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venerdì 2 novembre 2007

Chi è Dio, alla luce della povertà dell'uomo?

«Signore, tutto il mondo davanti a te, come polvere sulla bilancia, come una stilla di rugiada mattutina caduta sulla terra».
Mi pare che la liturgia di oggi con questa frase della Sapienza ci faccia ripartire là dove ci aveva lasciato la scorsa settimana: la condizione di povertà dell’uomo; una povertà, dicevamo, non accidentale o attuale, ma costitutiva, ontologica.
Di fronte a questa situazione dell’uomo, di dio e a dio si potrebbe dire: «Certo, non aveva difficoltà la tua mano onnipotente, che aveva creato il mondo da una materia senza forma, a mandare loro una moltitudine di orsi e leoni feroci o belve ignote, create apposta, piene di furore, o sbuffanti un alito infuocato o esalanti vapori pestiferi o folgoranti con le terribili scintille degli occhi, bestie di cui non solo l'assalto poteva sterminarli, ma annientarli anche l'aspetto terrificante. Anche senza questo potevan soccombere con un soffio, perseguitati dalla giustizia e dispersi dallo spirito della tua potenza. Ma tu hai tutto disposto con misura, calcolo e peso. Prevalere con la forza ti è sempre possibile; chi potrà opporsi al potere del tuo braccio?» (Sap 11,17-21, quelli immediatamente prima del brano della I lettura).
È proprio vero che di fronte a un uomo così, così piccolo, così povero, così fragile, così incapace di fedeltà, di costanza, di saldezza... Dio potrebbe proprio dilagare con la forza e il potere del suo braccio... L’uomo in questo senso non ha speranza di fronte a dio, tant’è che tutta la storia delle religioni, a partire dall’uomo preistorico fino ad oggi, si mostra come il perenne tentativo di ingraziarsi dio, di placarlo, di domarlo, di renderselo favorevole, attraverso pratiche magiche, rituali, sacrifici...
Ma la Sapienza rispetto a questa modalità arcaica di relazionarsi a dio, che riecheggia anche in ciascuno di noi, ha un’intuizione diversa. Di Dio parla come del «Signore, amante della vita».
«Amante della vita» perché l’ha creata Lui, perché non c’è niente di più suo: «Poiché tu ami tutte le cose esistenti e nulla disprezzi di quanto hai creato; se avessi odiato qualcosa, non l'avresti neppure creata», «Tu risparmi tutte le cose, perché tutte son tue»!
Fanno quasi sorridere la schiettezza e la lucidità di queste affermazioni, soprattutto se le si colloca nell’ambito anticotestamentario, così spesso additato come il luogo dove troverebbe attestazione l’idea di un dio vendicativo, e se lo si confronta con gli equilibrismi che spesso noi facciamo per tenere insieme Dio e tutti, «tutte le cose»...
A noi viene molto più naturale tirare i confini, definire bene chi è dei nostri (che nella nostra testa naturalmente equivale a dire “chi è di Dio”) e chi no, chi è giusto e chi no, chi è nella piena comunione della Chiesa (che nella nostra testa naturalmente equivale a dire “nella piena comunione con Dio”) e chi no... e che fatica facciamo a tenere insieme il dato che la salvezza è per tutti e che però abbiamo bisogno che qualcuno non si salvi... perché altrimenti cadono tutti i nostri apparati etici, spirituali, devozionali...
La Sapienza sembra parlare diversamente da noi e tratta, anche di una realtà grave come il peccato, con una “leggerezza” inaudita. Può farlo perché al centro del suo pensiero c’è Dio, il vero volto di Dio. Il punto prospettico da cui si guarda è Lui, non è il peccato o la condanna. Questi ultimi sono sempre riassorbiti in un orizzonte più ampio, che è quello della conversione (che in greco non ha connotazioni morali, ma esistenziale: è il cambiare il proprio pensiero, il proprio orizzonte di senso) e in ultima analisi della relazione con Dio: «Hai compassione di tutti, perché tutto tu puoi, non guardi ai peccati degli uomini, in vista del pentimento», «Per questo tu castighi poco alla volta i colpevoli e li ammonisci ricordando loro i propri peccati, perché, rinnegata la malvagità, credano in te, Signore».
Anche Paolo ha un’espressione di questo genere; prega «perché sia glorificato il nome del Signore nostro Gesù in voi e voi in lui». Il fine è la gloria di Dio, che sant’Ireneo dice essere l’uomo vivente! Tant’è che essa non si realizza mai senza l’uomo: «preghiamo di continuo per voi, perché il nostro Dio vi renda (ritenga) degni della sua chiamata e porti a compimento, con la sua potenza, ogni vostra volontà di bene (desideri buoni) e l'opera della vostra fede».
È proprio questo nucleo esplosivo, intuito dal libro della Sapienza e realizzato in Gesù, che Paolo vuole sia custodito a tutti i costi e non vada confuso, annacquato, sbiadito: «Ora vi preghiamo, fratelli, riguardo alla venuta del Signore nostro Gesù Cristo e alla nostra riunione con lui, di non lasciarvi così facilmente confondere e turbare, né da pretese ispirazioni, né da parole, né da qualche lettera fatta passare come nostra, quasi che il giorno del Signore sia imminente». C’è tutta una storia da vivere, guardandola finalmente dal punto di vista di Dio!
Il Vangelo di Luca mi sembra presenti proprio questo: una storia guardata dal punto di vista di Dio (che per un cristiano non può che essere il punto di vista di Gesù).
Siamo di fronte a una di quelle persone che il nostro bisogno di tracciare confini lascerebbe proprio fuori: c’è infatti Zaccheo, che è pubblicano (anzi, peggio, un capo dei pubblicani) e ricco (anzi, peggio, arricchito sulla pelle di altri, dei suoi).
Luca tra l’altro pochi versetti prima (18,18-26) ha appena raccontato l’episodio del “giovane” ricco, uscendosene con quest’espressione: «Quant'è difficile, per coloro che possiedono ricchezze entrare nel regno di Dio. È più facile per un cammello passare per la cruna di un ago che per un ricco entrare nel regno di Dio!».
Anche se c’è da dire che dopo il Vangelo di domenica scorsa (Lc 18,9-14), forse verso i pubblicani abbiamo un sguardo più simpatico (sia nel senso debole di “benevolo”, sia in quello forte di “patire-con”, “partecipare ai sentimenti altrui”).
In effetti anche Zaccheo suscita immediata simpatia: sia per la curiosità che ha di vedere Gesù, sia per gli stratagemmi che mette in atto per vincere gli ostacoli che glielo impediscono. Mi piace provare a pensare con che sentimenti se ne stava su quel sicomoro. Certo entrare nel cuore e nella testa di un personaggio di duemila anni fa, spazialmente e culturalmente così lontano è una bella pretesa... ma in questo desiderio di Zaccheo di vedere Gesù mi pare di poter scorgere la sete profonda dell’uomo di sempre di cercare la Vita...
Gesù arriva, proprio nel contesto di questa attesa carica di attrazione, e... appunto... guarda la storia, la storia di quest’uomo, dal suo punto di vista e gli dice che vuole fermarsi a casa sua, che per un ebreo vuol dire desiderare di fare comunione con lui. Noi forse siamo abituati a sentire questa storia e non ci sconvolgiamo più di tanto, ma le reazioni di chi era lì rivelano la portata di quanto Gesù stava facendo: «Vedendo ciò, tutti mormoravano: “È andato ad alloggiare da un peccatore!”».
Eppure, tanto per cambiare... ha avuto ragione lui! Se si nota, infatti, Luca non fa dire più niente a Gesù (tranne la frase rivelativa finale). Si parla solo di Zaccheo, del suo essere «pieno di gioia» e della sua decisione (non provocata da nessuna altra parola esplicitamente riportata di Gesù) di aprirsi a un rapporto nuovo con gli altri: «Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto».
A Zaccheo per uscire da se stesso e dai suoi circoli mortiferi è bastato davvero poco: che un altro lo guardasse e gli offrisse comunione... È così vero anche per noi: quante volte ci basta un altro che ci guarda con benevolenza per tirar su gli occhi dal nostro ombelico...
Chissà perché invece ecclesialmente (ma non solo) con un Dio che di fronte al peccato dell’uomo si rivela come colui che «è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto», riusciamo solo a tracciare i nostri confini escludenti?
Forse invece “gli altri” aspettano solo che li guardiamo e proponiamo loro comunione...

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