Dopo il duro scontro, che il vangelo di domenica scorsa (XXII del tempo ordinario B) presentava, tra Gesù e i farisei, il testo riporta l’annotazione per cui Gesù, «partito di là, andò nella regione di Tiro. Entrato in una casa, non voleva che alcuno lo sapesse» (Mc 7,24).
Gesù cioè, di fronte all’ennesima controversia con i suoi oppositori e di fronte all’ennesima conferma della durezza e ipocrisia dei loro cuori, sembra volersi ritirare in luoghi stranieri per starsene un po’ solo. Non vuole infatti che nessuno sappia della sua presenza.
Ma – come gli era già successo in occasione della moltiplicazione dei pani (cfr Mc 6,30-34), quando, volendosi ritirare in disparte coi suoi discepoli, era invece stato seguito da una grande folla – anche qui il suo intento sfuma: una donna siro-fenicia prima (Mc 7,25-30) e un sordomuto poi (Mc 7,31-37, che è il brano odierno) gli si pongono sul cammino e lo sollecitano a uscire dal nascondimento in cui Egli invece avrebbe preferito, per un poco, restare.
Anche in questa occasione, come con la folla a cui poi aveva moltiplicato il pane, Gesù non reagisce malamente, non rifiuta l’incontro per seguire il suo (giusto) desiderio di starsene un po’ in disparte, non riesce a «stare nascosto» (Mc 7,24); anzi, proprio come allora, quando si era intenerito perché tutta quella gente gli era apparsa come pecore senza pastore, anche qui in Gesù ciò che viene immediatamente a coscienza è la com-passione, è il lasciarsi interpellare dall’altro che gli si fa incontro, è il lasciarsi coinvolgere nella sua storia e nella drammatica della sua vita.
Nonostante dunque il bisogno di stare in disparte, ingeneratosi in lui dalla discussione coi farisei, nonostante il suo desiderio di essere lasciato in pace, Gesù di fronte alla donna pagana con la figlia malata e al sordomuto che gli portano – di fronte cioè ai piccoli dell’umanità – non riesce a non farsi intenerire e entrambe le volte fa ciò che gli chiedono.
In questa rapida analisi di come ha “funzionato” in quelle occasioni la libertà di Gesù, di come cioè Lui si sia determinato di fronte alla storia che anche a Lui, come per ogni uomo, veniva incontro, accadendo, e ponendolo in una situazione di originaria passività, emerge un tratto dell’interiorità di Dio davvero inedito.
La rivelazione di Dio infatti, la rivelazione cioè di chi Dio sia, cristianamente parlando coincide con la libertà storica attuata dall’uomo Gesù, perciò questo Suo modo usuale di reagire di fronte ai piccoli della terra, non è solo un bell’esempio posto perché noi lo seguissimo, ma molto più radicalmente è il “funzionamento”, fatto narrazione, delle viscere del Padre.
E le viscere del Padre sono allora quelle che, di fronte all’uomo che si ritrova in una situazione di dis-umanizzazione, si lasciano intenerire e promuovono una reazione di liberazione.
E questo è molto consolante soprattutto se si ha il coraggio di guardare la realtà con occhi disincantati e rendersi conto che non c’è uomo o donna sulla faccia della terra che in ultima analisi non sia e si senta questo “piccolo dell’umanità” verso cui il Signore prova com-passione.
La storia del mondo sembra raccontare altro: sembra parlare di grandi uomini, forti e impavidi, potenti e grandi, riusciti e risolti, ma è solo la storia di una finzione; la finzione degli uomini – di ogni uomo e anche nostra – di essere capaci di gestire questa nostra misteriosa storia, che proprio perché tritura tutto quanto c’è di umano (se non altro perché tutto va a finire nella tomba) ha bisogno di essere dominata, con i soldi, che illudono il ricco di comprare la felicità, il senso, la vita; con la violenza sugli altri, che illude il potente di sottomettere tutto a sé; con l’intelligenza ordinatrice, che illude lo scienziato di incasellare e prevenire e governare il misterioso futuro che gli si fa incontro; con la religione, che illude il pio di orchestrare l’imprendibile reale in categorie di necessità; con la morale, che illude l’uomo retto di interpretare il mondo secondo la retribuzione; ecc…
L’intima verità di ognuno racconta invece di un’altra storia: quella dei nostri tentativi sempre precari di costruirci un poco di felicità; della sempre ritornante frustrazione per l’incapacità di tenere in mano la vita; dell’infedeltà e inconsistenza che paiono definirci più di ogni altra cosa; delle speranze d’amore e del faticoso cammino per arrivare anche solo a capire l’altro; della paura di morire e della depressione di un’incompiutezza mai colmata…
Ma mentre questa realtà povera (che è la nostra verità più intima), in noi ingenera tutta una serie di meccanismi consci e inconsci di censura, di tentativi di nasconderla e nascondercela, e di manovre per superarla, vincerla, o per lo meno per far sì che gli altri non la vedano, dal Signore è guardata con altri occhi.
Noi infatti vorremmo dimenticarci della nostra miseria o riuscire a sconfiggerla perché essa ci pare sempre un ostacolo alla nostra amabilità (che è come dire: alla nostra sopravvivenza). E questo nasce da una constatazione giusta: il male è male; essere sordomuti o ciechi o handicappati o malati o infedeli o egoisti o permalosi (ecc.. ecc… ecc…) è male; è dis-umanizzante; e dunque va combattuto con tutti i mezzi in nostro possesso. Ma non ci rende meno amabili.
Qui sta lo scacco tra il nostro pensiero e il pensiero di Dio, tra il funzionamento delle nostre viscere e il funzionamento delle sue: l’essere affetti dal male (subito o commesso) non rende l’uomo meno amabile. Non perché Dio non riconosca quello come male (Gesù guarisce la figlia della siro-fenicia e guarisce il sordomuto) ma perché non lo identifica con un impedimento per il suo amore.
A noi questo atteggiamento sembra paradossale: noi abbiamo infatti stampata dentro la legge della sopravvivenza, la legge della vittoria del più forte, del mors tua vita mea; l’altro è concorrente, nemico, rivale “per forza”, cioè “di necessità”, altrimenti io muoio. E così cresciamo e possiamo rimanere nella vita, eliminando chi ce la minaccia. L’essere affetto dal male (fisico o morale) in questo meccanismo è dunque un grande impedimento. Nella lotta per la sopravvivenza, nella lotta per l’amabilità, chi è affetto dal male è “fuori gioco” in partenza: ecco perché censuriamo il nostro male e escludiamo chi ne è toccato.
Ma Dio non ha da fare questa stessa nostra lotta. Ecco perché può “funzionare” diversamente: perché può parlare di amore per i nemici e morire perdonando chi lo uccide.
Se ci fermassimo qui… sembrerebbe però che per noi è impossibile entrare nella logica del Padre, amare come Lui, guardare a noi stessi e guardare agli altri con i suoi stessi occhi… Abbiamo constatato infatti – ognuno lo sa sulla sua stessa pelle – che ci è impossibile da noi stessi uscire da quel nostro male che ci affligge, da questa legge del più forte che, se ci ha portato a sopravvivere fino ad ora, lo ha fatto chiedendoci di nascondere l’insuperabile male che è in noi.
Invece non ci fermiamo. Perché il vangelo di oggi, oltre a delineare la diversità del funzionamento delle viscere di Gesù dalle nostre, mostra anche dell’altro: Gesù libera dal male la figlia della siro-fenicia e, in maniera letterariamente somma, libera dal male il sordomuto. Dichiara cioè che il male insuperabile per l’uomo, è vinto in Lui, è cioè squalificato come ostacolo serio all’amabilità: dopo Gesù nessuno potrà più dire che il male di cui è affetto l’uomo è un impedimento per il suo rapporto con Dio, con la Vita, con il senso.
Come diceva un amico francescano: “Gesù non guarisce tutti i ciechi della terra, ma ogni cieco della terra può chiamare Dio col nome di Padre”.
Alle soglie del ricominciamento del vortice produttivo, efficientistico e sclerotico della nostra vita post-estiva, che semplicemente il male lo estromette (cioè lo mette fuori) perché nella lotta per la sopravvivenza e per l’amabilità è perdente, questo annuncio evangelico coglie proprio nel segno: ci invita infatti, nel ripartire, a farlo secondo quella liberazione dall’ostacolo del male alla nostra amabilità, che sola ci permette di vivere senza bisogno di uccidere.
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