INTERVISTA ALL’AUTORE
Nella chiesa si vive oggi un calo di vocazioni sacerdotali. I media di frequente danno risalto a notizie di deviazioni sessuali aventi come protagonisti preti cattolici. Tutta colpa del celibato?
Legare le devianze al celibato sembrerebbe «logico»: i preti, non avendo vita sessuale attiva, da qualche parte devono «recuperare». Ma allora, se così fosse (se, cioè, le devianze procedessero ultimamente dalla mancanza di una vita sessuale attiva), come «spiegare» la presenza diffusa della devianza in famiglia? Se prendiamo in esame, ad esempio, la questione grave e dolorosa dell’abuso su minori, constatiamo come, purtroppo, lo spazio più frequente è quello familiare.
Ciò, sia chiaro, non deve diventare un alibi per nessuno (Chiesa compresa): occorre guardare con obiettività e coraggio ad una tale realtà anche in tutte quelle circostanze in cui i soggetti dell’abuso sono proprio i preti. Però, se l’abuso coinvolge anche (e perfino più diffusamente) i non celibi, siamo sicuri che rileggere la questione della devianza a partire da quella del celibato sia una posizione corretta del problema?
Certo mi sentirei di dire che rispetto all’attuale cultura sessuale diffusa il celibato, oggi, sia assai più complicato da sostenere perché la sessualità genitale ha una visibilità assai maggiore che in passato e perché il vissuto sessuale-genitale non legato ad un legame affettivo o matrimoniale non solo è diffuso, ma culturalmente legittimato. Il che significa che viene presentata una sessualità con «pochi costi e molti benefici». Pensiamo alla facilità enorme ad accedere alla sessualità virtuale. Ma questo stato di cose investe non poco anche i legami di coppia.
È vero che il calo di vocazioni c’è, ma mi domando se, al di là del fatto che taluni matrimoni si celebrino ancora in una chiesa, si possa parlare di «calo delle vocazioni sacerdotali» o non piuttosto di calo nella consapevolezza della dimensione vocazionale della vita (matrimonio, sacerdozio, ecc...) e, all’interno di questa, dello spazio della affettività e della sessualità.
La proposta formativa che normalmente viene fatta nei seminari, fornisce ai candidati al sacerdozio, un sufficiente discernimento sulla sessualità umana, per andare incontro al celibato con consapevolezza?
Credo che le cose varino notevolmente da seminario a seminario. E questo accade anche rimanendo soltanto sul territorio italiano, e perfino fra diocesi confinanti. In questo senso, perciò, una risposta uniforme non c’è.
Ritengo che e cose «funzionino» bene là dove la questione sessualità all’interno del tema più complessivo del celibato non viene associata al mondo delle «tentazioni» o, peggio, dei disturbi, ma come dimensione essenziale della persona umana (dunque anche di quella celibe), ma interpretata nella sua complessità, in modo positivo e allo stesso tempo, però, realistico e non ingenuo.
Credo che nella attuale cultura sessuale sia oltremodo importante salvare la positività della sessualità e riconoscere che anche l’eventualità della devianza rappresenta la risposta sbagliata ad una domanda buona, e che come tale va ritrovata.
Perché altre chiese cristiane, ortodosse, non hanno, come la chiesa cattolica latina, il celibato come condizione per il sacerdozio?
La questione è storica ed ecclesiologica e riconosco di non essere competente in merito. Mi limito ad osservare che ciò conferma il legame non essenziale fra sacerdozio e celibato. Allo stesso tempo, però, il fatto che la chiesa latina ha optato per la figura di un prete celibe ha strutturato nel corso del tempo una identità di prete del tutto particolare che non può essere cambiata con una semplice operazione di tipo giuridico. In altre parole: un prete sposato... certo «essenzialmente» sarebbe ancora un prete, ma spiritualmente, pastoralmente, quale la sua figura?
Certo si tratta di un percorso di riflessione possibile (e forse auspicabile), ma talora, soprattutto nei media, la cosa viene banalizzata, come se «eliminando» il celibato non si coinvolgesse anche l’identità (psicologica e sociale, oltre che pastorale e spirituale) di un prete.
In gioco c’è l’identità stessa della Chiesa, la quale esiste nelle sue forme storiche, concrete.
Per quali buone ragioni oggi un sacerdote dovrebbe scegliere ancora il celibato? E cosa significa viverlo bene?
La risposta è semplice, ma credo importante: perché al di là delle questioni canoniche (che hanno stabilito un legame giuridico fra sacerdozio e celibato) e che anche oggi, nei dibattiti, si prendono sempre tutta l’attenzione, il celibato rappresenta lo stile di vita che più immediatamente rimanda al modo di amare di Gesù.
Non è lo stile di ogni cristiano, ma di coloro che riconoscono in questo stile di vita il modo migliore per se stessi di essere cristiani. Dunque non si tratta del modo migliore «in sé» di essere cristiani. Il Vangelo dice che «Chi può capire capisca». Da ciò si coglie la natura di carisma, di vocazione, del celibato. Nel carisma del celibato il cristiano intende riprodurre qualcosa dello stile di Cristo. Ma in fondo questo è il compito di ogni carisma.
D’altra parte ogni carisma non concretizza mai il tutto dello stile di Cristo. Il celibato dovrebbe far leva sulla maggiore immediatezza del segno che propone. Altre scelte di vita cristiana riproducono aspetti non meno importanti dello stile di Cristo, ma agendo su simboli che esigono mediazioni maggiori. È il caso del matrimonio cristiano, che non è solo «matrimonio».
D’altra parte anche fra lo stile del single e quello del celibe per il regno dovrebbero esserci delle differenze non di poco conto. Il che significa che maggiore immediatezza non significa immediatezza assoluta, altrimenti ogni single ci parlerebbe di Cristo con evidenza, e non di rado accade esattamente il contrario.
Nella chiesa si vive oggi un calo di vocazioni sacerdotali. I media di frequente danno risalto a notizie di deviazioni sessuali aventi come protagonisti preti cattolici. Tutta colpa del celibato?
Legare le devianze al celibato sembrerebbe «logico»: i preti, non avendo vita sessuale attiva, da qualche parte devono «recuperare». Ma allora, se così fosse (se, cioè, le devianze procedessero ultimamente dalla mancanza di una vita sessuale attiva), come «spiegare» la presenza diffusa della devianza in famiglia? Se prendiamo in esame, ad esempio, la questione grave e dolorosa dell’abuso su minori, constatiamo come, purtroppo, lo spazio più frequente è quello familiare.
Ciò, sia chiaro, non deve diventare un alibi per nessuno (Chiesa compresa): occorre guardare con obiettività e coraggio ad una tale realtà anche in tutte quelle circostanze in cui i soggetti dell’abuso sono proprio i preti. Però, se l’abuso coinvolge anche (e perfino più diffusamente) i non celibi, siamo sicuri che rileggere la questione della devianza a partire da quella del celibato sia una posizione corretta del problema?
Certo mi sentirei di dire che rispetto all’attuale cultura sessuale diffusa il celibato, oggi, sia assai più complicato da sostenere perché la sessualità genitale ha una visibilità assai maggiore che in passato e perché il vissuto sessuale-genitale non legato ad un legame affettivo o matrimoniale non solo è diffuso, ma culturalmente legittimato. Il che significa che viene presentata una sessualità con «pochi costi e molti benefici». Pensiamo alla facilità enorme ad accedere alla sessualità virtuale. Ma questo stato di cose investe non poco anche i legami di coppia.
È vero che il calo di vocazioni c’è, ma mi domando se, al di là del fatto che taluni matrimoni si celebrino ancora in una chiesa, si possa parlare di «calo delle vocazioni sacerdotali» o non piuttosto di calo nella consapevolezza della dimensione vocazionale della vita (matrimonio, sacerdozio, ecc...) e, all’interno di questa, dello spazio della affettività e della sessualità.
La proposta formativa che normalmente viene fatta nei seminari, fornisce ai candidati al sacerdozio, un sufficiente discernimento sulla sessualità umana, per andare incontro al celibato con consapevolezza?
Credo che le cose varino notevolmente da seminario a seminario. E questo accade anche rimanendo soltanto sul territorio italiano, e perfino fra diocesi confinanti. In questo senso, perciò, una risposta uniforme non c’è.
Ritengo che e cose «funzionino» bene là dove la questione sessualità all’interno del tema più complessivo del celibato non viene associata al mondo delle «tentazioni» o, peggio, dei disturbi, ma come dimensione essenziale della persona umana (dunque anche di quella celibe), ma interpretata nella sua complessità, in modo positivo e allo stesso tempo, però, realistico e non ingenuo.
Credo che nella attuale cultura sessuale sia oltremodo importante salvare la positività della sessualità e riconoscere che anche l’eventualità della devianza rappresenta la risposta sbagliata ad una domanda buona, e che come tale va ritrovata.
Perché altre chiese cristiane, ortodosse, non hanno, come la chiesa cattolica latina, il celibato come condizione per il sacerdozio?
La questione è storica ed ecclesiologica e riconosco di non essere competente in merito. Mi limito ad osservare che ciò conferma il legame non essenziale fra sacerdozio e celibato. Allo stesso tempo, però, il fatto che la chiesa latina ha optato per la figura di un prete celibe ha strutturato nel corso del tempo una identità di prete del tutto particolare che non può essere cambiata con una semplice operazione di tipo giuridico. In altre parole: un prete sposato... certo «essenzialmente» sarebbe ancora un prete, ma spiritualmente, pastoralmente, quale la sua figura?
Certo si tratta di un percorso di riflessione possibile (e forse auspicabile), ma talora, soprattutto nei media, la cosa viene banalizzata, come se «eliminando» il celibato non si coinvolgesse anche l’identità (psicologica e sociale, oltre che pastorale e spirituale) di un prete.
In gioco c’è l’identità stessa della Chiesa, la quale esiste nelle sue forme storiche, concrete.
Per quali buone ragioni oggi un sacerdote dovrebbe scegliere ancora il celibato? E cosa significa viverlo bene?
La risposta è semplice, ma credo importante: perché al di là delle questioni canoniche (che hanno stabilito un legame giuridico fra sacerdozio e celibato) e che anche oggi, nei dibattiti, si prendono sempre tutta l’attenzione, il celibato rappresenta lo stile di vita che più immediatamente rimanda al modo di amare di Gesù.
Non è lo stile di ogni cristiano, ma di coloro che riconoscono in questo stile di vita il modo migliore per se stessi di essere cristiani. Dunque non si tratta del modo migliore «in sé» di essere cristiani. Il Vangelo dice che «Chi può capire capisca». Da ciò si coglie la natura di carisma, di vocazione, del celibato. Nel carisma del celibato il cristiano intende riprodurre qualcosa dello stile di Cristo. Ma in fondo questo è il compito di ogni carisma.
D’altra parte ogni carisma non concretizza mai il tutto dello stile di Cristo. Il celibato dovrebbe far leva sulla maggiore immediatezza del segno che propone. Altre scelte di vita cristiana riproducono aspetti non meno importanti dello stile di Cristo, ma agendo su simboli che esigono mediazioni maggiori. È il caso del matrimonio cristiano, che non è solo «matrimonio».
D’altra parte anche fra lo stile del single e quello del celibe per il regno dovrebbero esserci delle differenze non di poco conto. Il che significa che maggiore immediatezza non significa immediatezza assoluta, altrimenti ogni single ci parlerebbe di Cristo con evidenza, e non di rado accade esattamente il contrario.
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