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lunedì 13 ottobre 2014

XXIX Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro del profeta Isaìa (Is 45,1.4-6)

Dice il Signore del suo eletto, di Ciro: «Io l’ho preso per la destra, per abbattere davanti a lui le nazioni, per sciogliere le cinture ai fianchi dei re, per aprire davanti a lui i battenti delle porte e nessun portone rimarrà chiuso. Per amore di Giacobbe, mio servo, e d’Israele, mio eletto, io ti ho chiamato per nome, ti ho dato un titolo, sebbene tu non mi conosca. Io sono il Signore e non c’è alcun altro, fuori di me non c’è dio; ti renderò pronto all’azione, anche se tu non mi conosci, perché sappiano dall’oriente e dall’occidente che non c’è nulla fuori di me. Io sono il Signore, non ce n’è altri».

 

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicési (1Ts 1,1-5)

Paolo e Silvano e Timòteo alla Chiesa dei Tessalonicési che è in Dio Padre e nel Signore Gesù Cristo: a voi, grazia e pace. Rendiamo sempre grazie a Dio per tutti voi, ricordandovi nelle nostre preghiere e tenendo continuamente presenti l’operosità della vostra fede, la fatica della vostra carità e la fermezza della vostra speranza nel Signore nostro Gesù Cristo, davanti a Dio e Padre nostro. Sappiamo bene, fratelli amati da Dio, che siete stati scelti da lui. Il nostro Vangelo, infatti, non si diffuse fra voi soltanto per mezzo della parola, ma anche con la potenza dello Spirito Santo e con profonda convinzione.

 

Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 22,15-21)

In quel tempo, i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come cogliere in fallo Gesù nei suoi discorsi. Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?». Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro. Egli domandò loro: «Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?». Gli risposero: «Di Cesare». Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».

Il brano del vangelo di Matteo proposto dalla Chiesa in questa Ventinovesima Domenica del Tempo Ordinario, è molto famoso… spessissimo, infatti, soprattutto negli ultimi anni, è stato da più parti ripreso, in particolare nella citazione celebre che esso contiene: «Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio». La si è usata per esempio come richiamo alla chiesa, quando la si percepiva troppo ingerente negli affari dello Stato (per esempio sugli innumerevoli dibattimenti etici e bioetici dell’ultimo decennio: legislazione sul fine vita, sulla regolazione delle coppie di fatto anche omosessuali, sulla fecondazione artificiale, ecc…); la si è usata come richiamo al fatto che anche la chiesa dovrebbe dare la sua parte a Cesare (per esempio con la discussione rispetto al pagamento dell’IMU); ma la si è usata anche come monito della chiesa ai cristiani-cittadini perché pagassero le tasse; o come rivendicazione della chiesa stessa per la sua autonomia dalle ingerenze politiche; addirittura la si usa come “proverbio” da citare indipendentemente dal fatto che la chiesa sia o meno implicata nella discussione.

Dico tutto questo in apertura, perché – leggendo il testo evangelico – il rischio è di essere trascinati immediatamente ed inesorabilmente in queste questioni… Io invece vorrei stare un passo indietro… soprattutto perché tutte queste questioni del nostro tempo non possono essere così automaticamente sovrapposte ad un brano scritto quasi due millenni fa.

Veniamo dunque al testo: esso fa parte del grande scontro, avvenuto a Gerusalemme, che abbiamo avuto sotto gli occhi nelle scorse domeniche tra Gesù a i capi religiosi ebraici. Esso infatti segue i brani della cacciata dei venditori dal tempio (Mt 21,12-17) e della conseguente animata discussione di Gesù con i sommi sacerdoti e gli anziani (Mt 21,23-22-14), con le parabole dei due figli, dei vignaioli omicidi e del banchetto nuziale. Ora, dopo i sommi sacerdoti e gli anziani, sono i farisei e gli erodiani che si avvicinano a Gesù per coglierlo in fallo. Essi, come gli altri, sono infatti infastiditi dalle pretese (sulla sua persona e sulla sua missione) con cui quest’uomo è giunto a Gerusalemme.

Il quesito che gli pongono (anzi che mandano a porgli tramite i loro discepoli), riguarda la sfera delle relazioni tra mondo religioso e mondo politico: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?». Il rapporto tra religione e potere era l’argomento anche dei precedenti scontri tra Gesù e i capi religiosi – con la grande denuncia, vista nelle settimane scorse, della commistione di questi due elementi. Ma – mentre fino a questo momento, oggetto della discussione è il rapporto tra religiosità ebraica e potere dei capi religiosi ebrei – ora la controversia incontra uno slittamento: il problema in questione diventa il rapporto tra religiosità ebraica e potere politico straniero.

In particolare il tranello in cui i farisei vogliono attirare Gesù è il seguente: come ci si deve comportare con la dominazione straniera? Va combattuta con le armi (come dicevano gli zeloti), gli va opposta una “resistenza passiva” (come sostanzialmente proponevano i farisei) o si può scendere a patti con essa (che era la posizione – almeno pratica – dei sadducei)?

Il problema in campo infatti non era tanto se si debbano pagare le tasse. Ma se – pagando le tasse al dominatore straniero – si dovesse in qualche modo accondiscendere al suo dominio: accettare di pagare le tasse a Cesare voleva dire infatti accettare di averlo come imperatore. Dunque, dietro alla domanda «È lecito o no pagare il tributo a Cesare?», non c’è semplicemente la richiesta di un’indicazione pratica (cosa è opportuno fare con le tasse – infatti se al potere ci fosse stato un re israelita nessuno si sarebbe posto il problema), ma la pretesa di una presa di posizione di Gesù rispetto alla dominazione straniera (tenendo conto anche del fatto che la sua pretesa messianica poneva questo problema: come puoi presentarti come Messia e non rovesciare l’oppressione romana nei confronti degli ebrei, che – invece – aspettavano proprio un Messia guerriero e liberatore?). In gioco vi è quindi questo problema: perché la fede sia possibile, è necessariamente implicata l’autorità politica su un territorio o su un popolo?

In verità non era un problema dell’ultima ora per Israele: l’aveva già affrontato durante l’esilio, quando – di fronte alla disperazione del popolo per la perdita della terra promessa, del Tempio e della possibilità di osservare la Legge – i profeti avevano sottolineato come vera legge fosse quella scritta nei cuori degli uomini («porrò la mia legge in mezzo a loro e sul loro cuore la scriverò», Ger 31,33).

Anche Gesù va in questa direzione. Egli infatti con la sua risposta – «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» separa i piani: il potere politico e l’interiorità umana sono su piani separati, dunque, per la fede personale dell’uomo, per il suo rapporto intimo col Signore non è necessario un dominio politico.

In questo modo, nella sua risposta, si smarca dal tranello, si smarca dalla malizia, si smarca dalla chiacchiera e fa “slittare” il discorso sul nucleo del problema: il senso della vita – che sembra minacciato dall’esterno (in questo caso dalla dominazione straniera) – in realtà non dipende che da una cosa: «dare a Dio quello che è di Dio». La struttura dell’uomo è, infatti, fondata sul suo rapporto con Dio (sempre possibile in qualsiasi condizione), non certo sul potente di turno che lo governa. Indipendentemente dunque da un giudizio di merito sul potere politico, quello che Gesù vuole ribadire è che niente condiziona (tanto da renderlo impossibile), il rapportarsi dell’uomo al suo Dio, dunque la sensatezza del vivere: neanche la dominazione straniera, neanche la perdita del tempio, neanche la perdita della libertà.

In proposito non posso non ricordare le parole che Etty Hillesum scrisse dal campo di smistamento di Westerbork: «tutto quello che ci è possibile salvare in quest'epoca, ed è anche la sola cosa che conta è un po’ di te in noi, mio Dio».

Ma – in questa settimana in cui iniziano le celebrazioni per il V centenario della nascita di Santa Teresa di Gesù (Teresa d’Avila) – è soprattutto a lei che voglio lasciare un po’ più di spazio.

Donna del cinquecento spagnolo, che sentiva attorno a sé la pressione di un sistema socio-politico-ecclesiale duro (per gli eventi recenti della scoperta dell’America, della Riforma protestante, della cacciata dei musulmani e degli ebrei dalla Spagna cattolica – «Tutto il mondo è in fiamme» – e dunque per la condizione dei cristiani convertiti dall’ebraismo – che era la situazione della sua famiglia, che aveva fatto carte false per avere la “patente di cristiani di vecchia data”, e – non ultimo – per la situazione delle donne: «Signore dell’anima mia, tu, quando peregrinavi quaggiù sulla terra, non aborristi le donne, ma anzi le favoristi sempre con molta benevolenza e trovasti in loro tanto amore e persino maggior fede che negli uomini. Infatti vi era fra loro la tua santissima Madre... Nel mondo le onoravi... Ci sembra quindi impossibile che non riusciamo a fare alcunché di valido per te in pubblico, che non osiamo dire apertamente alcune verità che piangiamo in segreto, che tu non debba esaudirci quando ti rivolgiamo una richiesta così giusta? Io non lo credo, Signore, perché faccio affidamento sulla tua bontà e giustizia. So che sei un giudice giusto e non fai come i giudici del mondo, i quali essendo figlio di Adamo e in definitiva tutti uomini, non esiste virtù di donna che non ritengano sospetta»)… ebbene questa donna del cinquecento non riterrà tutte queste condizioni socio-politiche-ecclesiali un impedimento alla relazione col Signore e con le sorelle (e fratelli), ma si inventerà un nuovo modo di vita cristiana: dei piccoli spazi chiusi (in cui cioè nessuno poteva entrare a comandare), di poche (massimo 13) donne (amiche e sorelle), che provassero lì dentro a vivere il vangelo, cioè a vivere l’amicizia con Dio e con l’uomo: «L’orazione mentale non è altro, per me, che un intimo rapporto di amicizia, un frequente intrattenersi in solitudine con Colui dal quale sappiamo di essere amati. [...] Ne viene quindi che il profitto dell’anima non consiste nel molto pensare, ma nel molto amare».

A noi – come al tempo di Gesù, come al tempo di Teresa, come al tempo di Etty – è consegnata una storia di “tempi duri”, anche il nostro mondo è in fiamme… Dentro a questo contesto – forse inevitabile e per lo meno inevitato per ogni generazione – la parola del vangelo e l’esperienza di queste donne, colonne dell’umanità, tuonano nei nostri cuori disorientati e scoraggiati che l’amicizia con Dio e con l’uomo è possibile sempre.

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