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giovedì 3 maggio 2007

La Missione come "Cammino"

Se siamo cristiani, dicevamo, siamo necessariamente missionari. È il cristiano che "mi costituisce" missionario. Ma è "la missione" che fa il cristiano! Se muore in me "la missione", muore il cristiano. La missione non è un optional del cristiano, e ancor meno un modo di accrescere numericamente la chiesa espandendo la sua area di influenza nel mondo, ma è un'esigenza prima di tutto vitale, una questione di vita o di morte, del cristiano in quanto tale!

Non è possibile qui, riportare il brano integrale degli Atti degli Apostoli in cui si parla del Battesimo di Cornelio, vi rimando alla lettura integrale dell'episodio (Atti 10,1-11,18). Chiudete la rivista e andate a rileggervi il brano. Anche se già lo conoscete, fate lo sforzo di fermare qui la vostra lettura e aprite la bibbia e poi ci rivediamo: prenderà un po' di tempo ma non sarà senza frutto.

Letto? Bene!

Ora la domanda che ci poniamo è "Chi converte chi"? Chi è il missionario qui? Pietro o Cornelio? In tutti e su tutto agisce lo Spirito Santo certo. Ma se Pietro è inviato, è Cornelio, "il pagano", che lo "chiama" prima e lo "invia" poi perché Cornelio sia accettato da tutta la comunità.

Pietro dà consapevolezza a Cornelio, e Cornelio fa prendere consapevolezza a Pietro, che a sua volta al ritorno nella comunità fa crescere tutta la chiesa nella consapevolezza del dono ricevuto!

Infatti …112 quando Pietro salì a Gerusalemme, i circoncisi lo rimproveravano dicendo:3 «Sei entrato in casa di uomini non circoncisi e hai mangiato insieme con loro!».4 Allora Pietro raccontò per ordine come erano andate le cose […]. 18 All'udir questo si calmarono e cominciarono a glorificare Dio dicendo: «Dunque anche ai pagani Dio ha concesso che si convertano perché abbiano la vita!».

Dunque, prima di Cornelio, non sapevamo che anche ai pagani Dio ha concesso che abbiano la vita? Stando al brano, evidentemente no, non lo sapevamo ancora!

La missione rende la chiesa più chiesa, nel senso che "solo" attraverso la missione la chiesa prende coscienza della propria identità e del dono di Dio!

Lo Spirito Santo infatti non ci è inviato dal Padre per "disfare l'Incarnazione" come se quello che è avvenuto in Gesù Cristo sia una cosa che riguarda "solo lui" e vada archiviato nel passato della storia. Troppe volte ci dimentichiamo della dimensione "carnale" dell'amore di Dio (cf Gv 1,14) per ricondurci a un amore disincarnato, a una verità che cala dall'alto trascurando che la "logica" che presiede all'Incarnazione del Figlio di Dio in Maria attraversa la nostra storia e l'agire di Dio nella storia tutta. Come è sempre stato fin dall'inizio.

L'inizio appunto, di cui sempre dobbiamo prendere continua consapevolezza, come fa la chiesa di Gerusalemme nell'episodio di Cornelio. E come siamo continuamente chiamati a fare "la chiesa che noi siamo" in quanto cristiani. Perché è un inizio che sempre si attua nel quotidiano della nostra vita. Inizio da cui siamo nati (per questo sempre antico) e verso cui noi siamo chiamati essere compimento (per questo sempre nuovo) nell'oggi della vita, nostra e degli altri!

Avanziamo allora, come auspicato, verso l'inizio per cogliere "il senso" del nostro camminare nella speranza, del nostro annunciare nella carità, del nostro vivere nella fede.

E qui subito ci accorgiamo di qualcosa di "ambiguo" che esige subito un chiarimento…

Prendiamo le domande esistenziali tipiche del nostro vivere: "qual è il senso della vita?"; "qual è il senso della sofferenza?"; "qual è il senso della morte?"; "che senso dare alla propria vita?" o ancora, per stare al tema del nostro articolo, "qual è il senso della missione?"…

E constatiamo che per poter rispondere a queste domande, un istruttore di "scuola guida" può esserci di più grande aiuto di un professore di teologia o di filosofia o di certi… preti. E, sia detto senza irriverenza, la lettura del codice della strada, ci apparirebbe più esaustiva di alcuni documenti del magistero, così preoccupati di dare una risposta che sia "più vera della verità" da perdere ogni adesione alla domanda stessa da cui pure erano partiti; così preoccupati del trascendentale da perdere i contatti col reale…

Infatti davanti a simili domande noi subito, figli di una cultura pagana (non è una colpa, ma un fatto!), pensiamo e interpretiamo istintivamente: "perché la vita, la sofferenza, la morte?" o "qual è la verità della vita, della sofferenza, della morte?" o "perché essere missionari?". L'attenzione va sul "perché": della morte, della vita, della sofferenza, della missione. Interpretiamo cioè la parola "senso" in "fondamento", "ragione", "significato" e via dicendo.

E neanche ci sfiora l'idea, che se ci lasciassimo impregnare concretamente da una mentalità biblica (conversione, metánoia, vuol dire proprio questo), leggendola soprattutto con la mentalità di chi l'ha scritta e non solo con la forma mentis di chi la legge, vi coglieremmo invece l'idea di "direzione", "cammino", e quindi (vedremo) di "esodo", "pasqua", "liberazione". Inclusi proprio nel suo significato di "senso di marcia", proprio come descritto nel "mistico" codice della strada!

Smetteremmo così di illuderci, come certi pensatori, che se qualcuno ci desse "la ragione" dell'esistenza sapremmo poi cosa farne… invece è esattamente il contrario, almeno questa è la "proposta biblica": solo dall'uso che ne fai, dalla direzione che prendi ('senso' appunto), ne cogli "la ragione", "il perché", per quanto ciò sia possibile a una povera creatura!

Dicendo quindi, ad esempio, che Gesù ha dato un senso alla propria vita, alla propria morte, non si vuol dire che se ne è fatta una "ragione" intesa magari a mo' di consolazione non potendo fare diversamente… Si vuol dire piuttosto che Gesù ha scelto di dare un orientamento, un thélos, una direzione alla propria vita e alla propria morte. O meglio, che in quanto Figlio ha scelto di continuamente "riceversi" come Figlio accogliendo nella propria vita il progetto d'amore che il Padre, sorgente dell'amore, gli offre. "Fare la volontà di Dio" allora, in questa prospettiva, diventa un camminare, guardare, agire nella stessa direzione: e questo è tutt'altra cosa che il quietistico "rinunciare" alla propria volontà o il buddistico "spegnimento del desiderio", o peggio ancora, la moralistica "mortificazione" che scambia "l'irresponsabilità" per virtù. Anzi è proprio un attuarli e utilizzarli al massimo delle proprie potenzialità nella realizzazione "responsabile" di un "progetto comune" con quello del Padre. E proprio per questo l'idea di peccato che si ricava nei testi biblici soprattutto del Nuovo Testamento, è quella di "un arciere che sbagliando direzione nel lancio della freccia ne fallisce il bersaglio".

Solo così si incontrano allora filosofia e storia: "la ragione" della tua vita (e della missione) è rivelata e contemplata dalla sua direzione! Il cammino della missione diventa allora il fondamento della suo "perché".

La tappa successiva sarà dunque quella di vedere come la comunità credente giudeo-cristiana si è "conosciuta" a partire proprio da questo camminare nella storia in cui si realizza il progetto del Padre che continuamente ci fa figli nel Figlio per il dono pasquale dello Spirito.



Scusate il linguaggio "inusuale": quando utilizzai per la prima volta l'espressione in Camerun anni fa, alcuni, a dir poco, si stupirono… Ma credo che dobbiamo riappropriarci di un linguaggio che non solo è biblico, ma è essenziale a un cammino di fede non idealizzato. (Cf L'enciclica Deus caritas est di Benedetto XVI). Di "licenze" linguistiche, avrete notato, faccio spesso uso, con buona pace del "purismo" dei grammatici, per forzare il linguaggio ad esprimere meglio, spero, la ricchezza del dono di Dio. Spesso lo evidenzio anche con un corsivo, come un "segno" grafico che avverta il pensiero a cogliere che attraverso "l'errore" voluto si intende dire altro.

giovedì 1 marzo 2007

La vita cristiana è memoria del futuro e non nostalgia del passato

Il coraggio è qualcosa di così essenziale alla fede-speranza-carità, che potremmo dire che dove c’è vera fede-speranza-carità c’è necessariamente coraggio… e al contrario la mancanza di coraggio è segno evidente dell’assenza totale, sì totale, della fede-speranza-carità infuse da Cristo.
Vi sembra un giudizio troppo temerario? Io non lo credo…
San Giacomo nella sua lettera (2,20) ci dice: “Ma vuoi renderti conto, o insensato, che la fede senza le opere è inutile?” e altrove (v 26) con più forza ricorrendo ad una similitudine dice: “come il corpo senza lo spirito è morto, così anche la fede senza le opere è morta”: dice proprio morta (nekra), non addormentata, assopita, accantonata, o qualunque altra parola che noi usiamo per illuderci che in fondo in fondo siamo ancora cristiani…
L’assenza del coraggio, necessario alla fede-speranza-carità per vivere nella storia e non nell’immaginario, porta necessariamente alla necrosi del dono di Dio! Non ci si salva senza la fede, ma la fede, se c’è, non resta con le mani in mano…
Questo pensiero è espresso, spesso in modo più sublime, ma senza tentennamenti anche dalle altre lettere apostoliche, e anche da san Paolo, che altro è infatti il cosiddetto “Inno alla Carità” di 1Cor 13 ?
Non è certo qui l’ambito per fare una “esegesi” del pensiero apostolico, quindi ci fermiamo qui nella breve digressione biblica… Ma basta osservare attentamente nella nostra vita concreta, che troppo spesso non di semplice debolezza si tratta, ma di messa in dubbio, qui ed ora, dell’efficacia salvifica di ciò che Gesù Cristo è venuto a portare nel mondo…
In fondo in fondo, noi abbiamo un solo problema ed è questo: “Non crediamo veramente che ciò che Dio ha promesso all’umanità in Gesù Cristo, e che ha distribuito largamente nei santi di ieri e di oggi, possa compiersi anche in noi!”. E questo ci rende pavidi…
E siccome siamo pavidi e non osiamo agire, ecco che vengono sempre meno le possibilità di “verificare” nel quotidiano la potenza e la forza dello Spirito. La fede-speranza-carità ha bisogno di “segni”, per nascere, per crescere… ma così noi perdiamo la possibilità di essere “segno”, persino a noi stessi, della potenza dello Spirito di Cristo. È un circolo vizioso generato dalla paura che diabolicamente ci paralizza (cfr Ebrei 2,14). Ma “nell'amore non c'è paura” (1Gv 4,18).
Posso capire che non crediamo in noi stessi (troppo immediate ci appaiono le nostre incapacità e i nostri limiti), ma la fede non è credere in noi, ma credere nella promessa che ci viene da Lui.
Posso capire che abbiamo paura di sbagliare, ma essere resi capaci di chiedere e ottenere il perdono dovrebbe curarci dai meccanismi di un “io” che si pone a dio di se stesso, immaginandosi infallibile.
Posso capire ancora che a volte possiamo essere “stanchi di ‘lottare’, contro tutto e contro tutti”: ma solo la gioia del Signore, e non quella degli “altri”, è la nostra forza (cfr Neemia 8,10).
Resta il fatto che io personalmente, se una cosa posso rimproverarmi nella vita come missionario e come uomo, è quella di non avere avuto sempre abbastanza coraggio di rischiare fino in fondo, ma di essermi, come dire, fermato a metà, magari per non aver osato contraddire un fratello…
Credo che come missionari dovremmo avere più di coraggio nell’annunciare la fede e nel saperla incarnare nelle situazioni concrete alle quali il Signore ci invia…
Troppo spesso abbiamo “ricopiato” moduli religiosi nella difesa disperata di una “forma tradizionale” che oramai non dice praticamente più niente neanche là dove essa è nata, perché incapace di “informarne” l’esistenza. Semplicemente l’abbiamo esportata, come si esporterebbe qualunque altro prodotto occidentale, senza minimamente preoccuparci del contenuto di “vitalità” che essa ancora contiene. Esportata, come se avessimo voluto “prolungarne” la sopravvivenza. Il ragionamento, conscio o inconscio che sia, si potrebbe descrivere più o meno con questa espressione: “Visto che oramai, le cose da noi non ‘funzionano’ più, perché la società sta cambiando, portiamole altrove affinché possano sopravvivere”. Ci troveremmo in questo caso di fronte a una “missione”, più frutto del disagio di “inserimento nel proprio tempo” del missionario-religioso, che di vero “mandato” a “evangelizzare le genti”.
Un altro ragionamento ancora più subdolo potrebbe essere: “Questo modo di vivere ha ‘funzionato’ con me, perché non dovrebbe ‘funzionare’ anche per gli altri?”. In questo caso però, facendo confusione tra forma e sostanza, noi diventiamo annunciatori di noi stessi e non missionari del Vangelo di Cristo.
D’altronde, l’ho sempre affermato anche ai miei amici in Camerun, che, per quanto riesca a capirne io, nella modalità dell’annuncio cristiano che storicamente si è sviluppata in terra camerunese, (parlo di ciò che conosco!), c’è un’aporia, una contraddizione di fondo. Come è possibile infatti che schemi e mentalità “religiosi” o “carmelitani” che hanno “fallito” in Patria (come interpretare altrimenti il grido di allarme della Chiesa a “ri-evangelizzare” l’Europa? Senza parlare del crollo di vocazioni maschili e femminili…), possano avere successo altrove? Se il cristianesimo in Europa nella sue “forme tradizionali”, che pur ha generato fior di santi, nella Chiesa e nel Carmelo, è arrivato, non sempre per colpa sua, a una generale esaurimento della sua vena ispiratrice, che senso ha perpetuarne l’agonia?
Non esiste sapere umano che non si evolva nel rivedere e rielaborare le proprie conoscenze. Questo è vero nella formulazione teorica come nella sua attuazione pratica.
Tutta la Bibbia è un “rincorrersi” continuo verso il compimento della Rivelazione in Gesù Cristo… E una volta arrivato Gesù, il Messia atteso da secoli, la storia non si è fermata, anzi, Lui stesso ne ha dato come un’accelerazione, orientandola definitivamente verso la pienezza nel Giorno della sua venuta definitiva. Dove sarà pienamente manifesto ciò che ora è solo “immagine in uno specchio” (cfr 1Cor 13,12). E Dio sarà, finalmente, tutto in tutti.
Come è possibile allora, che ci sia tra di noi, chi vede soprattutto in un’epoca passata, nel suo linguaggio, nelle sue modalità espressive e organizzative, nel suo stesso modo di vestire, l’ideale di vita del cristiano? Certo non è un errore solo cristiano, si guardi ad esempio quello che sta accadendo oggi nell’Islam. Esso è figlio di un certo modo di concepire la storia e la religione che si “contorce” nel tentativo disperato di fermarne il cammino: ma è uno sforzo, grazie a Dio, destinato inesorabilmente a fallire. La storia si compirà, comunque, con o senza di noi. Guai a noi metterci di traverso al piano di Dio. Ne usciremmo stritolati perché voler fermare la storia è come voler fermare Dio stesso che ne è l’unico Signore (cfr Isaia 44,23). La memoria del cristiano, non è una memoria che continuamente è orientata al passato, come ideale di vita, la memoria del cristiano è una memoria del futuro: è una memoria in perenne ricordo della promessa di Dio.
Questa promessa è entrata nel mondo, in un momento storico ben preciso, e per questo lo studio-approfondimento e assimilazione dell’esperienza originaria di coloro che ci hanno preceduto in questo itinerario di fede resta fondante, ma subito questo ci deve proiettare verso un incontro che si compie necessariamente nel futuro della nostra storia. Nel futuro di Dio e non nel nostro passato, stanno le nostre vere radici, le tue e le mie!
Dobbiamo allora avere il coraggio di esporre con chiarezza alcune esigenze dell’annuncio cristiano.
Essere missionari vuol dire perpetuare in “terra di missione” una modalità di essere chiesa o annunciare, all’interno di una modalità necessariamente “provvisoria”, il Vangelo che è la persona di Gesù Cristo?
L’implantatio ordinis, vuol dire “traslocare” il carmelo italiano o trasmettere il carisma carmelitano?
Quanto scritto sopra dovrebbe in parte aiutarci a discernere le coordinate essenziali in un tentativo di risposta che possa costituire un itinerario concreto di “annuncio evangelico”.
Certo non penso che esista una sola risposta! Credo però che alcune cose siano oramai acquisite e facciano definitivamente parte del “sentire comune”.
I nostri confratelli africani (ma non solo: pensate a coloro che, in Italia, nuovi entrano nel carmelo e/o si accostano alla fede cristiana), hanno la sacrosanta missione di mettere in circolo i doni ricevuti dallo Spirito, nel dare forma nuova al cristianesimo e al carisma carmelitano senza necessariamente ricopiarne tout-court le “forme” storiche. È compito soprattutto di coloro che le vivono, discernere nello Spirito, come e cosa dal tesoro della Tradizione viva trarre “cose nuove e cose antiche” (Mt 13,52).
Nostro compito come missionari-confratelli è di accompagnarli in tutto questo, con occhi limpidi e gioiosi, compiacenti e misericordiosi, sapendo che, come lo è stato anche per noi, è nel balbettio della nostra vita, che la Parola di Dio ha saputo far sentire “al mondo” la sua voce.
Ecco questo è il coraggio che ci è chiesto nel mondo di oggi, senza aspettare che la Storia ce lo imponga.

lunedì 1 gennaio 2007

Introduzione articoli a "Il Carmelo Oggi"

Quando mi fu chiesto di contribuire a questa rivista con qualche articolo sulla “tematica missionaria” che “aiuti i lettori (e tutti noi) a maturare dentro uno spirito missionario”, vi confesso che stavo per rifiutare, sentendomi, nonostante l’esperienza vissuta in “terra di missione”, alquanto inadeguato ad affrontare il tema… Altri saprebbero farlo certamente meglio di me. Ma visto il numero esiguo di lettori, paganti, (da cui se ne deduce lo scarso interesse di chi evidentemente non ritiene valga la pena di sostenere lo sforzo e la fatica di tanti che vi lavorano), mi sono convinto che comunque vadano le cose, e qualunque cosa scriva, il “danno” arrecato alla rivista e ai suoi fedeli lettori non sarebbe poi stato così esteso…
Va da sé quindi che quello che scriverò non impegna che me stesso, e il lettore vorrà scusarmi se non sempre quello che dico combacerà con la sua esperienza e la sua riflessione di fede. Se invece quello che leggerà in queste righe lo aiuterà a crescere e a maturare nella vita cristiana, sappia da subito che non è certo merito mio, ma di tutte quelle persone, soprattutto confratelli e consorelle nel Carmelo, che in un modo o nell’altro mi hanno aiutato a scoprire il valore delle cose che ho vissuto e che vivo.
Non mi resta che aggiungere quello che dissi anni fa, ancora diacono, al mio ritorno dalla mia prima esperienza missionaria in terra camerunese, a un mio confratello, che mi chiedeva ragione di quello che dicevo, stupito come era della “diversità delle cose che comunicavo” sulla mia esperienza “missionaria”, che si distaccavano alquanto — sempre a suo dire — dalle esperienze e riflessioni degli altri missionari… Gli feci notare, e ora lo faccio notare a tutti voi, che “…quando un missionario, torna dall’Africa, di tutto quello che dice, occorre gettare l’80-90% e ritenere per buono il 10 o al massimo il 20%, in quanto troppo forti sono i “toni”, le esperienze, per riuscire a darne una descrizione fredda e distaccata, che si avvicini ad un’analisi oggettiva dei fatti”. Al ché lui, con quell’arguzia che da sempre lo distingue, con un sorriso ironico mi chiese “Devo includere quello che mi stai dicendo nella regola appena datami?”… Annuii con una fragorosa risata… Anche perché come dicevo tutto sembra più grande visto da... lontano! Lettore avvisato…

Il problema sta però nel cominciare… un certo sentimento di pudore mi invade, in fondo scrivere è un po’ come confessarsi, pubblicamente… Sì ma da dove partire? Come riuscire a districarsi nel marasma di immagini e sensazioni che si sovrappongono in me… da dove partire per camminare insieme a comprendere al di là del fatto episodico, il senso profondo della vocazione cristiana e dell’essere missionari? E se cominciassi dall’inizio? Sì, ma dall’inizio-inizio, là dove tutto ha avuto origine, la culla di ogni vocazione, di ogni missione, ogni vocazione: dalla cresima. Che c’entra, direte voi, la mia cresima, con la mia esperienza in terra di missione? C’entra, c’entra, in quanto ritengo che tutto sia cominciato da lì, e da quello schiaffo che Mons. Tarcisio Benedetti, vescovo di Lodi, mi diede quel giorno. Io di quella cerimonia ricordo solo quello schiaffo, altro che buffetto, il suo fu veramente qualcosa di più, ne sento ancora la sensazione sulla guancia, diciamo che gli scivolò la mano... Diciamo che assegnò per sempre alla mia memoria di bambino, il ricordo che nella vita cristiana non ci sono solo carezze ma anche schiaffi e chissà perché si cresce di più ad affrontare il disagio che a crogiolarsi nell’agio… La cresima ti faceva “Soldato di Cristo”, si diceva allora, già, ma con quali armi? Imparerò crescendo che era un esercito disarmato… Ma una cosa era già certa fin da allora: essere cristiani non aveva niente a che fare con una vita comoda e tranquilla, chiusa nelle proprie quattro mura. Non so chi abbia mai inventato la storia della religione come forma consolatoria, fuga dai problemi della vita. La religione forse, ma la fede non è cosa per timorosi di chi si accontenta di poco, di una vita “tranquilla”… Non è il luogo del “compromesso esistenziale”, e se compromesso c’è, è solo una breve sosta, un pianerottolo per prendere respiro e ricominciare l’avventura… Ecco ho sempre pensato che essere cristiani è come una grande avventura, la più bella, la più affascinante. Perché sempre, dove ci si trova, si è in “luoghi” che mai nessuno ha esplorato prima, perché dove devi andare tu, nessun altro può andarci, ma solo tu e il tuo Cristo… e per questo bisogna essere amanti del rischio, senza paura del nuovo che sempre ci si presenta… La “noia” non è cristiana! Forse è per questo che il Carmelo mi ha subito affascinato. La felicità, mi diceva qualcuno, è sapersi accontentare delle piccole cose. Sarà! Ma a me questa cosa non ha mai veramente convinto. Certo, se si intende, che a furia di sognare un cibo migliore si rischia di morire di fame, questo è vero. Ma c’è una dimensione della vita, che si nutre dell’“infelicità” di non essere ancora sazi. Come l’amore che si nutre di fame.
Diceva qualcuno, che “C’è chi passa la sua vita a sognare e chi invece fa della sua vita un sogno”. Ecco essere cristiani è proprio questa avventura in cui ci è proposto di realizzare nella nostra vita concreta, non il mio sogno, ma il sogno di Dio su di noi. Perché il sogno non si trasformi incubo per me e per i fratelli e sorelle che incontro.
Le nostre scelte concrete saranno modulate su questo sogno di Dio su di noi. Per cercare di “vedere” e giudicare le “cose” con “gli occhi di Dio”, per quanto possibile in questa vita. È il cammino che vorrei facessimo insieme attraverso queste pagine.
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