«Ebbene, ora so che non c’è un Dio su tutta la terra se non in Israele. […] Il tuo servo non intende compiere più un olocausto o un sacrificio ad altri dei, ma solo al Signore».
Cos’è che fa pronunciare a Naaman un’espressione così univoca, radicale, unilaterale, soprattutto per uno straniero in Israele?
Com’è possibile che Paolo accetti di soffrire «fino a portare le catene come un malfattore», a sopportare «ogni cosa»?
E come mai uno dei lebbrosi risanati, quello samaritano, torna da Gesù «lodando Dio a gran voce», gettandosi ai suoi piedi «per ringraziarlo»?
Mi pare che la risposta a queste tre domande possa essere una delle chiavi di lettura per la liturgia di questa domenica: il fatto è che questi uomini hanno sperimentato nella loro carne, nella loro vita, nella loro storia la veridicità dell’incontro salvifico col Signore.
Le Scritture riguardo ad essi non ci raccontano una vaga esperienza del divino, ma ci portano dentro al loro cuore, irreversibilmente segnato dal tocco del Dio che salva (cioè proprio letteralmente di Gesù). Nessuno ormai potrà più convincere questi uomini a credere in altri dei (Naaman), nessuno li potrà più dissuadere dal dare la vita per questo Dio (Paolo), nessuno li persuaderà di essere lontani da Dio perché stranieri (Samaritano)… ce l’hanno scritto nelle viscere che “hanno ragione loro” (per dirla alla Mazzolari).
Mi è molto cara in questi giorni questa riflessione sul fatto che in fin dei conti non c’è nessuna ragione per il nostro credere, vivere e sperare che valga più di questo aver inciso nella carne la bellezza di questo incontro. E viceversa non c’è argomentazione che tenga nel tentare di dissuaderci dal fatto che la vita più bella che si possa vivere è quella evangelica: niente potrà più falsificare che solo essa ci ha fatto esplodere il petto, ci ha fatto brillare gli occhi, ci ha fatto sussultare le viscere.
Certo, non voglio essere fraintesa… qui non si sta parlando di quelle esperienze “miracolistiche”, emozionali, “visionarie” che fanno storcere tanto il naso all’uomo d’oggi (e un po’ anche a me)…
Si sta parlando di qualcosa (o Qualcuno) che incrocia la vita quotidiana, laica, concreta nostra e di questi uomini di cui ci parlano queste letture. E il bello è che come noi questi uomini di fatto non hanno niente di “speciale” in partenza:
- Naaman è malato e straniero, l’antitesi dell’uomo che ci si aspetti incontri Dio, soprattutto nella mentalità del tempo; eppure nella sua carne che «ridiventa come la carne di un giovinetto» si scrive una convinzione che niente e nessuno gli toglierà: «non c’è un Dio su tutta la terra se non in Israele». Non c’è verità, non c’è vita, non c’è possibilità di un’esistenza bella se non in questo Dio!
- Paolo lo troviamo incatenato come un malfattore… non pare, almeno a prima vista, una gran bella situazione iniziale… eppure lo scopriamo animato da una determinazione che lascia a bocca aperta: dice di essere disposto a soffrire e a sopportare ogni cosa… Come può un uomo essere disposto a tanto? Quando, perché e soprattutto per chi noi saremmo capaci di soffrire e sopportare ogni cosa? Per un figlio, per un amico, per un fratello, per un ideale, per una giusta causa? Paolo dice «per gli eletti, perché anch’essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù». Paolo ha dunque sperimentato in vita che c’è una salvezza, che il cielo è sceso in terra, che il velo del tempio è squarciato, che Dio è per l’uomo... e vuole che anche gli altri scoprano (raggiungano dice lui) questa verità performatrice, trasformante, comunicabile solo con la dedicazione della vita. Questa è la perla preziosa del suo cuore, quella che lo rende disposto a tutto. Infatti il suo vangelo è «che Gesù Cristo, della stirpe di Davide, è risuscitato dai morti» e dunque che Dio è il Dio della vita e l’uomo non è destinato a rimanere nella solitudine, nel non-senso, nel freddo di una tomba. E se davvero la morte è vinta e con lei anche ogni paura, allora veramente si può essere disposti a tutto perché ogni uomo lo sappia e viva con logiche vitali, solidali, inclusive!
- E infine il più simpatico, il lebbroso samaritano (quindi anch’egli malato e straniero…)… simpatico perché quasi non si accorge del momento in cui guarisce, ma guarito ci si ritrova: «trovandosi guarito»… Ma proprio questo rendersi conto, questo accorgersi che in lui, nel suo corpo si è scritta la firma salvifica di Dio lo rende non solo “guarito” (come tutti gli altri nove, che certo non sono ri-diventati malati per non essere tornati da Gesù), ma “salvato”. E di fatti vive uno dei segni più eloquenti della salvezza ricevuta e riconosciuta: la gratitudine («si gettò ai piedi di Gesù per ringraziarlo»), la lode («tornò indietro lodando Dio a gran voce»)!
L’augurio per tutti è di cantare «al Signore un canto nuovo, perché ha compiuto prodigi»!
Cos’è che fa pronunciare a Naaman un’espressione così univoca, radicale, unilaterale, soprattutto per uno straniero in Israele?
Com’è possibile che Paolo accetti di soffrire «fino a portare le catene come un malfattore», a sopportare «ogni cosa»?
E come mai uno dei lebbrosi risanati, quello samaritano, torna da Gesù «lodando Dio a gran voce», gettandosi ai suoi piedi «per ringraziarlo»?
Mi pare che la risposta a queste tre domande possa essere una delle chiavi di lettura per la liturgia di questa domenica: il fatto è che questi uomini hanno sperimentato nella loro carne, nella loro vita, nella loro storia la veridicità dell’incontro salvifico col Signore.
Le Scritture riguardo ad essi non ci raccontano una vaga esperienza del divino, ma ci portano dentro al loro cuore, irreversibilmente segnato dal tocco del Dio che salva (cioè proprio letteralmente di Gesù). Nessuno ormai potrà più convincere questi uomini a credere in altri dei (Naaman), nessuno li potrà più dissuadere dal dare la vita per questo Dio (Paolo), nessuno li persuaderà di essere lontani da Dio perché stranieri (Samaritano)… ce l’hanno scritto nelle viscere che “hanno ragione loro” (per dirla alla Mazzolari).
Mi è molto cara in questi giorni questa riflessione sul fatto che in fin dei conti non c’è nessuna ragione per il nostro credere, vivere e sperare che valga più di questo aver inciso nella carne la bellezza di questo incontro. E viceversa non c’è argomentazione che tenga nel tentare di dissuaderci dal fatto che la vita più bella che si possa vivere è quella evangelica: niente potrà più falsificare che solo essa ci ha fatto esplodere il petto, ci ha fatto brillare gli occhi, ci ha fatto sussultare le viscere.
Certo, non voglio essere fraintesa… qui non si sta parlando di quelle esperienze “miracolistiche”, emozionali, “visionarie” che fanno storcere tanto il naso all’uomo d’oggi (e un po’ anche a me)…
Si sta parlando di qualcosa (o Qualcuno) che incrocia la vita quotidiana, laica, concreta nostra e di questi uomini di cui ci parlano queste letture. E il bello è che come noi questi uomini di fatto non hanno niente di “speciale” in partenza:
- Naaman è malato e straniero, l’antitesi dell’uomo che ci si aspetti incontri Dio, soprattutto nella mentalità del tempo; eppure nella sua carne che «ridiventa come la carne di un giovinetto» si scrive una convinzione che niente e nessuno gli toglierà: «non c’è un Dio su tutta la terra se non in Israele». Non c’è verità, non c’è vita, non c’è possibilità di un’esistenza bella se non in questo Dio!
- Paolo lo troviamo incatenato come un malfattore… non pare, almeno a prima vista, una gran bella situazione iniziale… eppure lo scopriamo animato da una determinazione che lascia a bocca aperta: dice di essere disposto a soffrire e a sopportare ogni cosa… Come può un uomo essere disposto a tanto? Quando, perché e soprattutto per chi noi saremmo capaci di soffrire e sopportare ogni cosa? Per un figlio, per un amico, per un fratello, per un ideale, per una giusta causa? Paolo dice «per gli eletti, perché anch’essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù». Paolo ha dunque sperimentato in vita che c’è una salvezza, che il cielo è sceso in terra, che il velo del tempio è squarciato, che Dio è per l’uomo... e vuole che anche gli altri scoprano (raggiungano dice lui) questa verità performatrice, trasformante, comunicabile solo con la dedicazione della vita. Questa è la perla preziosa del suo cuore, quella che lo rende disposto a tutto. Infatti il suo vangelo è «che Gesù Cristo, della stirpe di Davide, è risuscitato dai morti» e dunque che Dio è il Dio della vita e l’uomo non è destinato a rimanere nella solitudine, nel non-senso, nel freddo di una tomba. E se davvero la morte è vinta e con lei anche ogni paura, allora veramente si può essere disposti a tutto perché ogni uomo lo sappia e viva con logiche vitali, solidali, inclusive!
- E infine il più simpatico, il lebbroso samaritano (quindi anch’egli malato e straniero…)… simpatico perché quasi non si accorge del momento in cui guarisce, ma guarito ci si ritrova: «trovandosi guarito»… Ma proprio questo rendersi conto, questo accorgersi che in lui, nel suo corpo si è scritta la firma salvifica di Dio lo rende non solo “guarito” (come tutti gli altri nove, che certo non sono ri-diventati malati per non essere tornati da Gesù), ma “salvato”. E di fatti vive uno dei segni più eloquenti della salvezza ricevuta e riconosciuta: la gratitudine («si gettò ai piedi di Gesù per ringraziarlo»), la lode («tornò indietro lodando Dio a gran voce»)!
L’augurio per tutti è di cantare «al Signore un canto nuovo, perché ha compiuto prodigi»!
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