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giovedì 13 dicembre 2007
Dio è Colui che rende vivibile la vita
Isaia come sempre parte dal suo oggi, dalla realtà, dalla storia e descrive la situazione dell’uomo di sempre: parla infatti di «mani fiacche», «ginocchia vacillanti», «cuori smarriti», cioè, di un’umanità scoraggiata dalla vita, da quella vita che le pareva così accattivante e che invece sembra smentire le sue promesse. Si parla insomma di un’umanità che fatica a dar credito alla bellezza dell’esistenza o anche semplicemente alla sua vivibilità…
Questa fiacchezza, questo vacillare e questo smarrimento di cui parla Isaia, credo non necessitino di spiegazioni, esemplificazioni o dimostrazioni: sono proprio l’aria che spesso respiriamo anche noi…
In questo senso è confortante vedere come il testo biblico sia così consapevole di dove, come e chi siamo. Quella di Dio infatti non è una parola destinata ai perfetti, agli irreprensibili, a quelli che ce la fanno… arriva proprio negli interstizi bui della storia, nelle sue congiunture malate… è la parola dei poveri, dei fiacchi, dei vacillanti, degli smarriti… è appunto la Parola dell’uomo di sempre… è la nostra.
È proprio dentro qui, dentro all’umanità stanca, sfiduciata, dispersa che si cala però un annuncio nuovo: «Coraggio, non temete! Ecco il vostro Dio, giunge la vendetta, la ricompensa divina. Egli viene a salvarvi».
È la notizia di una venuta che cambia la desolazione del mondo, che ridà vita alle sue aridità («Si rallegrino il deserto e la terra arida»), che fa rifiorire le sue secchezze («esulti e fiorisca la steppa»), che porta gloria, splendore, magnificenza («Le è data la gloria del Libano, lo splendore del Carmelo e di Saron. Essi vedranno la gloria del Signore, la magnificenza del nostro Dio»).
Ma soprattutto è una venuta che, oltre a far brillare gli occhi come quelli di un bimbo per lo scoppio di Vita nel mondo, è decisiva perché fa Vivere gli uomini: «Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto. Ci sarà un sentiero e una strada e la chiameranno via santa. Su di essa ritorneranno i riscattati dal Signore e verranno in Sion con giubilo».
Proprio perché riguarda gli uomini, proprio quelli che sono carne della mia carne, quelli a cui scorre nelle vene il mio stesso sangue, quelli a cui le viscere si commuovono come le mie, proprio perché riguarda loro e me con loro, questo annuncio ha i tratti di una gioia esplosiva: «felicità perenne splenderà sul loro capo; gioia e felicità li seguiranno e fuggiranno tristezza e pianto».
Proprio perché è una parola per l’uomo (costituzionalmente povero), proprio perché è l’annuncio di una salvezza per lui, di una sua liberazione dalle catene della morte, questa non è più una notizia tra le altre: qui si tratta di vita o di morte!
Tra l’altro della vita o della morte di tutti. E di una vita e di una morte caratterizzate da una definitività: è la scelta tra una vita vitale che anche se muore fisicamente, può arrivare oltre la morte, o una vita mortifera che anche se vive a lungo è già abitata dai veleni delle tombe.
Proprio per la decisività di questa venuta, Giacomo parla di pazienza e costanza: «Siate costanti, fratelli miei […]. Guardate l’agricoltore: egli aspetta con costanza il prezioso frutto della terra finché abbia ricevuto le prime e le ultime piogge».
Solo perché è prezioso il frutto della terra, l’agricoltore lo aspetta. Così anche per noi. Se ci fosse annunciato qualcosa di meno che la Vita, non varrebbe la pena pazientare, essere costanti, attendere, perdere tempo, energie, investimenti affettivi… Ma forse, se non ci fosse annunciata la Vita, non varrebbe la pena neanche di vivere…
E invece la venuta annunciata non è una qualunque, non è quella di uno dei tanti ciarlatani, falsi profeti, finti dei che attraversano tutta la storia umana: quella vicina è «la venuta del Signore»! È l’arrivo della Vita!
La “V” maiuscola non deve trarre in inganno: non si tratta immediatamente della vita eterna, come se il discorso fosse “anche se qui siamo schiacciati in un’esistenza invivibile, poi però c’è il paradiso”… No! La Vita è l’abilitazione a Vivere nell’aldiqua, è l’attestazione di Dio che la promessa iscritta nei nostri cuori dal momento che nasciamo non è illusoria, è la sua vittoria sulla nostra morte, che oltre alla morte fisica, indica tutto ciò che ci incatena l’anima, ci indurisce il cuore, ci fa abbassare gli sguardi, ci spegne i sorrisi, ci separa dagli altri. Tutto questo è vinto. Allora sì che la vita è vivibile!
E appunto: vivibile è la nostra vita qui e ora… E di fatti i segni di riconoscimento del Cristo, che Gesù stesso indica come le testimonianze da portare a Giovanni Battista, sono tutte cose che investono l’aldiqua: «I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo».
A Giovanni che in carcere si chiede se Gesù è effettivamente «colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?», Gesù risponde con il rendere vivibile la vita degli uomini.
E infatti: chi è Dio se non colui che fa vivere l’uomo?
«E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!». Beato, dice Gesù, colui che non inciampa vedendomi così, solo perché non rispetto i canoni umani e religiosi dell’attesa del Messia. Beato chi non si scandalizza della predilezione per gli scarti dell’umanità (gli scarti fisici – malati –, morali – peccatori –, economici – poveri –, sociali – donne), chi non si scandalizza della concretezza e laicità dell’azione di Dio (che sta nelle strade e nelle case, non nei templi e nelle comunità osservanti), chi non si scandalizza che la potenza di Dio sia riscritta da una morte in croce…
E in effetti... visto che stiamo attendendo il Natale, è da notare che Gesù arriva neonato (scarto fisico), figlio di non sposati (scarto morale), povero (scarto economico), in una mangiatoia (scarto sociale), circondato da animali e pastori, indifeso…
giovedì 6 dicembre 2007
Una Speranza che abilita a Vivere!
Se anche facessimo finta che non fossero parole bibliche, esse rimarrebbero comunque cariche del loro fascino:
- chi non ha almeno qualche volta sognato di sapere cosa «In quel giorno avverrà...»; che si trattasse del giorno della nostra morte, della venuta del Messia, dell’appuntamento con chi si spera di conquistare, di un colloquio di lavoro, di un incontro dopo tanti anni…?
- chi sommerso dal disorientamento e dalla confusione nel maneggiare questa vita, non ha desiderato almeno ogni tanto di avere per le mani un manuale d’istruzioni, in modo da poter dire che «Tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione»?
- e infine chi, esausto per la fatica di vivere e dar credito al fatto che ne valga la pena, non ha sperato che «il regno dei cieli» - qualsiasi cosa esso voglia dire – fosse «vicino»?
Ma ri-collocate nel contesto biblico, che è il loro, che cosa vogliono dire queste parole così cariche di aspettative, aspirazioni, sogni, speranze, attese?
La prospettiva di Isaia è decisamente luminosa… sta parlando di qualcuno che arriverà: qualcuno fortemente attaccato alla storia dell’umanità, come un germoglio al suo tronco e un virgulto alle sue radici, e nello stesso tempo altrettanto fortemente inondato di aria divina… qualcuno che contro i violenti e gli empi, starà dalla parte degli umili e dei miseri…
Quando arriverà le leggi naturali della vittoria del più forte, della selezione naturale, della paura come anima del mondo, saranno stravolte, per lasciare il posto alla giustizia, alla fedeltà, al dimorare insieme, allo sdraiarsi accanto, al trastullarsi…
Eppure Isaia non sta scrivendo in un momento facile per il suo popolo: niente fa prevedere un lieto fine della situazione, tanto meno un lieto fine cosmico, che coinvolga il mondo nel suo insieme; dilagano corruzione, dispotismo, idolatria, pressione straniera, ingiustizia sociale, povertà, indigenza…
Ma allora perché Isaia interviene con queste parole promettenti? Interessante quanto risponde H. Simian Yofre, mettendo in luce le idee che da questo brano emergono con forza:
«Anzitutto la convinzione che davanti ad ogni crisi, non soltanto personale, ma anche e soprattutto sociale, istituzionale, nazionale, perfino internazionale, la fede non è ridotta al silenzio, ma ha una parola importante da dire. Essa genera una parola critica circa la situazione concreta; così il pensiero escatologico, nel momento stesso in cui prospetta un mondo nuovo, non consente una fuga dal presente, ma fa maturare una visione obiettiva e critica a riguardo del presente, e specificamente dell’ingiustizia, del caos istituzionale, dell’ambiguità di certi rapporti politici, della perdita d’identità profonda del popolo. Il pensiero escatologico profetico non si accontenta di proporre una soluzione “spirituale”, ma comincia da un’analisi lucida dei mali presenti nella società!».
Ma… non eravamo mica partiti da un oggi, un presente, una situazione concreta inospitale, inabitabile, mortifera? E allora che senso ha il ricollocarci del profeta in essa? Se non eravamo capaci prima, non lo siamo neanche ora…
E allora? Allora… la chiave di volta è proprio il fatto che né una fuga spiritualistica da una storia avvelenata, né uno sforzo volontaristico e solipsistico per resistere nel viverla sono la via indicata dal profeta. Egli ha una prospettiva diversa: la vita può tornare ad essere vivibile perché è abitata dalla speranza in una promessa… che questa storia è inondata da Dio: «la conoscenza del Signore riempirà la terra come le acque ricoprono il mare».
È la stessa speranza di cui parla Paolo quando afferma: «teniamo viva la speranza»!
Ma come vivere il nostro oggi alla luce di questa speranza? Cosa «è stato scritto per la nostra istruzione»? No, purtroppo o per fortuna, non si tratta di un manuale di istruzioni… piuttosto di un esempio: «Accoglietevi gli uni gli altri come anche Cristo accolse voi». Non è un modello a cui tentare di assomigliare, ma una persona (Vivente!) con cui entrare in relazione: in una relazione talmente intima da essere conformante! Questa relazione è la speranza realizzata della presenza del Signore nel nostro oggi.
L’attesa trepidante a cui ci invita la Chiesa è allora quella di Uno che amandoci per primo introduce una nuova logica nel mondo: quella dell’accoglienza, dell’«avere gli uni verso gli altri gli stessi sentimenti, sull’esempio di Cristo Gesù». È ancora una volta la proposta di una vita che si fa vivibile perché com-passionevole, perché com-patita, perché abitata da una solidarietà che rende parte di un popolo in cammino, dell’umanità tutta… che geme, spera, ama, soffre, muore, sorride… come me.
In questo senso, essendo dalla parte di chi ha già letto fino in fondo i Vangeli, a noi fanno un po’ sorridere alcune aspettative di Giovanni Battista: «Già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco». Egli è il precursore e realmente è «Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!». Ma Gesù… sorprenderà anche lui: davvero è un novum nella storia dell’uomo: lui in una parabola, di fronte a un albero che non porta frutto, dirà di lasciarlo ancora per un anno e di prendersi cura di lui perché diventi fecondo (Lc 13,6-9).
Su una cosa però Giovanni non si sbaglia: l’evento atteso e annunciato è decisivo; di fronte ad esso non si possono mettere conversioni posticce, false illusioni, ristrutturazioni di facciata: «Vedendo molti farisei e sadducei venire al suo battesimo, disse loro: "Razza di vipere! Chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente? Fate dunque un frutto degno della conversione, e non crediate di poter dire dentro di voi: 'Abbiamo Abramo per padre!'. Perché io vi dico che da queste pietre Dio può suscitare figli ad Abramo"».
Fa sorridere e tremare che i destinatari di questo ammonimento siano proprio i più religiosi (sacerdoti e “laici impegnati”)… Proprio loro rischiano di non accogliere la logica di Dio, che sopra ad ogni norma, istituzione, interesse, ragione politica, economica, sociale, religiosa, pone il volto dell’altro, che sempre è fratello!
Ma è proprio questa logica che plasma anche la nostra sete di regno dei cieli. Essa – qualunque cosa voglia dire – sorta spesso sull’onda si un essere esausti per la fatica di vivere e dar credito al fatto che ne valga la pena, prende la forma di un’attesa non più vaga e qualunquistica, ma cristicamente centrata, perché solo il suo immergerci nello Spirito santo («vi battezzerà in Spirito Santo »), nel suo Spirito, nella sua logica, nel suo amore, ci salva, ci libera, ci abilita a Vivere.
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