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martedì 28 maggio 2013

Santissimo corpo e sangue di Gesù


Dal libro della Genesi (Gn 14,18-20)

In quei giorni Melchisedek, re di Salem, offrì pane e vino: era sacerdote del Dio altissimo e benedisse Abram con queste parole: «Sia benedetto Abram dal Dio altissimo, creatore del cielo e della terra, e benedetto sia il Dio altissimo, che ti ha messo in mano i tuoi nemici». Abram gli diede la decima di tutto.

 

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (1Cor 11,23-26)

Fratelli, io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me». Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me». Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga.

 

Dal vangelo secondo Luca (Lc 9,11-17)

In quel tempo, Gesù prese a parlare alle folle del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure. Il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si avvicinarono dicendo: «Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta». Gesù disse loro: «Voi stessi date loro da mangiare». Ma essi risposero: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a compare viveri per tutta questa gente». C’erano infatti circa cinquemila uomini. Egli disse ai suoi discepoli: «Fateli sedere a gruppi di cinquanta circa». Fecero così e li fecero sedere tutti quanti. Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla. Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste.

 

In questa seconda domenica dopo Pentecoste, la Chiesa ci invita a celebrare un’altra grande solennità: quella del santissimo corpo e sangue di Cristo. Viene così a completarsi una parabola intensissima e altrettanto impegnativa (Tempo di Pasqua – Ascensione – Pentecoste – Trinità – Corpus Domini), che in qualche modo ci fa tornare al momento del suo inizio (Giovedì santo), quando – durante la messa in Coena Domini – avevamo ascoltato proprio la medesima seconda lettura che la liturgia ci propone anche oggi (1Cor 11,23-26).

All’interno di questa parabola “tenuta su” da queste due colonne – da queste due 1Cor 11,23-26 – “c’è dentro tanto”, “c’è stato dentro tanto” (sia a livello liturgico, che dal punto di vista dei misteri celebrati, sia per quanto ha definitivamente toccato le nostre vite…), quasi che a riguardarla ora sembra tanto intensa, tanto decisiva, eppure tanto contratta… davvero, infatti, ancora molto di quella parabola resta e resterà da dire, da com-prendere, da assimilare… I misteri che in essa si sono dati ci superano davvero… e solo una vita di immersione in essi potrà, forse, farci arrivare alla fine un pochino più “cristianizzati”, “evangelizzati”, “umanizzati”…

Se però quest’anno C mette il testo di 1Cor 11,23-26 come punto di inizio e di fine di questo itinerario liturgico, allora forse val la pena già oggi spenderci qualche energia, qualche pensiero, qualche parola…

La prima lettera ai Corinzi è una lettera tanto bella quanto difficile: Paolo infatti la scrive ai suoi di Corinto più che altro per muovergli qualche rimprovero… In questo senso, forse, alcuni passaggi appaiono alla nostra sensibilità odierna un po’ strani… E però – allo stesso tempo – contiene in sé anche sprazzi stupendi, che sono diventati pilastri nella cultura biblica dei cristiani di sempre, anche di quelli meno avvezzi a maneggiare i testi…

È proprio la sorte del nostro capitolo 11, versetti 23-26, la cui collocazione liturgica nella messa in Coena Domini, ne ha fatto un “classicone”: la quarta versione dell’istituzione dell’eucaristia, dopo le tre sinottiche. Anch’esso però – a ben guardare – non ha una collocazione così luminosa, come la lettura dei soli versetti che la seconda lettura di questa domenica propone, sembra lasciar intendere. Anzi: se si fa la fatica di leggere tutto il brano (1Cor 11,17-34), ci si accorge subito come esso coincida esattamente con uno di quei “passaggi duri” della 1Cor di cui si diceva prima: «Mentre vi dò queste istruzioni, non posso lodarvi, perché vi riunite insieme non per il meglio, ma per il peggio» (v. 17)!

E il problema di cui Paolo si lamenta è quello che attraversa tutta la lettera: «Vi sono tra voi divisioni», «Quando vi radunate insieme il vostro non è più un mangiare la cena del Signore. Ciascuno infatti quando siete a tavola, comincia a prendere il proprio pasto e così uno ha fame, l’altro è ubriaco».

A questo punto allora Paolo fa memoria di quello che invece è (stata) – e dunque dovrebbe essere – la cena del Signore (vv. 23-26): «Il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: “Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me”. Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me”. Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga»; dove gli elementi centrali sono sostanzialmente tre:

-       L’identificazione del corpo e sangue di Gesù col pane e col vino;

-       La memoria di lui;

-       La vita consegnata.

Egli infatti – pare dire Paolo ai suoi – in quella sua ultima cena non ha fatto altro che prendere del pane, del vino, identificarli col suo corpo e col suo sangue e dire che se avessero voluto fare memoria di lui, avrebbero dovuto farla così (fate questo / fate così in memoria di me): con un pane spezzato, segno del suo corpo donato e con del vino versato, segno del suo sangue sparso. Segni cioè della sua consegna, per amore, alla morte; della sua consegna, per fede, al rischio del non senso; della sua consegna per la Vita, disposto a perderla… per ritrovarla. Che è quanto Paolo riassume nel suo potentissimo commento al cosiddetto racconto dell’istituzione dell’eucaristia: «Ogni volta che mangiate si questo pane e bevete al calice voi annunciate la mortedel Signore (finché egli venga)». La morte del Signore…

Questa è la solennità del Corpus Domini: non l’idolatrizzazione di un pezzo di pane, ma la memoria che il Signore è Dio così; è colui che vive di una consegna per la vita dell’altro; e di tutto quello che ha detto e fatto, e patito e pregato, ha voluto esplicitamente che questo fosse il gesto sintetico di ciò che lui è (stato): pane / corpo spezzato; vino / sangue versato per

In questo senso anche le parole di Paolo che seguono (e che sono spesso state storpiate e travisate lungo i secoli), trovano la giusta collocazione. Dice infatti l’apostolo: «Perciò chiunque mangia il pane o beve al calice del Signore in modo indegno, sarà colpevole verso il corpo e il sangue del Signore»; dove ciò che appare con radicalità è l’identificazione forte tra pane / corpo e vino / sangue, tanto che – davvero – chi mangia in modo indegno pane e vino, è colpevole verso il corpo e il sangue del Signore… Ma dove (anche) ciò che va ri-significato è quell’“indegno” che ha davvero martoriato “troppa tanta gente” (che non si dice, ma rende l’idea…).

Perché se è vero quanto detto in precedenza, il problema della degnità / indegnità, non è problema moralistico, ma capacità di accoglienza del mistero della donazione del Signore: cioè accettazione pacificata che il nostro Dio è Colui che si consegna alla morte per amore e che – dunque – se siamo suoi discepoli, quella è la via per cui ci instrada…

Ma questo – proprio perché contempla in sé un’inevitabile storicità (è infatti solo l’interazione tra “vita” e “pensare la vita” che permette tale com-prensione, affidamento, instradamento…) – non ha niente a che vedere con un’estrinseca analisi di sé per vedere se si può essere ammessi “a far la comunione” senza incappare in qualche condanna o nel far adirare un dio di cui feriremmo la dignità col nostro peccato (puntuale o duraturo). Questo dio – va continuamente ripetuto al nostro “io vecchio” – NON è il Dio di Gesù! E la conferma viene dallo stesso Paolo che parla sì di analizzare se stessi («Ciascuno dunque esamini se stesso e poi mangi del pane e beva del calice»), ma non alla ricerca di indegnità morali (peccati), ma alla ricerca dell’unico peccato a cui il Nuovo Testamento dà realmente un peso, che è il non ritenere degno di credito un Dio che ama i suoi figli fino a morirne: «perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore (che cioè del Signore si fa memoria vera quando lo si ricorda come colui che si consegna), mangia e beve la propria condanna».

Abbastanza inutile ripeterlo, ma forse ancora un po’ necessario nella Chiesa del terzo millennio: non si dice questo per sostituire semplicemente l’oggetto dell’analisi puntigliosa e angosciosa della propria vita… prima si andava alla ricerca dei peccati, oggi di quanto veramente sono consapevole / sto credendo che “lì dentro c’è Gesù”… Lo “scaravoltamento” è ad un altro livello! Perché l’analisi puntigliosa e angosciosa è ancora figlia di un altro dio, non di quello di Gesù, qualsiasi sia il suo oggetto… Piuttosto io credo che si possa proprio fare la comunione in pace con il corpo di quel Signore che è Colui che si consegna: nel momento cioè in cui – anche in maniera proprio iniziale, immatura, ingenua, non troppo consapevole, fragile, trepidante, e chi più ne ha più ne metta… – si dà un piccolo credito così al fatto che la vita è Vita quando si consegna per il bene dell’altro, si può star tranquilli che si sta facendo davvero e bene la memoria del Signore, che ha glorificato Dio nel suo corpo, come Paolo invita ciascuno di noi a fare: «Glorificate Dio nel vostro corpo!» (1Cor 6,20). Perché se qualcuno avesse ancora dubbi: «Il Signore è per il corpo» (1Cor 6,13)!

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