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venerdì 16 novembre 2007

VOGLIO SOLO ESSERE QUELLA CHE IN ME CHIEDE DI SVILUPPARSI PIENAMENTE

Le letture di questa domenica hanno tutte come punto di riferimento il giorno del Signore, con la sua valenza escatologica: il libro del profeta Malachia ci parla del «giorno rovente come un forno» che sta per venire, Paolo ai Tessalonicesi se la prende con coloro che a causa di questo atteso ritorno «vivono disordinatamente, senza far nulla e in continua agitazione» e Gesù stesso nel Vangelo di Luca riferisce di una «fine».
Essa immediatamente fa risuonare in noi note arcaiche, di paura e grandiosità, di terrore e fragore... Ma se proviamo a lasciare il rimando emotivo immediato, sedimentato dai secoli di storia religioso-affettiva da cui proveniamo, e guardiamo da vicino i testi, scopriamo che l’accento cade su tutt’altri toni.
Malachia infatti, tentando una descrizione di «quel giorno», sottolinea come esso svelerà la realtà di ciascuno:
- da un lato l’inconsistenza di «tutti i superbi e [di] tutti coloro che commettono ingiustizia», raffigurata dall’immagine della paglia incendiata;
- dall’altro il rilucere della consistenza di chi ha costruito la vita come «cultore» del nome del Signore, di chi, in altre parole, l’ha riconosciuto Signore della sua vita.
Mi pare che la prospettiva non sia quella, così automatica in noi, ma tanto riduttiva, di una divisione tra buoni e cattivi, giusti e ingiusti. Qui si parla della consistenza della vita, del fondamento su cui la si è posta, della realizzazione di quello che dovevamo essere (figli)... in gioco non ci sono aspetti secondari, sovrastrutture della nostra vita, ma la Vita stessa, accolta («per voi invece cultori nel mio nome, sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia») o rifiutata per vivere di se stessi («superbi») sopraffacendo gli altri («coloro che commettono ingiustizia»).
È dunque sull’orizzonte di senso della nostra vita che la liturgia di oggi ci richiama l’attenzione. Anche le parole di Gesù secondo Luca hanno questa valenza: non si sta facendo una previsione sulla distruzione del tempio di Gerusalemme, sul ritorno di Cristo risorto, sulla fine del mondo. Il punto prospettico lo si trova alla fine: «con la vostra perseveranza salverete le vostre ψυχας». La CEI traduce quest’ultima parola con anime, ma noi preferiamo lasciare il termine greco che è meno compromesso. Esso infatti compare circa 800 volte nella Bibbia e spesso è tradotto con vita, persona. È inteso come ciò che indica la sede delle passioni, dei sentimenti, delle emozioni: ψυχη, allora ha uno spettro semantico molto più ampio di quello che la parola anima ha ormai assunto nel gergo comune, ed indica la personalità di ognuno.
La prospettiva di Gesù è dunque anch’essa decisiva, sta parlando della salvezza della singolarità di ciascuno, che Etty Hillesum descriverebbe così: «voglio solo cercare di essere quella che in me chiede di svilupparsi pienamente».
Per far questo, per salvare le nostre ψυχας, per cercare di essere quello che in noi chiede di svilupparsi pienamente, Gesù indica decisamente la via dell’“impastarsi” nella storia, anzi, meglio, nella drammatica della storia: «di tutto quello che ammirate, non resterà pietra su pietra che non venga distrutta», «sentirete parlare di guerre e di rivoluzioni», «si solleverà popolo contro popolo e regno contro regno, e vi saranno di luogo in luogo terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandi dal cielo». È una drammatica che appunto non resta – e non deve restare – tangente rispetto al discepolo, ma lo incrocia e tocca nell’intimo: «metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e a governatori», «sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e metteranno a morte alcuni di voi; sarete odiati da tutti per causa del mio nome».
Per abitare la tragicità di questa storia – unico luogo per la salvezza delle nostre anime, per la costruzione della consistenza delle nostre ψυχας – il Signore dà pochi ma sostanziali punti di riferimento:
1. «Guardate di non lasciarvi ingannare. Molti verranno sotto il mio nome dicendo: "Sono io" e: "Il tempo è prossimo"; non seguiteli». Non c’è un’altra via di salvezza che non sia quella cristica, la sua! La durezza della storia, la sua difficile intelligibilità, il frastornamento che ci provoca, il non senso che spesso ci rimanda, non devono arrivare a inquinare il nostro dar credito al Dio di Gesù. Ogni altra strada, che non sia la sua, è inevitabilmente illusoria perché parte dall’uomo, anzi, peggio, dalla sua paura di morire. E infatti la seconda parola che Gesù in questo brano pone sulla drammatica della storia è:
2. «non vi terrorizzate», non lasciate cioè che a determinare la vostra vita, le vostre scelte, il vostro impegnarvi o meno, il vostro amare o meno, le vostre ψυχας, sia il terrore. Esso è solo mortifero: blocca gli zampilli di vita, chiude gli spiragli di luce, immobilizza il desiderio di appassionarsi, indurisce il cuore, spegne il sorriso…
Ma sulla base di che cosa possiamo Vivere e non morire nel terrore? Perché, dice Gesù:
3. «nemmeno un capello del vostro capo perirà». Ciò che fonda la possibilità della Vita è l’assicurazione di una cura, di una presenza, di una vicinanza, di un intreccio con la libertà di Dio!
È quanto anche Paolo ribadisce nella sua esortazione finale: «a questi tali ordiniamo, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, di mangiare il proprio pane lavorando in pace». Nel Signore Gesù Cristo è possibile vivere nella pace del cuore, costruendo dentro a questa storia la nostra evangelica singolarità!
In questo senso mi piace terminare queste riflessioni con un pezzetto del diario di Etty Hillesum, capitatomi tra le mani per caso, che però mi pare una bella risposta da dare a queste letture:

«Mio Dio, prendimi per mano, ti seguirò da brava, non farò troppa resistenza. Non mi sottrarrò a nessuna delle cose che mi verranno addosso in questa vita, cercherò di accettare tutto e nel modo migliore. Ma concedimi di tanto in tanto un breve momento di pace. Non penserò più, nella mia ingenuità, che un simile momento debba durare in eterno, saprò anche accettare l’irrequietezza e la lotta. Il calore e la sicurezza mi piacciono, ma non mi ribellerò se mi toccherà stare un po’ al freddo, purché tu mi tenga per mano. Andrò dappertutto allora, e cercherò di non aver paura. E dovunque mi troverò, io cercherò d’irraggiare un po’ di quell’amore, di quel vero amore per gli uomini che mi porto dentro. Ma non devo neppure vantarmi di questo “amore”. Non so se lo possiedo. Non voglio essere niente di così speciale, voglio solo cercare di essere quella che in me chiede di svilupparsi pienamente. A volte credo di desiderare l’isolamento di un chiostro. Ma dovrò realizzarmi tra gli uomini, e in questo mondo. E lo farò, malgrado la stanchezza e il senso di ribellione che ogni tanto mi prendono. Prometto di vivere questa vita sino in fondo».

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