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martedì 22 ottobre 2013

XXX Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro del Siràcide (Sir 35,15-17.20-22)
Il Signore è giudice e per lui non c’è preferenza di persone. Non è parziale a danno del povero e ascolta la preghiera dell’oppresso. Non trascura la supplica dell’orfano, né la vedova, quando si sfoga nel lamento. Chi la soccorre è accolto con benevolenza, la sua preghiera arriva fino alle nubi. La preghiera del povero attraversa le nubi né si quieta finché non sia arrivata; non desiste finché l’Altissimo non sia intervenuto e abbia reso soddisfazione ai giusti e ristabilito l’equità.
Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo a Timòteo (2Tm 4,6-8.16-18)
Figlio mio, io sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione. Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato. Nei loro confronti, non se ne tenga conto. Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero: e così fui liberato dalla bocca del leone. Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno; a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen.
Dal Vangelo secondo Luca (Lc 18,9-14)
In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».
Il vangelo che questa Trentesima Domenica del Tempo Ordinario ci propone, è la diretta continuazione di quello di domenica scorsa, sulla necessità di pregare sempre. Oggi il testo lucano, ci propone – in una nuova parabola di Gesù – due esempi di preghiera: quella del fariseo e quella del pubblicano.
Ma se la preghiera, come dicevamo la volta scorsa, non è tanto un dire preghiere, ma il collocarsi nella relazione col Signore, allora forse, i due protagonisti non sono tanto due tipi umani – di cui saremmo bravissimi a trovare esemplificazioni contemporanee tra le persone che conosciamo, ma sono due possibilità di porsi in relazione col Signore e quindi coi fratelli, che si ripresentano attimo dopo attimo in ogni momento della nostra vita. Noi possiamo essere e siamo il fariseo – con l’intima presunzione di essere giusti e sprezzanti verso gli altri – e il pubblicano – incapaci di alzare gli occhi al cielo, con la mano che ci batte sul petto.
L’immagine che dovrebbe venirci in mente non è quindi tanto quella di quel fratello che assomiglia al fariseo affiancata da quell’altra che ha il volto di quel fratello che assomiglia al pubblicano della parabola… quanto piuttosto quella di noi stessi, alle prese con la decisione sul chi essere…
A proposito, mi sono ricordata di un’immagine della mia infanzia, quella dei fumetti di paperino…
 

 
Il fariseo e il pubblicano sono dentro di noi, impegnati nella continua lotta tra il sentirsi giusti e l’incapacità di alzare lo sguardo verso il Signore.
È questa la posta in gioco della parabola di Gesù: la nostra giusta collocazione di fronte al Signore (e ai fratelli).
Da questo punto di vista, non v’è dubbio che Gesù indichi come corretta la posizione del pubblicano: si posiziona in maniera giusta colui che si riconosce peccatore.
Ma – onde evitare fraintendimenti – vorrei specificare i termini in gioco.
Da un lato la doppia valenza che ha il termine “giusto” e dall’altra quella che ha il termine “peccatore”.
La parola “giusto”, infatti, ha significati diversi nelle locuzioni da me usate: ha una valenza quando dico “sentirsi giusti”, ne ha un’altra quando dico “collocarsi nella posizione giusta”.
Nel primo caso infatti, l’intonazione del termine è etica, fa cioè riferimento al comportamento del soggetto in causa, che nella finzione parabolica è ben esplicitato: «O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo».
Nel secondo caso, invece, con il termine “giusto” non si fa immediatamente riferimento ad un comportamento moralmente corretto, ma all’esattezza e alla precisione di una determinata posizione: è la stessa valenza che il termine ha in una frase come la seguente “la giusta posizione per vincere la partita di scacchi è fare scacco matto”, oppure “la giusta combinazione per aprire la cassaforte è digitare la password esatta”.
Mentre nel primo caso alla “giustezza” si può concedere una sorta di gradazione (si può essere più o meno giusti), nel secondo no: o si è nella posizione corretta, che abilita a qualcos’altro (la precisa posizione degli scacchi, che consente la vittoria; o la password esatta che permette di accedere alla cassaforte) oppure non lo si è.
Considerato tutto questo e tornando alla parabola, riesce bene il gioco di parole per cui non è detto che essere giusti (moralmente) coincida con la giusta collocazione di fronte al Signore. Anzi, sembra che il giusto posizionarsi di fronte a Dio (quello che abilita ad una relazione consapevole con Lui, che altrimenti non si dà) coincida con il non essere giusti (moralmente).
Questo evidentemente non vuol dire che allora bisogna porsi in una condizione moralmente ingiusta per entrare in relazione col Signore o che non sia necessario lottare contro le ingiustizie di cui siamo artefici; piuttosto questo gioco di parole, suggerito dal vangelo stesso («Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti [in greco, dikaioi] e disprezzavano gli altri» - «Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato [in greco, dedikaiomenos]»), propone il riconoscimento di Dio come unico giusto e una ricollocazione nostra di fronte a Lui: nessuno di noi è giusto, noi siamo tutti peccatori.
Ed ecco entrare in gioco il secondo termine dalla doppia valenza che richiamavamo prima: “peccatore”.
Secondo un primo senso “peccatore” è chi commette dei peccati: preso in questa prima accezione il termine sembra contraddire quanto appena detto. In effetti esistono persone capaci di non fare peccati (almeno per un certo lasso di tempo) e dunque che potrebbero – come il fariseo della parabola – ritenersi giusti (moralmente).
Ma vi è una seconda intonazione che questo termine può avere: “peccatore” è colui che esistenzialmente è abitato dal peccato, cioè che in tutto ciò che fa (anche le cose giuste) porta con sé la contraddizione, la viscosità, la necessità della sua storia, del suo mondo, della storia che è e del mondo che è.
Da questo punto di vista nessuno di noi è “senza peccato”; per prendere solo un aspetto della questione ricordo quanto ci ricordava il prof. Moscatelli in un incontro sulla giustizia nella Bibbia: le nostre “vite giuste” galleggiano su fiumi di sangue di altri uomini… quello di coloro che abitano nel Terzo mondo e sulla cui ricchezza si fonda la nostra opulenza, quello di mia madre che mi ha dato alla luce, quello dei martiri della patria che mi consentono di vivere in un paese libero dalla dittatura, e via discorrendo…
Non si tratta del solito discorso – piuttosto abusato negli ambienti cattolici – che vuole insistere sulla peccaminosità dell’uomo, mettendola quasi al centro della lettura teologica della storia: non credo nella logica della mortificazione, delle penitenze e dei sacrifici atti a castigare la nostra natura cattiva. È infatti quella stessa logica che genera sedicenti giusti, che disprezzano gli altri.
Si tratta piuttosto della proposta (che a me pare nasca dalle pagine evangeliche) di guardarsi onestamente come un miscuglio (i cui elementi quasi mai sono ben rintracciabili) di caso, fortuna, grazia, necessità, precarietà, eredità, gratuità, bisogni, assoluto e chi più ne ha più ne metta… con due centimetri di libertà…
Se ci pensiamo così, come un grumo di sangue accanto ad altri grumi di sangue, siamo nella giusta posizione per una relazione consapevole col Signore, che col tempo ci insegna che la giustizia che disprezza il fratello, non sarà mai la sua giustizia… perché Lui, l’unico giusto, i suoi figli-miscuglietti non li ha mai disprezzati.

1 commento:

Gabriella Dall'Acqua ha detto...

Il fariseo era rigido nel corpo e nello spirito, il pubblicano flesso nella postura corporale e nell'anima.
Il fariseo parlava a se, il pubblicano a Dio.
Il Dio del fariseo era interno, quello del pubblicano esterno.
Il fariseo pensava di possedere Dio, il pubblicano no.
Il criterio di giudizio del fariseo era se stesso, quello del pubblicano era Dio.
Il fariseo giudicava gli altri in generale e nel particolare il pubblicano, il pubblicano esaminava se stesso.
Il fariseo stava nei primi posti, il pubblicano negli ultimi.
Il fariseo elencava meriti inesistenti, il pubblicano si riconosceva peccatore.
Il fariseo si esaltava, il pubblicano si umiliava.
Il fariseo non tornò giustificato, il pubblicano sì.
Entrambi tornarono a casa con convinzioni errate: il fariseo di essere a posto, il pubblicano di non aver ottenuto il perdono.
Ambedue ottengono quello che chiedono: il fariseo è confermato nella diversità rispetto al pubblicano, (qui risiede l’aspetto ricorsivo), l’esattore delle tasse è perdonato delle proprie colpe.
Cfr. Ebook di Ravecca Massimo. Tre uomini un volto: Gesù, Leonardo e Michelangelo. Grazie.

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