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giovedì 27 agosto 2009

Un Dio meticcio

Dopo la lunga “pausa” estiva, caratterizzata dalla lettura del capitolo 6 di Giovanni, la liturgia riparte con la lettura corsiva del vangelo di Marco. Siamo al capitolo 7, quello che segue appunto la moltiplicazione dei pani nella versione di questo evangelista e le guarigioni di Gesù nella regione di Gennesaret. Quel brano si concludeva con un’atmosfera assai positiva: «Là dove giungeva, in villaggi o città o campagne, deponevano i malati nelle piazze e lo supplicavano di poter toccare almeno il lembo del suo mantello; e quanti lo toccavano venivano salvati», Mc 6,56, che è il versetto immediatamente precedente all’incipit del brano odierno. Quest’ultimo si apre invece bruscamente su una scena di controversia con i farisei e gli scribi, che richiama da vicino l’atmosfera dura che domenica scorsa aveva tratteggiato Giovanni.
L’occasione della discussione in questo caso è la critica che viene mossa a Gesù perché i suoi discepoli «non si comportano secondo la tradizione degli antichi», nella fattispecie «prendono cibo con mani impure, cioè non lavate», come spiega il testo stesso.
La reazione di Gesù («Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti…») mostra come oggetto del contendere non siano tanto le puntuali e contingenti mancate abluzioni, quanto piuttosto la logica che sta dietro al rimprovero.
Gesù infatti non si sofferma a giustificare i suoi sul perché non si siano lavati le mani prima di mangiare, ma in modo veemente svela la dinamica che soggiace alla polemica farisaica: e cioè il mis-conoscimento del rapporto dell’uomo con la legge di Dio e dunque con Dio stesso.
Si tratta di un mis-conoscimento che – stando a come prosegue l’incalzante risposta di Gesù – si colloca a due livelli: innanzitutto vi è un mis-conoscimento antropologico (legato cioè a chi l’uomo sia) e poi un mis-conoscimento teologico (legato a chi Dio sia).

Per quanto riguarda l’uomo infatti, Gesù mostra come il modo legalistico–puritano di intendere la legge da parte dei farisei, di fatto avvalli l’idea che sia ciò che sta fuori dall’uomo a “contaminarlo”. Come spiega bene Raniero La Valle nel suo Se questo è un Dio ciò ha origini molto lontane: «Risalendo alle origini, il primo impulso documentato nell’esperienza di Israele è stato quello di stabilire una netta separazione dal sacro (per gli ebrei qadoš). Se il sacro fa male [«Chi vede Dio muore»], meglio prenderne le distanze, fissare una netta demarcazione di confini. Ma la cosa non è affatto facile, perché il sacro non si fa agevolmente circoscrivere, invade tutta la realtà. […] E se il sacro malefico invadeva tutta la realtà, il problema era appunto quello di ritagliarne e separarne lo spazio profano, una specie di zona franca di ciò che restava indenne e disponibile all’uomo. E così fu fatto, e sul confine fu fissata una barriera protettiva, i cui effetti, come spesso è dei muri, saranno devastanti. La barriera era quella che distingueva l’impuro dal puro; e le norme di purità furono poste a garanzia di tutto il sistema. […] All’inizio al sacro si sposava il termine impuro, al profano il termine puro. Impuro è ciò che sta in contatto col sacro, e ne viene contaminato. […] Poi le cose cambiano […]: l’impurità viene legata al peccato, e il rapporto tra le due coppie di opposti [puro-impuro; sacro-profano] si inverte, da parallelo che era; è la purità, non più l’impurità che viene attirata nella sfera del divino; distinguere il sacro dal profano coincide ormai con la separazione del puro dall’impuro. Dio tre volte qadoš, sacro, sacro, sacro, come lo cantano i cherubini di Isaia (Is 6,3) è puro; è il mondo, è il profano, è la storia che giacciono nell’impurità. […] Questa concezione del contrasto tra puro e impuro è troppo importante, è troppo potente nella sua pretesa di invadere e spartire l’intera realtà umana e divina, per liquidarla come una fissazione di rubricisti, per non interrogarsi sulla sua persistenza storica, per non chiedersi se non sia rimasta all’opera fino a oggi, anche se in forme sempre mutate. Anche le pulizie etniche vengono da lì. E non basta nemmeno dirimere la questione se alla coppia sacro-profano corrisponda la coppia impuro-puro o viceversa. […] Ancora più necessario è chiedersi in che cosa consista l’essere puro o impuro, sia che a essere puro sia il sacro, come è ormai nel senso comune, sia che lo fosse il profano, come era all’inizio. […] Ora dalla lettura delle prescrizioni bibliche, dalla ricognizione dei testi ebraici antichi […] risulta che il connotato essenziale della purità consiste nella separazione dei diversi, e che il disordine della impurità consiste nella loro reciproca contaminazione. La purità sta nella omogeneità e identità con se stesso di ognuno dei due ordini, il sacro e il profano, l’impurità sta nella loro congiunzione, confusione, interferenza. Per estensione, la purità è non mischiarsi con l’altro da sé, l’impurità è il meticciato. La purità è la solitudine, l’impurità è la compagnia. […] Quella che si afferma è una antropologia della disuguaglianza per natura degli esseri umani. La discriminazione tra puro e impuro degenera in una discriminante tra uomini e no, perfetti e incompiuti, nobili e volgari, integri per natura e malriusciti e contaminati. La categoria puro-impuro diventa il paradigma e il primo travestimento culturale di una discriminazione, e perciò di un dominio, che percorrerà tutta la storia» [pagg. 76-86].
Ciò che mi contamina è dunque ciò che sta fuori di me, è l’altro. Questa è la mentalità ebraica dei farisei che parlano a Gesù e però anche la nostra, basta pensare che per non farci contaminare ne abbiamo fatti morire altri 75 in mare senza soccorrerli.
Questa è la logica antropologica che Gesù invece vuole ribaltare, alla quale anzi si oppone con violenza: «Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro». Gesù cioè – quello che Raniero La Valle arriva a chiamare il “Dio meticcio”, proprio per sottolineare questa opposizione alla logica della contaminazione che arriva da fuori – rimette a fuoco dal suo punto di vista la “questione uomo”: non sono le cose esterne il problema dell’uomo, ma è l’uomo stesso ad essere problema per se stesso. Ognuno è cioè richiamato a se stesso, alla qualità della sua interiorità, allo spessore della sua intimità più intima, al cuore del suo cuore. Questa è la sede del puro e dell’impuro, del sacro e del profano, che al di là dell’abbinamento di significato, vuol dire che è il cuore dell’uomo la sede di una vita buona o meno. E non buona in senso solo morale, ma nel pieno senso esistenziale, evangelico, umano. Gesù, in buona sostanza, riconduce l’uomo a sé, mostrando che è ora di smetterla di “arrangiarsi” nella vita dando la colpa ad altro o ad altri o ad Altro, cioè pensandola, decidendola, vivendola secondo una logica che non mi chiama mai in causa personalmente, ma trova sempre il problema ad extra. È tra te e te – pare dire Gesù – che si determina la qualità della vita.
E questo – come dicevamo – non può non contemplare anche il livello del rapporto col Signore. La relazione al sacro che mettevano in atto i farisei (e noi con loro) è infatti una relazione de-responsabilizzante. Basta definire i confini, basta sapere cosa si può fare e cosa no, basta conoscere cosa è dovuto a Dio, che tutto è risolto: il resto è il mio spazio, sono le mie cose, è la mia vita, Lui è fuori, nel suo spazio, nelle sue cose, nella sua vita. Ma così la relazione non esiste: è solo rimandata o circoscritta alle cose, mai ai cuori dei due interlocutori.
Ma questo non è Dio.
Scrive infatti ancora Raniero La Valle: «Se [Dio] ci avesse tenuto alla purità, alla non contaminazione, alle identità prigioniere di se stesse, non avrebbe fatto l’uomo a sua immagine, non avrebbe introdotto la riproduzione sessuata, causa di tutte le combinazioni e le differenze, non avrebbe dato corso alla storia, la quale senza relazioni non sarebbe possibile».
Soprattutto non è il Dio di Gesù Cristo.
«Con l’apparizione di Dio nel bambino neonato accadde la caduta di tutta la strutturazione della realtà nelle categorie di puro e impuro e la sua riconduzione a unità. Il primo segno è che per il parto non si trova luogo – che fosse una casa o un albergo – dove fosse possibile osservare le regole di purità», (cfr Lev. 12,2 per le regole di purità per la donna che aveva appena partorito e Is 1,3 per la vicinanza agli animali). «Se quella era la nuova “Presenza” di Dio sulla terra, essa si manifesta quindi fuori del luogo deputato, e fino ad allora esclusivo; fuori del santo dei santi, fuori del tempio, senza la mediazione dei sacerdoti vestiti solo di lino; è un’altra struttura del divino che cade. Ciò troverà poi piena esplicazione nella risposta di Gesù alla Samaritana («Né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre; i veri adoratori adoreranno il Padre in Spirito e verità, Giov. 4,21-23) e nel fatto che la sua morte e risurrezione avverranno fuori della città, fuori del tempio. Ma è già alla nascita che egli si pone fuori del recinto del sacro. […] La divisione tra sacro e profano entra in crisi con l’incarnazione. In quella che nella liturgia e nell’arte sacra chiamiamo “epifania di Gesù”, non ve n’è più traccia. Finisce quell’ambiguo gioco di rimandi tra puro e impuro, tra sacro puro e profano impuro. E cade non perché sopravviene una concezione più avanzata, ma perché ne viene meno (ne viene tolto) il presupposto radicale: la giustapposizione tra il divino e l’umano, l’intransitabilità della soglia che divide il mondo da Dio. Se l’invasione di campo del sacro nel profano e del profano nel sacro, la mescolanza, la contaminazione tra Dio e uomo rappresentano la massima impurità, proprio questa Dio sceglie e fa sua. Il gesto sorprendente di Dio è di mantenere la distinzione ma di abolire la distanza. […] La massima impurità diventa pertanto la nuova forma dell’economia divina: la comunione del sacro col profano (nulla è più riservato, tutto è riportato alla condizione comune), il meticciato tra il divino e l’umano. Il Dio puro dell’assoluta trascendenza si impasta anche lui di terra, e si presenta nel volto di Cristo come divino e umano insieme, “perfetto nella divinità e perfetto nell’umanità, veramente Dio e veramente uomo”, come professa il Concilio di Calcedonia. Un Dio meticcio» [pagg. 97.115-118].

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