realtà prendere le distanze dalla com-passione con l’umano e tirarsi fuori da un enorme popolo (l’umanità) che soffre, spera, pecca, teme, geme non salva nessuno, come invece istintivamente ci verrebbe da pensare, mossi più dalla irrazionale paura della morte che da un lucido desiderio di Vivere.
Anche perché per quanto ci tiriamo fuori dalle situazioni contingenti di povertà (e di peccato «non sono come gli altri uomini»), non possiamo non sfuggire alla nostra condizione ontologica di poveri. E in proposito vorrei citare una pagina eloquente di A.Rizzi[1]:

L’uomo è povertà
In quanto oggetto e destinatario dell’agape l’uomo è l’essere-di-bisogno; dove bisogno dice a un tempo la relazione a un insieme di beni da fruire e la problematicità del possesso di quei beni. Nella prima faccia il bisogno dice ricchezza, almeno virtuale, potenzialità di espansione e di felicità; nella seconda, dice che ogni bene conquistato non è mai garantito, che ogni ricchezza acquistata è sempre insicura, ogni espansione precaria, ogni felicità fragile. Non siamo mai le cose che abbiamo, neppure le più intime: il nostro modo di essere è l’avere, in un senso più profondo di quanto dica l’abituale distinzione tra essere e avere. Infatti quella distinzione si istituisce sul piano valutativo, come discriminazione tra beni autentici e beni estranianti; ma sia gli uni che gli altri non diventano mai noi stessi al punto da essere inalienabili, rimangono sempre sotto il segno dell’aleatorietà. Qui non siamo più sul piano della valutazione, ma della struttura dell’esistenza umana, di quella che possiamo chiamare povertà radicale dell’uomo. […] Povertà non è sinonimo di finitezza. Un essere finito potrebbe avere tutto ciò che gli compete, e averlo in maniera così salda e sicura da non correre pericoli per la propria realizzazione: […] parlare di povertà in questo caso avrebbe senso soltanto misurando l’uomo su un metro, a lui estrinseco, di infinito. […] Povertà non è limite del proprio essere; è limite dentro il proprio essere. […] Ma abbiamo detto povertà radicale. E con questo intendiamo porre una distinzione tra le situazioni attuali, effettive, di povertà e quella condizione di base, quella fragilità che permane anche nelle situazioni di opulenza e di esteriore sicurezza, e che nessun possesso o potere può superare. […] È questa crepa che chiamo povertà radicale; quella che una famosa immagine biblica chiama i piedi d’argilla che reggono la statua di metalli preziosi. […] Ma: gloria Dei vivens pauper. Quest’espressione di Oscar Romero, che riprende e precisa quella di Ireneo [gloria Dei vivens homo], costituisce la definizione dell’essere umano alla luce dell’agape divina. Dire che Dio ama l’uomo come altro da sé equivale a dire che nell’uomo egli ama il povero: non ciò che l’uomo ha ed è, ma quell’essere-di-bisogno che è bisogno di avere e di essere. […] Ma proprio questa povertà, che in sé non ha né è nulla di amabile, viene amata da Dio e da lui colmata: e in questo gesto Dio si rivela Dio. Dunque, la volontà di colmare il povero – ogni uomo in quanto povero – è la parola originaria che Dio dice su di sé: è la sua gloria. Quando parliamo della predilezione di Dio per i poveri non tracciamo un limite al suo amore – quasi Dio amasse soltanto coloro che sono attualmente poveri – ma indichiamo il luogo privilegiato in cui riconoscere questo amore. Nella preferenza di Dio per i poveri attuali si testimonia la qualità del suo amore per tutti gli uomini nella loro povertà radicale”.


Ecco perché è così importante l’incipit del vangelo che la liturgia di questa domenica ci propone: «Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri».
Il presumere di essere giusti non è solo un problema morale, non è un essere non troppo politicamente corretti… La questione è molto più decisiva, molto più radicale e attraversa l’orizzonte di senso in cui l’uomo si pone:
- quello dell’auto-fondazione su se stessi, in cui Dio è escluso (sono giusto, sono io l’autore della mia giustizia: «O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo») e in cui gli altri sono disprezzati, guardati come concorrenti o al massimo come “gratificatori” del nostro essere giusti;
- quello dell’affidamento a un Altro («Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore»), che crea la solidarietà tra uomini, quindi tra poveri.
Quest’ultima è proprio la scelta di Paolo, l’unica che gli permette di restare saldo anche in una situazione estrema come quella che gli fa dire «nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato». Tant’è che le sue parole tralucono eloquentemente quanto i suoi “piedi d’argilla” si siano piantati su un fondamento sicuro, anzi sull’unico Fondamento: «Carissimo, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede».
[1] A.Rizzi, Dio in cerca dell’uomo. Rifare la spiritualità, edizioni paoline, p. 48-51.

giovedì 25 ottobre 2007

Presunzione di essere giusti - la schizofrenia

Sir 35,12-14.16-18; Salmo 33; 2Tm 4,6-8.16-18; Lc 18,9-14

fra il credere e il pregare : quale Dio?

...sembrano due divinità diverse, queste a cui si rivolgono i due credenti praticanti che vanno al tempio a pregare. Due divinità e due credenti discordanti, si direbbe! Proprio questo è l’obiettivo di Gesù: di mettere a nudo due modi radicalmente opposti, di credere e pregare, anche se nello stesso tempio. Forse effettivamente ci sono tra noi personaggi simili a questi due prototipi, ma i due atteggiamenti possono anche convivere e combattersi nello stesso animo… Anzi forse tutti dobbiamo passare attraverso questa esperienza bruciante e dolorosa, appena ci accorgiamo, nel cammino della fede, di essere (stati) farisei capaci di ferire i più deboli e sprofondarli nel loro ‘peccato’ dall’alto della nostra “perfezione”. È sempre la preghiera la cartina di tornasole della fede. L’orante è il credente che si mette di fronte a Dio e s’arrischia a cercare nella propria fede un volto amico di fronte a cui esprimersi, con cui entrare in relazione… Allora la prima raccomandazione è la parabola della vedova ostinata: non smettere mai questa preghiera, per nessun motivo, se si vuoi davvero arrivare a incontrare Dio… E questa è la seconda raccomandazione, altrettanto importante, la parabola del fariseo e del pubblicano: fai attenzione che se parli davvero con Dio, il tuo cuore deve diventare misericordioso e ‘amico’ con il fratello.

"alcuni presumevano di essere giusti e disprezzavano gli altri"

Anche Paolo era sicuro di aver combattuto la buona battaglia… ma attendendo con amore la manifestazione del Signore. Anche la vedova era sicura di essere nel giusto!... cioè di aver ragione. Ma in che cosa? nel bisogno di essere soccorsa, amata, custodita… proprio perché da sola non aveva più risorse, né meriti, da vantare… ma solo quest’immensa povertà e fame di bene, che qualcuno doveva pur esaudire… Invece il fariseo ha tante opere da esibire, vere certamente, ed eseguite con corretta precisione. Qual è, allora, il suo problema? Comincia ringraziando Dio, come è giusto, ma è un soliloquio senza interlocutore, perchè poi al centro del tempio c’è lui, che parla solo di ciò che ha fatto bene, e disprezza l’altro… misurandolo sulla propria esperienza - comportamento così diffuso che è divenuto un proverbio . io ho fatto quel che era giusto, chi invece è causa del suo male pianga se stesso!

noi, buoni cristiani praticanti : abbiamo il nemico in casa!

… con questa parabola Gesù mette in guardia proprio i credenti, i religiosi, quelli che frequentano di più il tempio, osservano i precetti della chiesa e le norme morali. Eppure abbiamo il nemico in casa, capace di svuotare di senso il vangelo … e minare ogni rapporto di amore. Questo tarlo si manifesta nei momenti in cui, magari feriti per qualche delusione o scandalizzati per l’altrui comportamento, non abbiamo più misericordia per nessuno e proclamiamo l’elenco minuzioso (perché tanto rimuginato!) dei nostri meriti e di quanto quindi ci è dovuto! Il verme corrosivo rivela il suo veleno soprattutto nel disprezzo degli altri (letteralmente: “nientificazione”, annullamento)!

Il fariseo è un onesto uomo religioso, che, con la propria fedeltà, costanza, fatica, ha conquistato questa posizione di merito. Proprio per questo, coerentemente, “discrimina” (mette dalla parte del crimine!) chi non ha fatto come lui. Se ci è riuscito lui, possono farlo anche gli altri – se ne avessero voglia! Questa logica soffocante rende “duro”e refrattario alla misericordia il cuore dei migliori discepoli o dei credenti più osservanti…

Luca riprende la parabola, perché è proprio questo il rischio più subdolo nella sua chiesa, la fonte di tutte le discriminazioni, condanne reciproche, divisioni … come del resto tra noi, oggi. Infatti, basta vedere quanto ancora tra i credenti, nelle comunità famigliari, religiose, aggregazioni e movimenti ecclesiali… questo vizio “virtuoso” sia persistente, per capire perché il Signore ci insista in modo così shoccante: chi si crede a posto davanti a Dio, per aver fatto quanto doveva fare, è in grave pericolo, perché diventerà presto il giudice inquisitore, difensore della fede e dei costumi, di cui si considera un esperto. Costui, non conosce affatto Dio, e quindi neanche se stesso. Meglio i delinquenti, sembra dire il Signore! Ma perchè una vita ‘religiosa’ seria e impegnata può finire così?

… può essere la trappola del culto

Il culto come voce di lode e comunione della chiesa, radunata attorno alla Parola e all’eucaristia, è il dono più grande offerto al credente, per confortare e nutrire la sua fede, nel cammino della vita. Ma può diventare fine a se stesso, un doveroso tributo pagato a Dio, ed estraniare dalla sua intima verità che è la riconoscenza al Signore e la partecipazione alla redenzione del mondo, che ancora sta fermentando nella storia… Man mano che la preghiera cultuale tende a separarsi dalle condizioni concrete della storia, dalle sofferenze dei fratelli, allora può anche riempire la vita quotidiana di atti di devozione, ma svuotarla di senso. L’indice rivelatore di questa schizofrenia dello spirito è l’insensibilità progressiva alle sorti del mondo e il giudizio impietoso contro il fratello diverso!

… può essere la trappola di una vita impegnata

Avviene che ci mettiamo – sul serio! – alla ricerca di Dio. Come esito di una vocazione autentica oppure dopo un'esperienza forte, un ritiro, un pellegrinaggio, un lutto, una gioia… quando decidiamo di conoscere il Signore, diventare discepoli. Ma la testa e il cuore subito s’ingombrano di preoccupazioni, di desideri, di progetti, di giudizi buoni, ottimi. Che man mano costituiscono il senso della nostra vita... Impercettibilmente, però, tutto questo, con nostro segreto o manifesto compiacimento… si identifica con “i progetti e pensieri di Dio”… Ed ecco che chi ragiona diverso e non li condivide, o vive altrimenti, è nemico di Dio! Con le conseguenti “giuste” contrapposizioni, e poi condanne, e infine il disprezzo del fratello… per difendere la verità e la morale.

la medicina per la schizofrenia dello spirito è la preghiera del pubblicano

È questa la preghiera che ci mette nella posizione autentica di fronte a Dio: abbi pietà di me, peccatore! Il pubblicano della parabola non lo sa ancora, ma la chiesa di Luca ormai lo sa bene, che questa preghiera salva perché è il gemito dello Spirito dentro di noi, effuso in noi per insegnarci a pregare davvero, perchè da soli non siamo capaci.. Ci fa dire: abba, padre! senza altre parole, chiamando con un gemito il Dio di Gesù, non come giudice o creatore … ma come “colui che ha pietà”, l’amore chinato su di noi! Qui sta il nodo fondamentale del fatto cristiano – e l’equivoco determinante di ogni deviazione. Un cristiano che accusa e condanna un altro d’essere peccatore è il colmo dell’incomprensione nel discepolo di Gesù. Esser discepolo consiste invece nella sequela determinata di colui che fu computato tra i malfattori: “…Usciamo dunque anche noi dall’accampamento e andiamo verso di lui, portando il suo obbrobrio” (Eb 13,13). Che questo obbrobrio, questa lontananza di Dio sia abitata da Dio in maniera molto maggiore del simbolo religioso, ecco il mistero! Ma è questa sorprendente dislocazione di Dio rispetto ai nostri pensieri che fa dire a Gesù che le prostitute e i pubblicani passano avanti ai capi ai santi religiosi… nel regno di Dio! Questa invocazione apre al credente lo spazio propriamente cristiano (cattolico) che Gesù di Nazareth ha vissuto con coloro che erano fuori, lontani e perduti… E porta a vivere la povertà di Dio nella storia, attraverso la partecipazione appassionata e simpatizzante con la speranza, la sofferenza, la debolezza di ogni uomo – perché si colloca là dove Dio ha fatto il miracolo, in fondo al tempio, sotto il giudizio impietoso dei “giusti”… Senza mettere mai più la propria fiducia in certezze o progetti o ideologie … ma solo nella testimonianza della misericordia del Signore, come Paolo: Il Signore però mi è stato vicino, mi ha dato forza!

"Io sono come gli altri”… un uomo da salvare”

… il “santo” cristiano è, infatti, un ex-fariseo invaso dalla grazia del pubblicano, per cui non solo non giudica più nessuno, ma si sente salvato dallo stesso amore, scoppia di riconoscenza della stessa riconoscenza del peccatore perdonato, e dunque corre in fondo al tempio, nei crocicchi delle strade, sui marciapiedi della città… ad abbracciare il “peccatore” finalmente fratello, perché da lui ha imparato a pregare! E gioisce che giustamente lo preceda in paradiso, sapendo che gli apre la strada, se lo tiene per mano!

… nessun “fatto cristiano” è più illuminante che la preghiera di Gesù morente in croce nell’estrema lontananza da Dio: per il luogo (fuori del tempio), il tempo (bisogna fare in fretta, perché non contaminare il sabato), l’osservanza della legge (uccidono l’unico giusto!). Ma Gesù prega per il perdono dei suoi assassini e promette compagnia eterna con sé al ladrone : quale maggiore “testimonianza” che Dio accoglie l’estrema lontananza da sé? Non è stato Gesù ad abbandonare il Padre, è stato l’amore del Padre a spingerlo là dove c’era l’assenza, in mezzo ai peccatori, perduti, senza pastore… in modo che, divenuti suoi amici, il Padre non potesse che salvarli e amarli.

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