«Il Signore è giudice e non v'è presso di lui preferenza di persone. Non è parziale con nessuno contro il povero, anzi ascolta proprio la preghiera dell'oppresso».
Mi vien da dire: “Beati i poveri! Proprio la loro preghiera è ascoltata! La nostra invece…”.
Ma a dire “la loro preghiera” non sarò mica come quel fariseo che si tira fuori dalla solidarietà umana dicendo: «non sono come gli altri uomini».
In effetti mi accorgo di come sia una reazione immediata non identificarmi coi poveri… Insomma si fa poi sempre parte di quelli che non si dicono ricchi, ma di certo non muoiono di fame; che non sono premi Nobel, ma insomma neanche dei grandi ignoranti; che non sono senza colpe, ma nemmeno dei super peccatori… In fin dei conti le principali povertà del nostro mondo (economiche, culturali, morali…) ci sfiorano, o anche ci toccano, ma non ci identificano. Tant’è che anche nel mondo della vita religiosa pare si preferisca “farsi poveri”, piuttosto che “esserlo”.
Questo istintivo prendere le distanze dall’auto-identificarsi come poveri mi pare comprensibile seguendo gli schemi comuni: a nessuno piace essere nell’indigenza, aver bisogno di un altro, riconoscersi incapace, fallito, sbagliato, brutto, sporco… è troppo per l’alta considerazione che abbiamo di noi stessi, anzi, in qualche misura, che dobbiamo avere di noi stessi, dato che in questo mondo siamo gli unici di cui ci possiamo fidare… tutte le solidità e le solidarietà sono crollate: il lavoro è ridotto a competizione, i matrimoni (e le relazioni amorose in genere) sembrano destinati a finire o a ridurre alla reciproca estraneità i due, le amicizie hanno sempre l’ombra del “volersi bene per interesse”…
In realtà prendere le distanze dalla com-passione con l’umano e tirarsi fuori da un enorme popolo (l’umanità) che soffre, spera, pecca, teme, geme non salva nessuno, come invece istintivamente ci verrebbe da pensare, mossi più dalla irrazionale paura della morte che da un lucido desiderio di Vivere.
Anche perché per quanto ci tiriamo fuori dalle situazioni contingenti di povertà (e di peccato «non sono come gli altri uomini»), non possiamo non sfuggire alla nostra condizione ontologica di poveri. E in proposito vorrei citare una pagina eloquente di A.Rizzi[1]:
“L’uomo è povertà
In quanto oggetto e destinatario dell’agape l’uomo è l’essere-di-bisogno; dove bisogno dice a un tempo la relazione a un insieme di beni da fruire e la problematicità del possesso di quei beni. Nella prima faccia il bisogno dice ricchezza, almeno virtuale, potenzialità di espansione e di felicità; nella seconda, dice che ogni bene conquistato non è mai garantito, che ogni ricchezza acquistata è sempre insicura, ogni espansione precaria, ogni felicità fragile. Non siamo mai le cose che abbiamo, neppure le più intime: il nostro modo di essere è l’avere, in un senso più profondo di quanto dica l’abituale distinzione tra essere e avere. Infatti quella distinzione si istituisce sul piano valutativo, come discriminazione tra beni autentici e beni estranianti; ma sia gli uni che gli altri non diventano mai noi stessi al punto da essere inalienabili, rimangono sempre sotto il segno dell’aleatorietà. Qui non siamo più sul piano della valutazione, ma della struttura dell’esistenza umana, di quella che possiamo chiamare povertà radicale dell’uomo. […] Povertà non è sinonimo di finitezza. Un essere finito potrebbe avere tutto ciò che gli compete, e averlo in maniera così salda e sicura da non correre pericoli per la propria realizzazione: […] parlare di povertà in questo caso avrebbe senso soltanto misurando l’uomo su un metro, a lui estrinseco, di infinito. […] Povertà non è limite del proprio essere; è limite dentro il proprio essere. […] Ma abbiamo detto povertà radicale. E con questo intendiamo porre una distinzione tra le situazioni attuali, effettive, di povertà e quella condizione di base, quella fragilità che permane anche nelle situazioni di opulenza e di esteriore sicurezza, e che nessun possesso o potere può superare. […] È questa crepa che chiamo povertà radicale; quella che una famosa immagine biblica chiama i piedi d’argilla che reggono la statua di metalli preziosi. […] Ma: gloria Dei vivens pauper. Quest’espressione di Oscar Romero, che riprende e precisa quella di Ireneo [gloria Dei vivens homo], costituisce la definizione dell’essere umano alla luce dell’agape divina. Dire che Dio ama l’uomo come altro da sé equivale a dire che nell’uomo egli ama il povero: non ciò che l’uomo ha ed è, ma quell’essere-di-bisogno che è bisogno di avere e di essere. […] Ma proprio questa povertà, che in sé non ha né è nulla di amabile, viene amata da Dio e da lui colmata: e in questo gesto Dio si rivela Dio. Dunque, la volontà di colmare il povero – ogni uomo in quanto povero – è la parola originaria che Dio dice su di sé: è la sua gloria. Quando parliamo della predilezione di Dio per i poveri non tracciamo un limite al suo amore – quasi Dio amasse soltanto coloro che sono attualmente poveri – ma indichiamo il luogo privilegiato in cui riconoscere questo amore. Nella preferenza di Dio per i poveri attuali si testimonia la qualità del suo amore per tutti gli uomini nella loro povertà radicale”.
Ecco perché è così importante l’incipit del vangelo che la liturgia di questa domenica ci propone: «Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri».
Il presumere di essere giusti non è solo un problema morale, non è un essere non troppo politicamente corretti… La questione è molto più decisiva, molto più radicale e attraversa l’orizzonte di senso in cui l’uomo si pone:
- quello dell’auto-fondazione su se stessi, in cui Dio è escluso (sono giusto, sono io l’autore della mia giustizia: «O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo») e in cui gli altri sono disprezzati, guardati come concorrenti o al massimo come “gratificatori” del nostro essere giusti;
- quello dell’affidamento a un Altro («Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore»), che crea la solidarietà tra uomini, quindi tra poveri.
Quest’ultima è proprio la scelta di Paolo, l’unica che gli permette di restare saldo anche in una situazione estrema come quella che gli fa dire «nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato». Tant’è che le sue parole tralucono eloquentemente quanto i suoi “piedi d’argilla” si siano piantati su un fondamento sicuro, anzi sull’unico Fondamento: «Carissimo, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede».
[1] A.Rizzi, Dio in cerca dell’uomo. Rifare la spiritualità, edizioni paoline, p. 48-51.
Mi vien da dire: “Beati i poveri! Proprio la loro preghiera è ascoltata! La nostra invece…”.
Ma a dire “la loro preghiera” non sarò mica come quel fariseo che si tira fuori dalla solidarietà umana dicendo: «non sono come gli altri uomini».
In effetti mi accorgo di come sia una reazione immediata non identificarmi coi poveri… Insomma si fa poi sempre parte di quelli che non si dicono ricchi, ma di certo non muoiono di fame; che non sono premi Nobel, ma insomma neanche dei grandi ignoranti; che non sono senza colpe, ma nemmeno dei super peccatori… In fin dei conti le principali povertà del nostro mondo (economiche, culturali, morali…) ci sfiorano, o anche ci toccano, ma non ci identificano. Tant’è che anche nel mondo della vita religiosa pare si preferisca “farsi poveri”, piuttosto che “esserlo”.
Questo istintivo prendere le distanze dall’auto-identificarsi come poveri mi pare comprensibile seguendo gli schemi comuni: a nessuno piace essere nell’indigenza, aver bisogno di un altro, riconoscersi incapace, fallito, sbagliato, brutto, sporco… è troppo per l’alta considerazione che abbiamo di noi stessi, anzi, in qualche misura, che dobbiamo avere di noi stessi, dato che in questo mondo siamo gli unici di cui ci possiamo fidare… tutte le solidità e le solidarietà sono crollate: il lavoro è ridotto a competizione, i matrimoni (e le relazioni amorose in genere) sembrano destinati a finire o a ridurre alla reciproca estraneità i due, le amicizie hanno sempre l’ombra del “volersi bene per interesse”…
In realtà prendere le distanze dalla com-passione con l’umano e tirarsi fuori da un enorme popolo (l’umanità) che soffre, spera, pecca, teme, geme non salva nessuno, come invece istintivamente ci verrebbe da pensare, mossi più dalla irrazionale paura della morte che da un lucido desiderio di Vivere.
Anche perché per quanto ci tiriamo fuori dalle situazioni contingenti di povertà (e di peccato «non sono come gli altri uomini»), non possiamo non sfuggire alla nostra condizione ontologica di poveri. E in proposito vorrei citare una pagina eloquente di A.Rizzi[1]:
“L’uomo è povertà
In quanto oggetto e destinatario dell’agape l’uomo è l’essere-di-bisogno; dove bisogno dice a un tempo la relazione a un insieme di beni da fruire e la problematicità del possesso di quei beni. Nella prima faccia il bisogno dice ricchezza, almeno virtuale, potenzialità di espansione e di felicità; nella seconda, dice che ogni bene conquistato non è mai garantito, che ogni ricchezza acquistata è sempre insicura, ogni espansione precaria, ogni felicità fragile. Non siamo mai le cose che abbiamo, neppure le più intime: il nostro modo di essere è l’avere, in un senso più profondo di quanto dica l’abituale distinzione tra essere e avere. Infatti quella distinzione si istituisce sul piano valutativo, come discriminazione tra beni autentici e beni estranianti; ma sia gli uni che gli altri non diventano mai noi stessi al punto da essere inalienabili, rimangono sempre sotto il segno dell’aleatorietà. Qui non siamo più sul piano della valutazione, ma della struttura dell’esistenza umana, di quella che possiamo chiamare povertà radicale dell’uomo. […] Povertà non è sinonimo di finitezza. Un essere finito potrebbe avere tutto ciò che gli compete, e averlo in maniera così salda e sicura da non correre pericoli per la propria realizzazione: […] parlare di povertà in questo caso avrebbe senso soltanto misurando l’uomo su un metro, a lui estrinseco, di infinito. […] Povertà non è limite del proprio essere; è limite dentro il proprio essere. […] Ma abbiamo detto povertà radicale. E con questo intendiamo porre una distinzione tra le situazioni attuali, effettive, di povertà e quella condizione di base, quella fragilità che permane anche nelle situazioni di opulenza e di esteriore sicurezza, e che nessun possesso o potere può superare. […] È questa crepa che chiamo povertà radicale; quella che una famosa immagine biblica chiama i piedi d’argilla che reggono la statua di metalli preziosi. […] Ma: gloria Dei vivens pauper. Quest’espressione di Oscar Romero, che riprende e precisa quella di Ireneo [gloria Dei vivens homo], costituisce la definizione dell’essere umano alla luce dell’agape divina. Dire che Dio ama l’uomo come altro da sé equivale a dire che nell’uomo egli ama il povero: non ciò che l’uomo ha ed è, ma quell’essere-di-bisogno che è bisogno di avere e di essere. […] Ma proprio questa povertà, che in sé non ha né è nulla di amabile, viene amata da Dio e da lui colmata: e in questo gesto Dio si rivela Dio. Dunque, la volontà di colmare il povero – ogni uomo in quanto povero – è la parola originaria che Dio dice su di sé: è la sua gloria. Quando parliamo della predilezione di Dio per i poveri non tracciamo un limite al suo amore – quasi Dio amasse soltanto coloro che sono attualmente poveri – ma indichiamo il luogo privilegiato in cui riconoscere questo amore. Nella preferenza di Dio per i poveri attuali si testimonia la qualità del suo amore per tutti gli uomini nella loro povertà radicale”.
Ecco perché è così importante l’incipit del vangelo che la liturgia di questa domenica ci propone: «Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri».
Il presumere di essere giusti non è solo un problema morale, non è un essere non troppo politicamente corretti… La questione è molto più decisiva, molto più radicale e attraversa l’orizzonte di senso in cui l’uomo si pone:
- quello dell’auto-fondazione su se stessi, in cui Dio è escluso (sono giusto, sono io l’autore della mia giustizia: «O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo») e in cui gli altri sono disprezzati, guardati come concorrenti o al massimo come “gratificatori” del nostro essere giusti;
- quello dell’affidamento a un Altro («Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore»), che crea la solidarietà tra uomini, quindi tra poveri.
Quest’ultima è proprio la scelta di Paolo, l’unica che gli permette di restare saldo anche in una situazione estrema come quella che gli fa dire «nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato». Tant’è che le sue parole tralucono eloquentemente quanto i suoi “piedi d’argilla” si siano piantati su un fondamento sicuro, anzi sull’unico Fondamento: «Carissimo, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede».
[1] A.Rizzi, Dio in cerca dell’uomo. Rifare la spiritualità, edizioni paoline, p. 48-51.
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