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martedì 16 settembre 2014

XXV Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro del profeta Isaìa (Is 55,6-9)

Cercate il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo, mentre è vicino. L’empio abbandoni la sua via e l’uomo iniquo i suoi pensieri; ritorni al Signore che avrà misericordia di lui e al nostro Dio che largamente perdona. Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie. Oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri.

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippési (Fil 1,20-24.27)

Fratelli, Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia che io viva sia che io muoia. Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno. Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa scegliere. Sono stretto infatti fra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; ma per voi è più necessario che io rimanga nel corpo. Comportatevi dunque in modo degno del vangelo di Cristo.

Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 20,1-16)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: “Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò”. Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre, e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: “Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?”. Gli risposero: “Perché nessuno ci ha presi a giornata”. Ed egli disse loro: “Andate anche voi nella vigna”. Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: “Chiama i lavoratori e dai loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi”. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro. Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone dicendo: “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”. Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”. Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi».

 

Il Vangelo che la Liturgia ci propone per questa XXV Domenica del Tempo Ordinario, è costituito interamente da una parabola. Essa è collocata immediatamente dopo l’episodio del giovane ricco (Mt 19,16-22) e le considerazioni che Gesù fa a proposito della ricchezza («Difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli», Mt 19,23ss) e della rinuncia («Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna», Mt 19,27ss). Queste considerazioni terminano con il versetto 30 («Molti dei primi saranno gli ultimi e gli ultimi i primi»), che, non a caso, è del tutto identico a quello con cui finisce anche il brano successivo, cioè il nostro. In questo modo infatti si crea una certa continuità, tanto che qualche studioso afferma che, a differenza della classica divisione dei brani, questo versetto 30 sarebbe quello iniziale della parabola degli operai della vigna e non tanto quello finale di ciò che precede.

In ogni caso ciò che interessa è come questa cornice in cui la parabola è incastonata (19,30 e 20,16: «gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi»), ne suggerisca immediatamente la tematica: essa è infatti quella del giudizio, della giustizia di Dio: «Molti dei primi saranno gli ultimi e gli ultimi i primi»... anche se poi, seguendo la narrazione, sarà curioso notare che non è vero che nella parabola i primi sono abbassati; piuttosto saranno innalzati gli ultimi...

Ma procediamo con calma... soffermandoci per un attimo sulle caratteristiche che delineano questa parabola e le sue simili in una vera e propria “categoria”.

Le parabole evangeliche infatti potrebbero essere classificate in due gruppi:

-          vi sono “le miniparabole del Regno”, che, forse anche per la loro breve estensione, tutti ricordano;

-          e vi sono “le macroparabole” in cui prevale invece la forma della narrazione («Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti...», Mt 10,30ss; «Un uomo di nobile stirpe partì per un paese lontano...», Lc 19,12ss) e che per questo hanno anche dimensioni più rilevanti.

Le parabole di quest’ultimo tipo oltre ad avere un’estensione narrativa più elaborata (è raccontata una vicenda), si presentano spesso anche come enigmatiche e difficili da capire. Si deve supporre perciò, che quando Gesù le pronuncia, lo fa rivolgendosi ad un contesto di interlocutori religiosamente colti, in grado di percepirne la complessità e la paradossalità; a gente quindi allenata a questo tipo di racconto e alla discussione che poi ne nasce: non a caso infatti nascono solitamente in un contesto a lui ostile.

Anche le tematiche che affrontano, confermano questa sensazione di complessità: non si tratta più semplicemente dell’annuncio diretto dell’arrivo del Regno di Dio, ma si intavolano argomenti quali la ricchezza, la giustizia di Dio, il giudizio, il perdono... mettendo in scena tra l’altro non più semplicemente il contadino, ma un amministratore, un fattore, ecc...

Tutto questo per dire che la nostra parabola rientra proprio nel gruppo di quelle “difficili”; di quelle cioè che richiedono un percorso più impegnativo per essere capite fino in fondo e che è quindi giustificata la sensazione di frastornamento che abbiamo avuto ad una prima lettura.

È del tutto normale se ci son venute in mente obiezioni tipo: “Come mai ha dato a tutti la stessa paga? Vanno bene le sue spiegazioni, ma resta che non è giusto... Sarà anche libero di fare ciò che vuole coi suoi averi, ma avevano ragione quelli chiamati per primi a fare le loro rimostranze...”.

Queste contestazioni che ci verrebbe da fare, non vanno messe a tacere per il reverenziale timore di mettere in discussione quello che ha detto il Signore, perché è la parabola stessa che vuole che arriviamo a porle! È una strategia narrativa: chi pronuncia (e poi scrive) queste parabole vuole infatti condurre il suo ascoltatore (lettore) a uno sbalordimento che lo porti a desiderare di voler capire perché Gesù ha detto così, cosa intendeva dire, e soprattutto che idea di Dio sta cercando di far passare...

Lo sconvolgimento che dunque sentiamo (perché paiono essere messi in discussione tutti i nostri tentativi di ordinazione, catalogazione, prescrizione, razionalizzazione della Parola di Dio) non deve dunque paralizzarci; piuttosto spronarci a capire dove il Signore, con la sua parabola, ci vuol portare... La sospensione della comprensione («Per questo parlo loro in parabole: perché pur vedendo non vedono, e pur udendo non odono e non comprendono», Mt 13,13) è infatti voluta: essa ha lo scopo di evitare che una spiegazione più diretta produca l’automatismo di una comprensione che coincide con il fraintendimento, con il prevalere del luogo comune.

Per esempio nella parabola degli operai nella vigna Gesù sconvolge uno dei capisaldi fondamentali della cultura ebraica, anzi addirittura uno dei luoghi comuni della religiosità dell’uomo di sempre, e cioè l’idea della giustizia di Dio, del fatto che prima o poi ci sarà una retribuzione in base a come ci si è comportati, il (famoso) premio per i giusti (noi, ovviamente) e castigo per i peccatori (gli altri). Per i suoi interlocutori (e purtroppo ancora anche per noi cristiani) infatti la giustizia di Dio consiste nel leale riconoscimento della pratica della legge: se mi comporto bene vado in paradiso, altrimenti all’inferno... Tutti disposti certo a riconoscere che Dio è un grande mistero, per cui «i suoi pensieri non sono i nostri pensieri, le nostre vie non sono le sue vie», ma ad un certo punto i conti bisognerà pur farli... Ed è proprio qui che entra lo sconvolgimento, la sospensione della comprensione, il desiderio di Gesù di far percepire altro rispetto a quello che essi già pensano.

Il problema è infatti che la matematica divina a differenza di quella umana... è un’opinione e i conti li fa in modo diverso: 1 giornata di lavoro = 1 denaro; ¾ di lavoro = 1 denaro; ½ lavoro = 1 denaro; ¼ di giornata = 1 denaro; 1 ora = 1 denaro...

Ma come? «Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo», dicono i primi che sono andati a lavorare nella vigna... “Non è giusto”, diciamo anche noi, che capiamo immediatamente, che fuor di metafora, il lavoro nella vigna è la vita dell’uomo... la nostra... Com’è possibile che sia tutto uguale? Che vada comunque sempre bene? Che senso ha allora lavorare tutta una giornata?

Ecco... questo è il discorso umano istintivo: se non c’è differenziazione tra chi lavora una giornata intera e chi lavora un’ora soltanto, che senso ha allora il bene?

È lo stesso ragionamento che un sociologo statunitense riassumeva molto bene, affermando che se “togliessimo” l’inferno, non vedremmo in giro più nessun credente...

Il punto a cui vuole portarci Gesù è proprio questo: qual è la radice profonda della nostra reazione a quella che a noi pare l’ingiustizia della parabola? Perché una reazione così stizzita degli operai della prima ora, a cui ci siamo uniti anche noi?

La questione, mi pare, si possa guardare da due punti di vista: quasi due scenari che possano tentare di rendere l’idea della diversità di prospettiva di Gesù, rispetto a noi:

 

1- Ci sarebbero delle situazioni in cui il fatto che tutti ricevano un denaro non ci farebbe stizzire, ma anzi rallegrare... Per esempio se gli operai che hanno lavorato un’ora fossero i nostri figli... oppure se il guadagno di tutti fosse da mettere in comune per realizzare qualche progetto... In questi casi anche se gli altri dal nostro punto di vista meritassero meno... saremmo ben contenti di un padrone tanto generoso...

Allora, forse, una prima diversità tra la prospettiva di Gesù e la nostra è quella dello sguardo che poniamo sull’altro... L’istinto di sopravvivenza dell’uomo lo porta sempre a guardare al bene che capita ad un altro come un torto fatto a me, perché l’altro è sempre e comunque concorrente nella lotta per la sopravvivenza, rivale nell’affermazione del più forte, nemico o perlomeno estraneo...

Lo sguardo del Signore invece è un altro... è quello che Paolo richiama ai Filippesi nella II lettura: «Comportatevi dunque in modo degno del vangelo di Cristo: [...] non fate niente per rivalità o vanagloria, ma con umiltà ciascuno ritenga gli altri più importanti di se stesso; non mirando ciascuno ai propri interessi, ma anche a quelli degli altri. Abbiate fra di voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù»!

 

2- Dietro alla stizza per il fatto che tutti siano pagati 1 denaro, sta in realtà questo retropensiero: il male è decisamente meglio del bene, più accattivante e gratificante… mentre il bene è una noia mortale che però da sempre ci è propugnato come un “dovere”…

È la morale che da sempre ci sentiamo ripetere dagli altri e abbiamo noi stessi ripetuto ad altri… che bisogna essere bravi, che bisogna comportarsi bene, che non bisogna fare il male … e bisogna fare così o non fare cosà perché poi ci sarà un giudizio, per cui non bisogna “sporcare” l’anima, bisogna arrivare lindi all’appuntamento e così meritarsi il paradiso, o, per lo meno, riuscire a evitare l’inferno…

E se vi sembra una lettura un po’ canzonatoria o ridicolizzante, avete ragione… ma il dramma è che è quella più diffusa tra la gente normale, anche quella dotta… quando la gente pensa al cristianesimo, pensa a questa cosa qui: una morale, con le sue leggi, i suoi divieti, le sue sanzioni, i suoi premi, il suo giudice, la sua bilancia, ecc…

E infatti lo si vive così: senza saper rendere ragione del perché non si debba fare il male ma piuttosto il bene e proponendo come unico tentativo di argomentazione quello dell’inferno e il paradiso…

Solo che ormai non ci crede più nessuno (perché, a differenza dei primi 1600 anni dell’epoca cristiana, in cui il problema era andare in paradiso, perché si dava per scontata l’esistenza di Dio, oggi il problema – direi il dramma umano – è se Dio c’è o no) e così viviamo o facendo tutto quello che per i nostri nonni era assolutamente da evitare (perché se poi Dio non c’è non vorremmo aver sprecato l’occasione), o tentando di fare gli equilibristi tra “lo faccio” / “non lo faccio”, perché se poi magari è vera la storia dell’inferno, è meglio andar sul sicuro: per cui “lo faccio, ma con moderazione”…

Un parallelismo interessante: se Dio c’è, dobbiamo castrarci la vita; se non c’è, possiamo godercela… come se Dio fosse il Dio della morti-ficazione della vita e la sua assenza, la possibilità della vita… strana sorte per quello che voleva essere un lieto annuncio… L’errore più grande del Cristianesimo in questo senso, forse, è stato proprio questo: non riuscendo a essere convincenti sulla assoluta bellezza di una vita buona (nel senso di evangelica), ha introdotto come deterrenti vari spauracchi per una vita malvagia (inferno, penitenze, conseguenze negative); accettando però in questo modo la premessa mondana che fare il male è più bello...

“E invece no!” – ci dice la parabola! Invece il compito dell’annuncio di Gesù e della sua Chiesa è quello di testimoniare come la vita buona (lavorare nella vigna), la vita secondo il vangelo, la vita della dedizione in-condizionata (cioè non condizionata dalle ore di lavoro / dai meriti) fino alla morte (Gesù muore, pur di non rinnegare che vivere amando è l’unica vera vita!) è davvero quella più bella!

Scrive infatti J.A. Pagola: «… sono convinto che Gesù è quanto di meglio abbiamo nella Chiesa e quanto di meglio possiamo offrire oggi alla società moderna… Per questo mi fa male sentire parlare di lui in maniera vaga o dicendo ogni sorta di luoghi comuni che non resisterebbero al minimo confronto con le fonti che su di lui possediamo. Gesù si va spegnendo lentamente nei cuori mentre fra di noi circolano determinati cliché che ne impoveriscono e sfigurano la persona: un Gesù tale non può attrarre, sedurre né innamorare».

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