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martedì 7 ottobre 2014
XXVIII Domenica del Tempo Ordinario
domenica 11 marzo 2012
Uscire dal Tempio
altri video sempre su Youtube
Ci scommetto che molti leggendo il Vangelo di oggi (Gv 2,13-25) si lancerebbero in considerazioni sulla commistione tra religione e denaro. Verrebbero alla mente il caso Ior, Marcinkus e quant’altro… Tutte considerazioni giuste e vere probabilmente, ma che in fondo anche un pagano o un ateo saprebbe fare. E Gesù non è venuto per dirci cose che con un minimo di buon senso e di onestà chiunque può sapere… Gesù è venuto a dirci qualcosa di veramente inaudito e impensato dagli uomini. Per riuscire a cogliere questo però è necessario, come sempre, collocarsi ai tempi di Gesù per cercare di vedere, come sottolineo sempre, e non solo leggere, ciò che l’evangelista Giovanni ci vuole mostrare. Occorre “vedere” il Tempio di Gerusalemme al tempo di Gesù e capire “cosa” ha “mandato in bestia” il Signore… Senza questo studio non potremmo veramente capire quale capovolgimento di prospettiva gli apostoli ci sollecitano a compiere. Perché non dimentichiamolo sono gli apostoli che ci stanno trasmettendo quello che loro, alla luce della Resurrezione, hanno colto di essenziale in Gesù. I Vangeli sono la loro pedagogia alla fede.
Planimetria del Tempio
Il Tempio di Gerusalemme al tempo di Gesù era il centro della vita religiosa e spirituale di Israele. E Israele ne andava orgoglioso, come anche gli apostoli ci testimoniano rivolgendosi a Gesù (cfr Mt 24,1s). Sennonché Gesù li raggelò rispondendo secco: “Non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta”! Perché una tale risposta?
Il Tempio cosiddetto di Erode, detto anche secondo Tempio di Salomone rispetto al primo andato anche lui distrutto, fu iniziato nel 19 a.C. Anche se dopo un anno e mezzo era di già operativo, fu veramente finito solo dopo 83 anni, nel 64 d.C. Appena in tempo per essere definitivamente distrutto 6 anni dopo nel 70 d.C. dalle legioni romane come ritorsione all’insurrezione del popolo. Tutto questo lavoro e questa fatica (vi lavorarono 11 mila operai) andò così perduto per sempre.
A oriente del Tempio c’era il Portico di Salomone: dove i rabbini si trovavano per spiegare la Torah e dove Maria e Giuseppe trovarono Gesù quando lo avevano smarrito…
A sud c’era il Portico Regio o Regale lungo 185 metri e largo 4 file di colonne alte 12 metri.
Sotto il Portico Regio (visibile nel secondo video), si vendevano agnelli, colombe, buoi, era lì che si faceva commercio necessario al funzionamento del Tempio: una macchina sacrificale dove si ammazzavano animali per offrirli in olocausto al Signore in cambio della sua benevolenza… Da qui venivano introdotti nel Tempio in alto per essere uccisi.
Anche l’ingresso sud-occidentale al Portico Regio aveva una gradinata monumentale che introduceva nel Tempio. Era alta 17 metri e larga 15. Questa scalinata usciva verso occidente e poi piegava verso sud, parallela alle mura esterne del Tempio in direzione della piscina di Siloe. Proprio qui all’inizio della gradinata, in basso dove inizia a salire, c’erano 4 stanze (anche queste visibili nel secondo video) in cui stavano i cambiavalute. Anche i cambiavalute erano necessari al funzionamento del Tempio perché chi voleva fare offerte o comperare animali per il sacrificio (come hanno fatto anche Giuseppe e Maria) dovevano adoperare delle monete che non avessero l’effige dell’imperatore. Erano chiamate anche mine (cfr Lc 15,8-9.19,13-26).
Dinamica dei fatti descritti
Ora immaginiamo la dinamica della scena descritta dal Vangelo: dapprima Gesù sale nel Portico Reggio fa una sferza con delle cordicelle (probabilmente le stesse che servivano a legare gli animali), e comincia a cacciare fuori tutti, persone e animali (cfr Gv 10,3 dove Gesù, pastore, spinge fuori le sue pecore dal recinto!). Immaginate anche il volto adirato, l’opposizione che ha trovato e la forza che ha dovuto usare per cacciarli fuori: una immagine ben diversa da quella a cui ci ha assuefatti una certa iconografia. Salva così gli animali (nella simbologia giovannea, gli uomini!) da morte sicura. Poi scende da quella gradinata presumibilmente di corsa (difficile immaginarlo passeggiare!), e sempre col volto adirato, va in quelle quattro stanze e butta all’aria i tavoli dei cambiavalute dicendo “non fate della casa del Padre mio, un mercato”.
Le ragioni del comportamento di Gesù: una logica da ribaltare
Cerchiamo ora di capire meglio il senso dell’agire di Gesù e per farlo dobbiamo capire ora la logica che presiede al Tempio. Perché in realtà è questa “logica” che Gesù vuole “ribaltare”…
Nei Vangeli per indicare il “Tempio” si usano due termini: hyeros e naòs. Con hyeros si intende propriamente il Tempio nella sua complessità fatta di edifici, portici, cortili, suppellettili. Da hyeros derivano l’italiano “ieratico”, “geroglifico” e anche “gerarchia”.
Il cuore del Tempio era il naòs, il Santuario (detto anche “il Santo”). Quindi in realtà i Vangeli distinguono il Tempio dal Santuario. Un po’ come noi quando distinguiamo la chiesa e il presbiterio (dove si trova l’altare)… La chiesa è un luogo sacro ma il presbiterio che è il centro di ogni chiesa è ancor più sacro e non tutti possono accedervi…
Ora, in questo Tempio non è che potessero entrare tutti liberamente, in realtà il Tempio era un susseguirsi di barriere. Più ci si avvicinava al Santuario e più si veniva selezionati.
Se escludiamo la cinta esterna del Tempio che lo separava dal resto della città (impuro e profano), al suo interno, nel Tempio, c’erano vari livelli di separazione.
1. Nella spianata grande potevano entrare tutti i fedeli anche i non-ebrei (ovviamente a certe condizioni che dovevano rispettare tutti come vedremo) e infatti era chiamato l’“Atrio dei Gentili” cioè delle “genti” (un termine che potremmo tradurre con “stranieri” ma aveva un senso dispregiativo in bocca agli ebrei). Subito però, anche al suo interno, cominciavano i muri di separazione. I primi erano quelli che bloccavano i non-israeliti, era una balaustra alta un metro e mezzo su cui c’erano 13 incisioni con parole di minaccia di morte per chi, non ebreo, osasse oltrepassarla. Quindi oltre questa balaustra potevano procedere solo gli ebrei, donne comprese.
2. Procedendo però verso l’interno del Tempio c’era un altro muro balaustrato che bloccava le donne, pena la lapidazione. Solo i maschi ebrei circoncisi potevano inoltrarsi: nella logica giudaica era ovvio in quanto le donne non potendo essere circoncise non portavano il “segno dell’Alleanza”.
3. Ma anche gli uomini (quindi anche Giuseppe e Gesù!) venivano fermati da un portale che introduceva al Santuario : solo i sacerdoti potevano varcarlo quando si trattava di entrare nel Santuario. Il Santuario o Santo era quindi la costruzione più importante di tutta la spianata.
4. A sua volta all’interno del Santuario oltre all’altare dove si offriva l’incenso, accessibile a turno ad ogni sacerdote (cfr Zaccaria in Lc 1,9), circoscritto da una tenda (la Shekinah) c’era un luogo “segreto” detto del “Santo dei Santi” (letteralmente [luogo del] “Santissimo”: cioè Dio) detto anche Tabernacolo. Il Tabernacolo era il luogo dove si riteneva fosse realmente presente YHWH. E lì nella stanza del “Santo dei Santi” all’interno del Santuario – altra selezione – poteva entrare soltanto il Sommo Sacerdote e solo una volta all’anno nel giorno liturgico dello Yom Kippur (“giorno di timore reverenziale”). Giorno di penitenza e digiuno totale in cui si chiedeva perdono a Dio dei propri peccati e festa più solenne del calendario ebraico (quest’anno 2012, cadrà al tramonto del 25 settembre fino all’apparire delle stelle del 26). E solo in quell’occasione il Sommo Sacerdote in carica, nella preghiera pronunciava il nome di Dio, il sacro Tetragramma (YHWH) di cui solo i Sommi Sacerdoti si tramandavano la vocalizzazione. [Che normalmente viene vocalizzato in YaHWeH – più probabile – o YeHoWaH meno probabile ma legittimo: quindi non perdete tempo a discutere su questo con i Testimoni di Geova, per noi cristiani il nome di Dio è “Gesù Cristo”!]. Ovvio che il Tabernacolo era considerato il punto più sacro non solo del Santuario e quindi del Tempio ma anche del mondo. Così sacro che se qualcuno doveva entrare per delle riparazioni questi veniva calato dall’alto perché non poteva toccare il suolo sacro coi piedi (cfr Gv 13,3-5 dove si capisce perché nella logica simbolica di Giovanni, Gesù deve lavare i piedi degli apostoli/discepoli: Non solo per significare che ora sono/siamo tutti puri ma anche per annunciare che la Passione in cui entreranno/entreremo è il luogo della presenza definitiva di Dio nella storia). Il Santuario stesso fu costruito solo dai sacerdoti appositamente istruiti nell’arte della costruzione.
5. Nel Santo dei Santi – praticamente vuoto – a sua volta c’era una barriera invalicabile: un velo di colore porpora che copriva (andata oramai perduta l’Arca dell’Alleanza per la deportazione babilonese) una roccia sulla quale si riteneva che Dio sedesse in trono. Secondo la tradizione ebraica questa roccia si trovava proprio al centro del mondo e fu la base sulla quale Dio creò e regge il mondo (cfr Lc 6,48 in riferimento alla roccia!). Quindi anche il Sommo Sacerdote si trovava davanti a un velo e quindi anche a lui era “nascosto” il “volto di Dio”.
Già da questa esposizione – necessariamente sommaria, ma nella quale possiamo riconoscere la struttura delle nostre vecchie chiese – deduciamo che la prima caratteristica di questo Tempio era la “separazione”, la discriminazione delle persone. La sua logica religiosa era una logica pagana di esclusione rendendo impossibile ai più di accostarsi al Signore. Non c’era solo un concetto ieratico di Dio che concettualmente lo separava dalla gente, ma c’era un profondo disprezzo di ogni occupazione umana che non fosse quella liturgico-sacrale (ricordo che solo i sacerdoti potevano presentarsi alla presenza del Signore nel Santuario). Inoltre neppure tutti (israeliti e non) potevano essere ammessi nel Tempio: gli storpi, i paralitici, i lebbrosi… coloro che facevano dei lavori considerati impuri come i pastori e pubblicani… erano tutte persone impure, cioè vivevano in una condizione di fatto peccaminosa e quindi non potevano nemmeno mettere piede nel Tempio.
Questo barriere impedivano alle persone (diremmo oggi, laici e laiche!) di sentire Dio vicino a loro e impediva a loro di avvicinarsi a Dio. Non che Dio fosse impedito da questo, quando ha voluto non ha esitato abitare nella casa “impura” di una ragazza di Nazareth facendone il suo santuario… ma la stragrande maggioranza del popolo, anche israelita, aveva una visione “dannata” della propria esistenza a causa di un Dio percepito (così veniva loro insegnato dai sacerdoti, dai farisei, dai dottori della legge, ecc.) come una “realtà” non solo lontana ma anche ostile al loro stile di vita…
Questo era il Tempio con l’apparato dottrinale che lo giustificava, che Gesù ha incontrato! Appare ovvio che il Figlio di Dio venuto per mostrare un volto di Dio finalmente Padre, finalmente prossimo, vicino ai suoi figli fino a condividerne il vissuto, non potesse tollerare tutto questo. Ecco perché nella sua vita Gesù ha abbattuto definitivamente tutte le barriere. Quelle del Tempio e quelle che noi costruiamo per difendere la “santità” di Dio o la nostra “dignità” cristiana di “popolo sacerdotale” (cfr seconda lettura 1Cor 1,22-25 sulla stoltezza della Croce: dov’è lì la presunta “intangibilità” di Dio?...).
Nella Lettera agli Efesini (2,14s) quando Paolo dice che in Gesù Cristo è stato definitivamente abbattuto il muro di separazione tra i due popoli – giudei e greci – non parlava in metafora, ma da israelita osservante aveva davanti agli occhi proprio i muri di separazione del Tempio di Gerusalemme… Paolo ci ricorda quanto aveva profetizzato Gesù: Di ogni barriera che noi poniamo tra l’uomo – qualunque uomo – e Dio, prima o poi non resterà pietra su pietra! Perché è Dio stesso che si preoccupa di abbatterla!
Appare evidente che c’era e c’è quindi una radicale incompatibilità tra la proposta di Gesù dell’autentico volto del Padre (che fa piovere e sorgere il sole sui buoni e sui cattivi) e il concetto “sacrale”, ieratico appunto, di ogni religione.
Per questo alla morte di Gesù come ci ricordano gli evangelisti, persino il velo che costituiva il cuore del Santuario, il “Santo dei Santi”, “si squarciò in due da cima a fondo” (Mc 15,38) cioè senza possibilità alcuna di ricomposizione (L. Moscatelli). E Matteo (27,51) che parla ai cristiani convertiti dal giudaismo, rincara la dose coinvolgendo nello squarcio anche la roccia su cui, secondo la tradizione ebraica, il mondo si regge.
Devono squarciarsi! se si vuole indicare la definitiva impossibilità a qualunque “ostacolo” di impedire all’uomo di incontrarsi con Dio. Con la caduta dell’ultima barriera del velo e la rottura della roccia, non ci sono più condizioni preliminari né a Dio né all’uomo per incontrarsi. Non c’è più bisogno di alcun sacrificio né di “mercanteggiare” (D. Petrini) la benevolenza di Dio: Questo è il significato originario quindi dell’espressione “non fate della casa del Padre mio un mercato”.
Giusti e peccatori; sacro e profano; il “Santo dei Santi” e il peccatore… sono definitivamente uniti, accumunati dal comune abbraccio misericordioso del Padre. È in questa “commistione” che Dio rivela la propria santità: nel suo chinarsi sui suoi figli! Questa è la “stoltezza” della Croce!
Arrivati a questo punto, ciascuno faccia le sue “attualizzazioni”, io non voglio influenzare nessuno, ma certamente ora anch’io mi pongo alcune domande…
Quando noi cattolici, in base a profonde motivazioni liturgiche, costruiamo balaustre intorno agli altari; quando grazie a profonde motivazioni teologiche e dottrinali, impediamo alla gente di fare comunione con Dio perché è in peccato mortale; quando noi escludiamo sistematicamente certe categorie di persone che come i pastori e pubblicani vivono una condizione di peccato; quando noi permettiamo che solo coloro che appartengono alla Gerarchia possono toccare le cose sacre (alcuni contestano ancora oggi la comunione nella mano); quando impediamo nella messa alle donne di fare cose perché possono farle solo i maschi (e questo non vuol dire “ordinare le donne” ma semmai spogliare della dimensione di potere ieratico e autarchico gli uomini: vedi nota in basso)… noi a quale Tempio apparteniamo? A quello che moltiplica continuamente i muri di separazione? o a quello il cui velo si è definitivamente squarciato? Noi a quale Esodo apparteniamo, a quello di Mosè che libera dalla schiavitù e costruisce itinerari di liberazione (decalogo) o a quello dell’imperatore Nabucodonosor che ha portato tutti schiavi in Babilonia?
Attenzione però non basta allargare i “confini” del Tempio, spostando le barriere per accogliere il più grande numero di persone (C. Giuliani) perché in tal caso resta sempre qualcuno “fuori”. Qui la logica di fondo è proprio la distruzione definitiva di ogni Tempio, di ogni recinto, perché tutti e tutte nel vero Santuario che è il Cristo (traduzione più corretta e comprensibile delle parole di Gesù: “Distruggete questo Santuario – perché è lì secondo la fede ebraica che abita la pienezza della divinità – e in tre giorni lo farò risorgere”): hanno ora immediato accesso al Padre in qualunque situazione si trovino…
Semplificando: quando pensiamo che la nostra vita è – qualunque sia la ragione – “un fallimento” e ci chiediamo “se Dio ci vorrà ancora bene, se potrà ancora accoglierci…”, dobbiamo risponderci guardandolo in croce: “certo che continua ad accoglierci e a volerci bene, perché ci vuole bene più di quanto ne voglia a se stesso!”…
Chi è veramente cristiano allora? chi è veramente cattolico? Me lo chiedo e lo chiedo…
Ah! Se leggessimo con più attenzione la bibbia… Nel libro di Isaia, ad un certo punto (Is 44,28-45,5) il profeta parla dell’imperatore Ciro, definendolo oltre che pastore, Messia del Signore (così nel testo ebraico e che in greco si traduce Cristo) cioè “eletto” dal Signore! Sono gli stessi “titoli” che i Vangeli riservano a Gesù, al Figlio di Dio, al Verbo incarnato, al Salvatore del mondo…! Ora però c’è un problema. Ciro, era pagano, idolatra, che è rimasto idolatra, con le sue concubine e la sua logica di conquista e che probabilmente ha liberato gli israeliti più per calcolo politico che per amore della giustizia… Ebbene, come è possibile che la bibbia, che noi sappiamo libro ispirato da Dio, definisca un uomo del genere “Messia”? Agli occhi di un cristiano oggi, come di un buon israelita sano di mente sembrerebbe più una bestemmia che una “parola di Dio”!
La risposta l’abbiamo nelle letture di oggi: Chi – chiunque egli sia (Lc 9,49s e Lc 18,16) – vive, lavora, si mette in gioco, per abbattere le barriere, qualunque barriera, che separa gli uomini tra di loro e da Dio… costui e soltanto costui si può legittimamente chiamare Cristo e Messia: cristo nel Cristo, messia nel Messia, figlio di Dio nel Figlio di Dio…
Solo una religione che al suo interno (e non solo al di fuori) abbia come “progetto culturale” l’abbattimento di ogni barriera, è un religione degna del nome cristiano. Costi quel che costi, questa è l’unica strada possibile alla santità! Quando questo accadrà la storia potrà finalmente dirsi compiuta.
Nota: L’episodio evangelico ci rivela anche un “metodo” da seguire valido in ogni ambito: occorre fare attenzione che nel voler abbattere delle discriminazioni non si alimenti, facendola propria, la mentalità che le crea! Provo a esplicitare. Gesù poteva reagire alle discriminazioni sopra descritte in vari modi: dandosi fuoco nella spianata del Tempio; forzare la porta che dà accesso al Santuario; organizzare una ribellione; rivendicare il diritto per tutti di accedere non solo al Santuario ma anche al Tabernacolo, ecc… ma in ognuno di questi casi avrebbe di fatto riconosciuto la legittimità del Tempio e la logica che lo presiede. Infatti anche se le donne e gli uomini – con le buone o con le cattive – avessero avuto accesso al “Santo dei Santi”… restava il fatto che per incontrare Dio, bisognava non solo recarsi fisicamente al Tempio, con l’automatica esclusione di chi non poteva permetterselo per ragioni economiche o altro, ma comportava anche accettare la logica del “mercanteggiamento” sacrificale per conquistare la benevolenza di Dio. Ecco allora che il gesto di Gesù acquista valore “profetico” nel senso che annunciando la nascita del vero Santuario – la sua persona risorta – in cui in qualunque luogo e qualunque situazione ognuno può incontrare il Padre, dichiara definitivamente “vuoto” ogni pellegrinaggio che non serva a far scoprire l’incontro con Dio a casa propria.
Ora c’è da chiedersi se la rivendicazione in ambito cattolico dell’ordinazione femminile, facendola propria, non accentui di fatto la discriminazione del binomio tempio/sacerdozio. Mentre come cerco di dimostrare nell’articolo, il cambiamento che Gesù ha provocato è ben più radicale…
(Con i contributi di fratelli e sorelle della lectio del venerdì sera e di F. Armellini per gli spunti esegetici)
Ultimo aggiornamento: lunedì 12 marzo 2012, ore 19
giovedì 17 febbraio 2011
martedì 3 novembre 2009
Blind Justice

Qui non si tratta di fare un processo al cristianesimo o alla religione, come alcuni commentatori fanno. Perché altrimenti nessuna religione, nessun movimento "ideale" ne esce pulito: e che facciamo calcoliamo quello che si è macchiato di meno? Qui si tratta di dire se il simbolo di una religione può offendere la libertà religiosa altrui! Ebbene se la risposta è sì, come sostiene la Corte europea, si contraddicono i fondamenti della laicità di una stato, i fondamenti della stessa rivoluzione francese, i fondamenti del diritto moderno e della convivenza civile.
La risposta semmai dovrebbe essere un'altra: perché SOLO i simboli della fede cristiana? perché non anche quelli delle altre religioni presenti in una società?
Ci sarebbe poi una riflessione da fare sull'essenza della simbolica nella costruzione di un "corpo sociale": l'uomo (e la società) senza simboli muore o peggio se ne crea di peggiori... Ed è questo l'esito del laicismo occidentale alla francese... È sotto gli occhi di tutti che "il vuoto" viene sempre riempito e non sempre con il meglio!
venerdì 26 settembre 2008
Fallire o centrare la propria destinazione umana
Per non rischiare di fare identificazioni campate per aria, fondamentale è riferirsi al contesto prossimo di questo brano: il capitolo 21 di Matteo (quello di questo brano) inizia narrando l’ingresso messianico di Gesù a Gerusalemme; dopo l’accoglienza osannante della folla, che lo dichiara profeta, Gesù si dirige subito verso il tempio dove scaccia tutti i venditori e i cambiavalute; qui ha un primo confronto duro con i sommi sacerdoti e gli scribi, che si sdegnano nel sentirlo chiamare figlio di Davide dai bambini, confronto che si riaccende la mattina seguente quando «i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo gli dissero: “Con quale autorità fai questo?”»; Gesù allora contro-risponde con la domanda riguardo al Battista «Il battesimo di Giovanni da dove veniva? Dal cielo o dagli uomini?», domanda a cui i capi religiosi ebrei non rispondono per timore della folla; Gesù conclude allora «Neanch’io vi dico con quale autorità faccio questo».
È chiaro che il tono è ormai quello del battibecco, di chi non spera più di usare le parole per farsi comprendere, ma semplicemente le affila per mettere in difficoltà l’altro. E infatti è proprio a questo punto che Gesù, rendendosi conto dell’andamento che ha preso il discorso, cambia registro e tenta di coinvolgere i suoi interlocutori (sommi sacerdoti, scribi e anziani del popolo) con una parabola (le parole «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli...» seguono infatti immediatamente le ultime citate: «Neanch’io vi dico con quale autorità faccio questo»).
L’intento di Gesù è infatti quello di portare i suoi interlocutori a sbilanciarsi in un parere, in modo da stanarli dai loro apparati concettuali preconfezionati e poter così far breccia nella loro logica di pensiero: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. Ed egli rispose: “Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?».
Quando essi «risposero: “Il primo”», la trappola è ormai scattata e a Gesù il gioco riesce facile; ribalta infatti contro di essi il giudizio da loro stessi formulato: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto».
Incredibilmente, il primo figlio viene così a rappresentare i pubblicani e le prostitute, cioè il così vasto gruppo di uomini e donne per antonomasia lontani dalla religione, (e dunque – direbbero i sommi sacerdoti) da Dio; il secondo invece, la minuta schiera di intransigenti uomini religiosi, che tutto il vangelo dipinge come sepolcri imbiancati, ipocriti, osservanti delle regole e dimentichi dell’uomo (Patch Adams direbbe «ghiaccioli dal cuore in giù»)!
L’identificazione, anche a questo punto (dopo cioè la fatica dell’analisi del contesto prossimo), risulta però in prima battuta paradossale: delinquenti e prostitute passerebbero davanti, nel regno di Dio, ai pii e devoti uomini religiosi? Ma schiere di nonne e catechiste non ci avevano forse insegnato il contrario!?!
Bisogna che andiamo più a fondo!
Cos’è infatti che fa dire a Gesù una frase tanto forte («In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio»)? Che cosa ha visto, nella sua vita di uomo, nei volti e nelle storie di questi personaggi che abitualmente i benpensanti condannano? E che cosa non ha trovato invece in quelli che rappresentavano, per la mentalità comune (di allora e di oggi), il mondo della sacralità, dell’osservanza, della inappuntabilità?
Stando alla narrazione dell’intero vangelo ha trovato in questi ultimi la durezza di cuore (di loro dice infatti: «Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli», Mt 5,20; oppure rivolgendosi direttamente ad essi: «Se aveste compreso che cosa significa: “Misericordia io voglio e non sacrificio”, non avreste condannato individui senza colpa», Mt 12,7; inoltre vengono tratteggiati come pedanti osservatori delle regole, ma dimentichi dell’uomo, tanto che visto Gesù guarire un uomo in giorno di sabato «usciti, tennero consiglio contro di lui per toglierlo di mezzo», Mt 12,14; o addirittura, vedendo Gesù risanare un indemoniato, «presero a dire: “Costui scaccia i demoni in nome di Beelzebul, principe dei demoni», Mt 12,24; sono sempre i farisei insieme agli scribi poi che «vennero da Gesù e gli dissero: “Perché i tuoi discepoli trasgrediscono la tradizione degli antichi? Poiché non si lavano le mani quando prendono cibo!”. Egli rispose loro: […] avete annullato la parola di Dio in nome della vostra tradizione. Ipocriti! Bene ha profetato di voi Isaia dicendo: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano essi mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini”», Mt 15,1-9; di essi dice infine: «Lasciateli! Sono ciechi e guide di ciechi», Mt 15,14); mentre nei primi (pubblicani e prostitute) trova invece sempre una disponibilità a farsi incontrare, quasi un anelito della loro interiorità che sa accogliere da lui una parola nuova (per fare solo due esempi tra i tanti: Zaccheo – Lc 18,1-10 – e la peccatrice perdonata – Lc 7,36-50). Sono proprio questi ultimi infatti che, forse perché privi di un apparato concettuale che gli fa da maschera, ma anzi denudati e svergognati davanti a tutti, hanno la possibilità/capacità di porsi di fronte a Gesù in trasparenza e verità, al di là delle condizioni che vivono. È il come si dispongono di fronte a Gesù che fa la differenza...
È quello che mostra chiaramente anche un’altra donna (anch’essa di dubbia moralità, stando ai nostri criteri), che pure, al di là delle condizioni in cui viveva (il campo di smistamento di Westerbork), ha fatto la medesima esperienza di incontro veritativo e liberante col Signore: “Mio Dio, viviamo tempi di terrore. Questa notte, per la prima volta, sono rimasta sveglia nel buio, con gli occhi brucianti, e immagini di sofferenza umana si snodavano davanti a me, senza sosta. Ti voglio promettere una cosa, mio Dio, una piccola cosa: […] Ti aiuterò, mio Dio, a non spegnerti dentro di me, ma non posso garantirti niente in anticipo. [...] È tutto quello che ci è possibile salvare in quest'epoca, ed è anche la sola cosa che conta: un po’ di te in noi, mio Dio. Forse potremo anche contribuire a riportarti alla luce nei cuori devastati degli altri. Dietro la casa, la pioggia e la grandine dei giorni scorsi hanno devastato il gelsomino. Più in basso i suoi fiori bianchi galleggiano sparpagliati nelle pozzanghere nere, che ristagnano sul tetto del garage. Ma da qualche parte, dentro di me, questo gelsomino continua a fiorire, esuberante e tenero come in passato. Ed espande i suoi effluvi intorno alla tua dimora, mio Dio. Vedi come mi prendo cura di te! Non ti offro solo le mie lacrime e i miei tristi presentimenti. In questa domenica ventosa e grigiastra, ti porto anche un gelsomino profumato!”.
È questo “miracolino” di esser-ci in verità di fronte a Dio e a se stessi (qualsiasi cosa accada) che segna la differenza tra i due figli della parabola, tra la maschera della religione e il porsi in trasparenza, tra gli uomini del potere religioso e i pubblicani e le prostitute...
Non è un codice etico dunque quello che fa la differenza, una moralità inappuntabile, un’osservanza stretta... Tutto questo al massimo può essere un aiuto per favorire l’incontro col Signore (in verità il vangelo dice che è un ostacolo, ma concediamolo pure...), ma non è mai il discrimine per dire la riuscita o il fallimento di una vita, la qualità dell’interiorità di una persona, la consistenza umana che ha in sé! Ecco perché la bestemmia di un povero può essere una preghiera ben più apprezzata da Dio del vuoto devozionalismo di un uomo dalla maschera religiosa.
È quello che mette in luce anche la prima lettura, dal profeta Ezechiele: è l’uomo il responsabile di se stesso, non c’è nient’altro che può sostituirsi a lui nella verità di sé (né un consolante apparato religioso, né i soldi di una vita; nemmeno la persona che ci ama di più); niente e nessuno può vivere al nostro posto l’avventura del porsi in trasparenza di fronte a sé e di fronte a Dio («Se il giusto si allontana dalla giustizia e commette il male e a causa di questo muore, egli muore appunto per il male che ha commesso. E se il malvagio si converte dalla sua malvagità che ha commesso e compie ciò che è retto e giusto, egli fa vivere se stesso»).
È qui che fallisco o centro la mia destinazione umana: se mi smaschero da ogni rassicurante rifugio, che mi impedisce l’accesso in verità a me... perché è solo lì, nel mettermi di fronte a me in verità, che altrettanto in verità posso incontrare «gli stessi sentimenti di Cristo», gli unici che salvano dal non senso della vita… perché dicono all’uomo che egli non si riduce mai a quel che fa o a quel che ha… ma all’amore (ricevuto e ridonato) che fa circolare nella sua vita.
giovedì 21 febbraio 2008
Il Signore è in mezzo a noi, sì o no? - Sono io! che ti parlo
il prototipo della fede... la donna di tanti mariti! ...presso un antico pozzo biblico, a mezzogiorno, fuori orario per andare ad un pozzo, arriva una donna mai vista prima, razza e religione diverse e conflittuali... Gesù, seduto lì, spossato dal viaggio, inizia un approccio sorprendente per lei (e anche per i discepoli, dopo). Un dialogo, ...come si impara una lingua ignota in terra straniera. Partendo dall’esperienza comune delle cose semplici e concrete, evidenti a tutte due, provoca l’intuizione di un significato nuovo, per successive ambiguità e spiegazioni, equivoci e chiarimenti. Smonta dolcemente un’impalcatura interiore di paure e pregiudizi, bisogni e desideri, legami e rimorsi... e le fa intravedere e le induce nel cuore una costellazione di orizzonti nuovi... e infine un totale sconvolgimento della vita.
il sentiero difficile dei fraintendimenti: l’acqua e la sete, l’amore e i mariti, Dio e la sua casa, il messia e il suo vangelo, il pane e la fame, il missionario e il salvatore... sono i passi di questa privilegiata catecumena, alla quale un catechista d’eccezione insegna il cammino per diventare... discepola e apostola, come lui la sogna. Un arduo viaggio interiore, per portarla a disseppellire una sorgente d’acqua viva per la sua sete, non chissà dove, ma nel proprio intimo, scavando nei sedimenti induriti che le impediscono la conoscenza di sé e quindi la conoscenza di Dio. Le due immagini infatti sono speculari dentro di noi, e solo nella purificazione e ricostruzione della propria immagine di sé s’illumina l’immagine di Dio, e viceversa. Il racconto vivace dei desideri e delle resistenze, dello stupore e delle riluttanze di questa donna, segna in filigrana i passi critici della fede.
l’umiltà di Dio e la sua voglia di amore...: dammi da bere! dice lui - Io a te?! domanda incredulo il credente. Ma da questo rovesciamento dell’istanza religiosa, nella scoperta di un Dio che umilmente ci domanda udienza, comincia il risveglio. Se tu conoscessi il dono di Dio. Le nostre domande sviano il dialogo con lui! Prima di essere risposta, Dio è proposta. Prima di parlare bisogna ascoltarlo, se no sta zitto, e aspetta. È timido e umile. È Dio che ha sete di noi! è il dono che ci rovescia in cuore non è la risposta immediata ai nostri bisogni. L’uomo dialoga con lui affermandosi, Dio offrendosi! Infatti lo cerca, non per esserne servito, ma per fargli scoprire l’amore! Se il credente non lascia perdere ogni schema passato (sei tu più grande del nostro padre Giacobbe?...) per accoglierne invece la sfida di provare adesso a “bere l’acqua che io gli darò”, rimarrà sempre impigliato in un oppressivo ingabbiamento culturale, che non farà mai sgorgare dentro di lui lo zampillo che disseta e porta gioia.
il narcisismo egocentrico. È un circolo vizioso. L’amore non funziona perché non si apre all’altro, ma cerca se stesso, cioè la propria immagine e il proprio soddisfacimento. Non incontrando nessuno che lo ami, la sete insaziata moltiplica i tentativi di dissetarsi e la conseguente frustrazione... Anziché patire una grande sete , sembra più comodo inseguirne molte, piccoli e inappaganti. Gesù non rimprovera la donna per i cinque mariti, le fa osservare la sua situazione senza aggressione moralistica... Sa che non ha imparato ad amare, perché nessuno l’ha mai amata gratuitamente, in perdita – per amore! È l’apprendimento più difficile e più importante della vita. Si impara ad amare per contagio, per esser venuti in contatto con chi ti fa sperimentare che amare vuol dire consegnarsi alla sete dell’altro. Questo amore accende una nuova dinamica interiore, che ha il suo senso e la sua garanzia in se stessa. Lo sappia o no, si è incendiata ad un Amore che genera e nutre ogni amore, senza fine.
necessità e rischio della religione, la religione può diventare una gabbia per la fede. Ci sono valori e priorità, insegnamenti e sacramenti, di cui bisogna tenere conto (la salvezza viene dai giudei!). Ma sono genuini e autentici se e indicano la strada e accompagnano e aiutano per arrivare allo scopo...ma non sono lo scopo. Lo scopo è credere e accogliere in Spirito e verità che “Dio è Padre”. Dio non abita sui monti o nei templi, nei catechismi o nei dogmi, e nessuno può sostituirti nel tuo cuore per ascoltarlo e parlare con colui. La garanzia di questa scoperta, che Dio ci sta cercando da ogni parte e in ogni modo - proprio ora! ‑ è lo Spirito di amore che ci è donato nel figlio, quello che insegna al nostro cuore il gemito dell’attesa, che invoca: abbà, Padre! questa è la verità che salva!
“Io sono, che ti parlo!”... Attaccato acriticamente ai Padri antichi, alle tradizioni del passato, non più vitali per lui, il credente fa fatica a scoprire il presente di Dio. E quindi va in crisi ad ogni sofferenza e si ribella: il Signore è in mezzo a noi o no? Rischia di regredire nella religione come schiavitù o di fuggir nel futuro apocalittico. Ma il Signore non vuole servi. Si offre come amico, che è presente adesso: io ci sono! è sempre la sua risposta. Ma poiché non sembra soddisfare i nostri bisogni, assecondare i nostri pensieri, percorrere le nostre strade, Dio non c’è! Mentre il Signore indica chiaramente i luoghi dove dice: “sono io!” la Parola, l’eucaristia, i poveri, il prossimo della vita quotidiana... È qui, in loro, che Gesù ci prega: dammi da bere, da mangiare, consolazione, perdono...
il pane, Gesù non ha soltanto un’altra acqua per la nostra sete, ha anche un altro pane per la nostra fame. Come la samaritana si domandava di che acqua mai parlasse per avere questo potere di dissetare per l’eternità, così i discepoli domandano di che pane parli... Gesù lo indica nella volontà del Padre, che lo ha mandato perché semini nel mondo il seme della salvezza – che poi i discepoli mieteranno – come frutto per la vita eterna! La semina sta compiendosi con la predicazione del Vangelo... fino nei campi lontani, pronti per la mietitura – quando la salvezza sarà offerta a tutto il mondo, perché questa è la volontà del Padre, che tutti siano salvi!
la prima missionaria... La donna ha capito bene che la salvezza è questo nesso tra il presente (l’acqua e il pane) ... e la vita eterna! e questo segreto gli esplode in cuore. Tutto il paese ne è contagiato... e accorre a Gesù, per conoscerlo personalmente. Con la diffusione dell’amore si compie in lei la parabola salvifica della fede cristiana.
“la fede contiene una speranza che appaga – non un vago presentimento del futuro – perché essa al di là di tutti gi stadi intermedi, afferra il proprio compimento, non è semplicemente afferrata da esso... non ha alcuna ragione di fuggir un presente che si pretende incompiuto per un futuro più perfetto. Essa perderebbe in tal caso insieme al presente, lasciato perdere come di poco valore, anche l’eternità che vi dimora. La fede si riempie di questa eternità, soltanto adempiendo la missione, che da questa eternità viene per ogni tempo: solo nell’oggi coincidono tempo ed eternità: Ma la missione che si sta adempiendo è una cosa sola con la preghiera: Venga il tuo Regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra! Con l’adempimento della missione, l’eternità viene nel tempo, sulla via del futuro. Quindi anche il tempo cammino sulla via dell’eterno; e nell’eterno sta già, come risorto, il tempo passato. ... Questo cammino, ricco di tensione, del credente attraverso il tempo, verso il Risorto, è il vero progresso del mondo!” [ H.Urs von Balthassar, Il tutto nel frammento, Jaka Book,1990, p.289]).
domenica 1 aprile 2007
Il coraggio dell'intelligenza
La dimensione missionaria è una “cosa” sola con quella cristiana: sono due modi per descrivere lo stesso avvenimento, da prospettive diverse. L’incontro con la Persona di Cristo che mi trasforma in profondità nel mio essere nel mondo (cristiano) mi trasforma in profondità nel mio essere per il mondo (carmelitano-missionario). E circolarmente, è evidente, che il mio essere per il mondo è ciò che costituisce il mio essere nel mondo. Dico circolarmente, perché veramente, il mio vissuto, la mia storia, che si dispiega nella concretezza della vita carmelitano-missionaria, mi “costruisce” nella profondità del mio essere cristiano: Dio, agisce sempre nella storia, per questo ne è il Signore!
Non c’è un prima o un dopo (umano, cristiano, carmelitano, missionario, ecc.) se non nel crescere storicamente in questa consapevolezza. Al crescere (o decrescere) di una dimensione crescono (o decrescono) necessariamente tutte le altre: l’uomo è uno!
Ora è proprio qui il problema: la “crisi” della fede[1] porta di fatto a una “crisi” della missione e viceversa.
A poco serviranno gli sforzi per (ri)dare slancio alla missione se nello stesso tempo non si ha il coraggio di ammettere che occorre (ri)dare slancio alla propria fede. Insomma per rispondere alla domanda “perché e come essere missionari oggi” occorre rispondere alla domanda “perché e come credere oggi” (che equivale a risponde alla domanda di “come e perché essere carmelitani oggi”).
E quando si parla di fede, necessariamente il discorso cade là dove essa è storicamente iniziata, nella mia vita, nella vita dei miei “compagni di cammino” di oggi e di ieri. Per vedere se strada facendo, qualche cosa di essenziale è stato trascurato, dimenticato, sviato, mal interpretato, ecc., e che “mi impedisce”, per così dire, di continuare il cammino verso “il futuro” che Dio pone dinnanzi a me. Scrivevo infatti la volta scorsa che la memoria del cristiano, non è una memoria che continuamente è orientata al passato, in quanto questo sarebbe un “ritorno al passato”, che mi renderebbe prigioniero di una storia “idealizzata” e quindi una fuga nell’immaginario e per questo idolatria. La memoria del cristiano, dicevo, è una “memoria del futuro”: è una memoria in perenne ricordo della promessa di Dio.
Occorre forse aver percorso certe strade in automobile per capire, plasticamente quello che sto dicendo: spesse volte in Africa la strada “sparisce” o diventa impercorribile. Occorre allora fermarsi, studiare il terreno, la cartina, per vedere come continuare. Avanzare sembra impossibile, ma tornare indietro non si può perché c’è qualcuno che ti aspetta là dove devi andare e ha bisogno della tua presenza. Si sonda il terreno a piedi, si cercano le tracce di coloro che ci hanno preceduto. Se sono troppo grosse, perché ci è passato un camion, rischi di sprofondare in buche ancor più profonde per la tua macchina, devi cercare, qualcosa che sia alla tua portata o usare bastoni o sassi per rendere la buca meno profonda. Il desiderio di arrivare ti ossessiona. L’immagine della meta ti guida e l’idea di rinunciare neanche ti sfiora. Provi, riprovi, ritenti, ti arrabbi e ti sporchi, cadi e ti rialzi, ma non molli, perché sai che non c’è alternativa che valga la pena di essere percorsa…
E quando finalmente riesci a passare oltre, le grida di gioia tue e dei passeggeri trasformano in festa lo scampato pericolo. La fatica è dimenticata per le energie decuplicate dal ritrovato cammino.
Provate a percorrere la strada che collega il Camerun con il Centrafrica e poi mi direte…
Ecco, cercare le tracce di coloro che sono davanti a noi, perché ci hanno preceduto alla meta, non ha niente a che fare con l’archeologia del passato o ritorno all’indietro, anzi! Sarebbe un tornare là da dove anche loro sono partiti, mentre noi dobbiamo percorre una strada verso là dove loro sono già arrivati! Ed eventualmente, non fare gli stessi errori qualora ce ne fossero stati. Se dobbiamo (ri)studiare il cammino percorso, da loro e da noi, questo va fatto solo in questo senso, con questo scopo, non certo per fare rivivere un passato, che perché passato mai più ritornerà, ma per capire meglio quale è il cammino da percorrere: la direzione da prendere e come affrontarlo…
Credo sia proprio questo che l’autore della Lettera agli Ebrei ci invita a vivere quando spinge ciascuno di noi a dimostrare “il medesimo zelo perché la sua[2] speranza abbia compimento sino alla fine, e perché non diventiate pigri, ma piuttosto imitatori di coloro che con la fede e la perseveranza divengono eredi delle promesse” (Eb. 6,11-12). Oppure passi analoghi come quello di san Giacomo: “Prendete, o fratelli, a modello di sopportazione e di pazienza[3] i profeti che parlano nel nome del Signore” (Gc. 5,10).
Questo ci domanda necessariamente di ripercorrere le tappe del cammino storico dell’intervento di Dio nella “propria storia”, inserito (se è lo stesso Dio!), nel cammino della fede di coloro che stanno vivendo oggi la stessa esperienza di Dio. È un “lavoro” alle “radici della fede” perché queste possano meglio portare linfa all’oggi della mia vita, e rendermi capace di aprirmi sempre di più alla promessa di Dio che si fa presente nella storia dell’uomo di oggi.
E questo è un “lavoro” fatto nello Spirito Santo certo (cfr Romani 8,1ss) ma anche un lavoro fatto con tutta la mia intelligenza perché questo vuol dire essere uomini maturi nella fede cioè veramente sapienti. A questa “intelligenza” ci invitano anche tutti gli Apostoli (cfr 1Cor 14,20[4]; 2Pt 3,1[f]; Ap 13,18[g]…).
Infatti, si sente spesso parlare di intelligenza “illuminata”, “purificata” dalla fede, ma si dimentica spesso che questo è solo un lato della medaglia, non meno urgente è oggi una fede che sappia lasciarsi “illuminare e purificare” dall’intelligenza!… Una fede che non ha paura di mettersi in discussione, è una fede che ha voglia di crescere, di camminare verso il “compimento della promessa”, per sé e per coloro che il Padre gli affida[h].
Il non farlo è segno che a questa promessa non si crede veramente più.
E allora ciò ci obbliga a porci la domanda sulle “ragioni” del “viaggio”, perché forse a furia di camminare ci siamo dimenticati del perché siamo partiti, ci siamo dimenticati verso dove camminare, ci siamo scordati “la meta”!
È questo, con umiltà e coraggio, che vorremmo iniziare a fare nel prossimo numero…
A presto!
[1] Anche qui, quando dico fede (o speranza o carità) intendo sempre fede-speranza-carità, così come quando dico, più sotto, credere (o sperare o amare) intendo sempre credere-sperare-amare, in quanto mancando un aspetto dell’affidamento a Dio nel mio cammino storico, viene a mancare l’atto stesso dell’affidarsi a Dio.
[2] Di Dio!
[3] Attesa fiduciosa nel compimento certo della promessa: questa è la speranza!
[4] Fratelli, non comportatevi da bambini nei giudizi; siate come bambini quanto a malizia, ma uomini maturi quanto ai giudizi.
[e] Il Figlio di Dio è venuto e ci ha dato l'intelligenza per conoscere il vero Dio.
[f] Questa, o carissimi, è gia la seconda lettera che vi scrivo, e in tutte e due cerco di ridestare con ammonimenti la vostra sana intelligenza.
[g] Qui sta la sapienza. Chi ha intelligenza calcoli il numero della bestia: essa rappresenta un nome d'uomo. E tal cifra è seicentosessantasei.
[h] Prego che la vostra carità si arricchisca sempre più in conoscenza e in ogni genere di discernimento, (Filippesi 1,9)
lunedì 1 gennaio 2007
Introduzione articoli a "Il Carmelo Oggi"
Va da sé quindi che quello che scriverò non impegna che me stesso, e il lettore vorrà scusarmi se non sempre quello che dico combacerà con la sua esperienza e la sua riflessione di fede. Se invece quello che leggerà in queste righe lo aiuterà a crescere e a maturare nella vita cristiana, sappia da subito che non è certo merito mio, ma di tutte quelle persone, soprattutto confratelli e consorelle nel Carmelo, che in un modo o nell’altro mi hanno aiutato a scoprire il valore delle cose che ho vissuto e che vivo.
Non mi resta che aggiungere quello che dissi anni fa, ancora diacono, al mio ritorno dalla mia prima esperienza missionaria in terra camerunese, a un mio confratello, che mi chiedeva ragione di quello che dicevo, stupito come era della “diversità delle cose che comunicavo” sulla mia esperienza “missionaria”, che si distaccavano alquanto — sempre a suo dire — dalle esperienze e riflessioni degli altri missionari… Gli feci notare, e ora lo faccio notare a tutti voi, che “…quando un missionario, torna dall’Africa, di tutto quello che dice, occorre gettare l’80-90% e ritenere per buono il 10 o al massimo il 20%, in quanto troppo forti sono i “toni”, le esperienze, per riuscire a darne una descrizione fredda e distaccata, che si avvicini ad un’analisi oggettiva dei fatti”. Al ché lui, con quell’arguzia che da sempre lo distingue, con un sorriso ironico mi chiese “Devo includere quello che mi stai dicendo nella regola appena datami?”… Annuii con una fragorosa risata… Anche perché come dicevo tutto sembra più grande visto da... lontano! Lettore avvisato…
Il problema sta però nel cominciare… un certo sentimento di pudore mi invade, in fondo scrivere è un po’ come confessarsi, pubblicamente… Sì ma da dove partire? Come riuscire a districarsi nel marasma di immagini e sensazioni che si sovrappongono in me… da dove partire per camminare insieme a comprendere al di là del fatto episodico, il senso profondo della vocazione cristiana e dell’essere missionari? E se cominciassi dall’inizio? Sì, ma dall’inizio-inizio, là dove tutto ha avuto origine, la culla di ogni vocazione, di ogni missione, ogni vocazione: dalla cresima. Che c’entra, direte voi, la mia cresima, con la mia esperienza in terra di missione? C’entra, c’entra, in quanto ritengo che tutto sia cominciato da lì, e da quello schiaffo che Mons. Tarcisio Benedetti, vescovo di Lodi, mi diede quel giorno. Io di quella cerimonia ricordo solo quello schiaffo, altro che buffetto, il suo fu veramente qualcosa di più, ne sento ancora la sensazione sulla guancia, diciamo che gli scivolò la mano... Diciamo che assegnò per sempre alla mia memoria di bambino, il ricordo che nella vita cristiana non ci sono solo carezze ma anche schiaffi e chissà perché si cresce di più ad affrontare il disagio che a crogiolarsi nell’agio… La cresima ti faceva “Soldato di Cristo”, si diceva allora, già, ma con quali armi? Imparerò crescendo che era un esercito disarmato… Ma una cosa era già certa fin da allora: essere cristiani non aveva niente a che fare con una vita comoda e tranquilla, chiusa nelle proprie quattro mura. Non so chi abbia mai inventato la storia della religione come forma consolatoria, fuga dai problemi della vita. La religione forse, ma la fede non è cosa per timorosi di chi si accontenta di poco, di una vita “tranquilla”… Non è il luogo del “compromesso esistenziale”, e se compromesso c’è, è solo una breve sosta, un pianerottolo per prendere respiro e ricominciare l’avventura… Ecco ho sempre pensato che essere cristiani è come una grande avventura, la più bella, la più affascinante. Perché sempre, dove ci si trova, si è in “luoghi” che mai nessuno ha esplorato prima, perché dove devi andare tu, nessun altro può andarci, ma solo tu e il tuo Cristo… e per questo bisogna essere amanti del rischio, senza paura del nuovo che sempre ci si presenta… La “noia” non è cristiana! Forse è per questo che il Carmelo mi ha subito affascinato. La felicità, mi diceva qualcuno, è sapersi accontentare delle piccole cose. Sarà! Ma a me questa cosa non ha mai veramente convinto. Certo, se si intende, che a furia di sognare un cibo migliore si rischia di morire di fame, questo è vero. Ma c’è una dimensione della vita, che si nutre dell’“infelicità” di non essere ancora sazi. Come l’amore che si nutre di fame.
Diceva qualcuno, che “C’è chi passa la sua vita a sognare e chi invece fa della sua vita un sogno”. Ecco essere cristiani è proprio questa avventura in cui ci è proposto di realizzare nella nostra vita concreta, non il mio sogno, ma il sogno di Dio su di noi. Perché il sogno non si trasformi incubo per me e per i fratelli e sorelle che incontro.
Le nostre scelte concrete saranno modulate su questo sogno di Dio su di noi. Per cercare di “vedere” e giudicare le “cose” con “gli occhi di Dio”, per quanto possibile in questa vita. È il cammino che vorrei facessimo insieme attraverso queste pagine.
Dove siamo!
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