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martedì 5 febbraio 2013

V Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro del profeta Isaìa (Is 6,1-2.3-8)
 
Nell’anno in cui morì il re Ozìa, io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato; i lembi del suo manto riempivano il tempio. Sopra di lui stavano dei serafini; ognuno aveva sei ali. Proclamavano l’uno all’altro, dicendo: «Santo, santo, santo il Signore degli eserciti! Tutta la terra è piena della sua gloria». Vibravano gli stipiti delle porte al risuonare di quella voce, mentre il tempio si riempiva di fumo. E dissi: «Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito; eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti». Allora uno dei serafini volò verso di me; teneva in mano un carbone ardente che aveva preso con le molle dall’altare. Egli mi toccò la bocca e disse: «Ecco, questo ha toccato le tue labbra, perciò è scomparsa la tua colpa e il tuo peccato è espiato». Poi io udii la voce del Signore che diceva: «Chi manderò e chi andrà per noi?». E io risposi: «Eccomi, manda me!».

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (1Cor 15,1-11)

Vi proclamo, fratelli, il Vangelo che vi ho annunciato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi e dal quale siete salvati, se lo mantenete come ve l’ho annunciato. A meno che non abbiate creduto invano! A voi infatti ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto. Io infatti sono il più piccolo tra gli apostoli e non sono degno di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio, però, sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana. Anzi, ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me. Dunque, sia io che loro, così predichiamo e così avete creduto.

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 5,1-11)

In quel tempo, mentre la folla gli faceva ressa attorno per ascoltare la parola di Dio, Gesù, stando presso il lago di Gennèsaret, vide due barche accostate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedette e insegnava alle folle dalla barca. Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca». Simone rispose: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti». Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano. Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare. Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore». Lo stupore infatti aveva invaso lui e tutti quelli che erano con lui, per la pesca che avevano fatto; così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedèo, che erano soci di Simone. Gesù disse a Simone: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini». E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono.

 

Le letture che la Chiesa ci propone per questa Quinta Domenica del Tempo Ordinario sono tutte e tre molto ricche e decisamente interessanti. Non potendole però approfondire tutte in maniera adeguata, non resta che concentrarsi su una in particolare (il vangelo), ma non senza aver prima notato come in ognuna sia ripercorso in qualche modo il medesimo schema:

- c’è (o c’è stato) un incontro col Signore (la teofania di Isaia: «Nell’anno in cui morì il re Ozìa, io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato; i lembi del suo manto riempivano il tempio»; l’apparizione a San Paolo: «Ultimo fra tutti apparve anche a me»; e l’incontro con Simone: «In quel tempo, mentre la folla gli faceva ressa attorno per ascoltare la parola di Dio, Gesù, stando presso il lago di Gennèsaret, vide due barche accostate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra»);

- un prendere coscienza della propria inadeguatezza – di fronte a questo incontro – da parte dell’uomo (Isaia dice: «Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito; eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti»; Paolo si autodefinisce un “aborto”; e Pietro vedendo quanto fatto da Gesù gli «si getta alle ginocchia, dicendo: “Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore”»);

- una conferma del Signore (per Isaia, quanto narrato ai versetti 6-7 del capitolo 6: «Allora uno dei serafini volò verso di me; teneva in mano un carbone ardente che aveva preso con le molle dall’altare. Egli mi toccò la bocca e disse: “Ecco, questo ha toccato le tue labbra, perciò è scomparsa la tua colpa e il tuo peccato è espiato”»; per Paolo la consapevolezza che «Per grazia di Dio, però, sono quello che sono»; per Pietro, la parola che il Signore gli rivolge: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini»);

- e infine l’accettazione della relazione col Signore (Isaia: «Eccomi, manda me!»; Paolo: «Dunque, sia io che loro, così predichiamo»; Pietro: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti» / «tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono»).

Lo schema che così viene a comporsi – proprio per il fatto che attraversa tutte le scritture sia antico che neotestamentarie – diviene in qualche modo l’indicazione del percorso di ogni discepolato, di ogni relazione con Dio. Per tutti infatti – anche per ciascuno di noi – c’è un incontro col Signore, un venire a sapere di Lui, un imbattersi nella sua parola o nella sua vicenda; un non sentirsi all’altezza; un ritrovare una conferma del proprio esistere; uno sbilanciarsi per acconsentire ad una donazione che diventa radicale, totale, totalizzante…

Il problema è che forse spesso questi momenti (questi passaggi) nella vita reale vanno al di là di ogni possibile schematizzazione, per cui può capitare di vivere insieme alcune di queste fasi o prolungarne altre, o riviverle più volte… col rischio di non saperle ben riconoscere o – peggio – di fossilizzarsi su una di esse, mentre invece è nella loro coralità che tratteggiano il percorso compiuto del discepolo.

Innanzitutto la domanda che a noi può sorgere è quella dell’incontro con Dio… Pietro ha incontrato Gesù sulle rive del lago Gennèsaret, a Paolo è apparso il Signore risorto, Isaia ha addirittura vissuto una teofania… ma a noi? Niente di tutto questo: nessun evento di questo tipo… E allora la domanda nasce spontanea: Davvero ho incontrato il Signore? Non è stata una mia autosuggestione? Non mi ha semplicemente fatto piacere crederlo? Si può davvero incontrare il Signore?

A tutte queste domande mi sembra pertinente rispondere con le parole di un grande biblista dei nostri giorni, don Roberto Vignolo, il quale in un suo libro (Personaggi del quarto vangelo), parlando di un grande assente, Tommaso – assente almeno quanto noi – che però pretenderà e otterrà – a differenza nostra – di vedere per credere, scrive così: «In che cosa consisterà la forma specifica della fede che non vede rispetto alla visione che conduce Tommaso [noi potremmo dire: Isaia, Paolo, Pietro] alla fede? Come dovrà intendersi una fede “beata perché crede e non vede”? In che termini il lettore sarà non solo non penalizzato rispetto a questi personaggi, ma piuttosto fortunato, paradossalmente anche più di loro? L’enigmatico macarismo di Gv 20,29 [«Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!»] […] non intende affatto celebrare l’esaltazione di una fede cieca (e quindi più pura) contro una fede appagata di visione miracolistica (e quindi mediocre). Nemmeno rappresenta un deprezzamento per l’esperienza di Tommaso, e dei testimoni oculari in genere. [Piuttosto] una risposta può venire considerando come Giovanni, collocando un macarismo ad epilogo del suo Libro, recuperi abilmente la tradizione per cui un libro, in quanto condensa un patrimonio di esperienza vissuta e funge da strumento di comunicazione tra le generazioni, va considerato come una vera e propria fortuna. […] La fortuna dei lettori/uditori non contemporanei non starà nel contenuto quantitativo del Libro, che è materialmente parziale e più limitato rispetto all’evento. […] Ma questa forma della fede si rivela tuttavia a propria volta singolarmente “felice” per le seguenti ragioni: 1/ è fede necessariamente ancorata alla mediazione kerygmatico-testimoniale, che cioè dipende da una testimonianza – proprio come la fede degli stessi testimoni oculari. […] Per tutte le generazioni successive a quella dei testi oculari la gerarchia che prevede il primato della parola nella fondazione della fede non si limita più ad un’affermazione di principio, ma diventa una necessità, un a priori di fatto, che trova nella forma dei “segni scritti” l’adeguata mediazione per la fede che “non vede”. 2/ Questo kerygma specificamente testimoniale chiede e sollecita un ascolto che, lungi dall’essere cieco, intende piuttosto “far vedere” e “insegnare come vedere”. [Infatti] mentre si fa ascoltare come testimonianza verbale scritta, il Libro fa vedere sia ciò che i testi oculari hanno potuto vedere (il contenuto cristologico della rivelazione), sia come essi abbiano potuto farlo (il loro cammino di fede)». Dunque alla domanda “Si può davvero oggi incontrare il Signore?” i testi neotestamentari rispondono risolutamente di sì, anzi in maniera ancora più “beata”/fortunata/facilitata che i testimoni oculari.

Il cammino del discepolato quindi non trova oggi un’interruzione in partenza, per il fatto che oggi visioni, teofanie o rivelazioni particolari sembrino essere assenti dal palcoscenico della storia. Anzi, il fondamento per tale percorso sembra essere quello del primato della Parola… Il cammino di relazione col Signore nasce infatti dal nostro imbatterci in quella sua Parola, in quella sua iniziativa libera e gratuita di farsi incontrare, di farsi conoscere, di farsi prossimo… L’iniziativa dunque è sua… e per questo è per tutti: perché non è da conquistare, ma è donata!

Certo è che di fronte a tale donazione l’uomo si sente inadeguato, non all’altezza, non degno, nelle forme più svariate: “Per me capire la Parola di Dio è troppo difficile”, “Viverla poi…”, “Io sono troppo giovane”, “Io troppo vecchio”, “Io troppo peccatore”, “Io troppo imbranato”… Ma spesso non ci si rende conto che dietro a queste nostre obiezioni – pur vere da un certo punto di vista – in realtà si nasconde un frustrato desiderio di onnipotenza, che si presenta sotto il suo contrario: la rassegnazione, come bene aveva intuito Teresa di Gesù Bambino: «Voi, o Signore, conoscete la mia debolezza: ogni mattino prendo la risoluzione di praticare l’umiltà e alla sera riconosco che ho commesso ancora ripetuti errori di orgoglio. A tale vista sono tentata di scoraggiamento; ma capisco, anche lo scoraggiamento è effetto d’orgoglio. Voglio quindi, mio Dio, fondare la mia speranza su voi solo».

Siccome non posso essere dio, siccome non posso essere l’uomo/la donna ideale che ho in testa, siccome non posso essere il discepolo ideale, allora mi tiro indietro, mi tiro fuori da questo circolo, me ne sto per i fatti miei (e che gli altri vedano che me ne vado!)… O tutto o niente, o perfetto o distrutto, o dio o nulla… Questo è l’uomo… Questi siamo noi… quando cadiamo nella falsa illusione che essere amati voglia dire essere amabili! E siccome ci consideriamo non amabili, non crediamo sia possibile essere amati…

E invece ecco la riconferma del Signore, presente – come visto – in tutte e tre le letture… L’elemento forse più difficile di tutto il percorso del discepolato: riconoscersi amati/graziati/perdonati. All’uomo che non si sente amabile, che non si perdona la sua inadeguatezza e per questo vorrebbe andarsene, sparire, magari orchestrando una sceneggiata che almeno per un momento lo rimetta al centro dell’attenzione, Dio risponde con l’inaspettato sguardo di chi problemi per la nostra inadeguatezza proprio non se ne fa… Anzi… ci si era fatto prossimo quando noi eravamo ancora inconsapevoli della nostra inadeguatezza («Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi », Rm 5,8)… e Lui l’aveva già contemplata, accettata, amata… (forse ne aveva anche maternamente sorriso).

È solo dentro a questo orizzonte che prende senso il decider-si del discepolo: solo in questo abbraccio che “tutto-accoglie” si può arrivare (anzi si deve arrivare) a dire: «Eccomi, manda me!», si deve arrivare cioè a giocarsi la vita…

Purtroppo invece a noi capita molto più spesso di non dar credito a questo orizzonte e di arenarci in qualcuno di questi momenti e non venirne fuori più: perché non crediamo sia possibile oggi un farsi prossimo del Signore, oppure perché troppo velocemente arriviamo a sentirci perdonati (nel giusto), senza passare dal rendersi conto purificatore che “Io non sono dio!”, oppure perché non crediamo nell’amore altrui che va ben al di là della nostra amabilità, oppure perché in ogni caso ci fa troppa paura dire «Eccomi, manda me!»…

In ogni caso, dietro ad ogni nostra interruzione sta sempre un’errata considerazione di chi sia Dio e dunque di chi sia l’uomo: è su quest’idea che ogni mattina ed ogni sera dovremmo, nella preghiera, ricalibrare la nostra vita.

venerdì 5 febbraio 2010

Il percorso dei discepoli: di ieri e di oggi

Le letture che la Chiesa ci propone per questa quinta domenica del tempo ordinario sono tutte e tre molto ricche e decisamente interessanti. Non potendole però approfondire tutte in maniera adeguata, non resta che concentrarsi su una in particolare (il vangelo), ma non senza aver prima notato come in ognuna sia ripercorso in qualche modo il medesimo schema:
- c’è (o c’è stato) un incontro col Signore (la teofania di Isaia: «Nell’anno in cui morì il re Ozìa, io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato; i lembi del suo manto riempivano il tempio»; l’apparizione a San Paolo: «Ultimo fra tutti apparve anche a me»; e l’incontro con Simone: «In quel tempo, mentre la folla gli faceva ressa attorno per ascoltare la parola di Dio, Gesù, stando presso il lago di Gennèsaret, vide due barche accostate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra»);
- un prendere coscienza della propria inadeguatezza – di fronte a questo incontro – da parte dell’uomo (Isaia dice: «Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito; eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti»; Paolo si autodefinisce un “aborto”; e Pietro vedendo quanto fatto da Gesù gli «si getta alle ginocchia, dicendo: “Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore”»);
- una conferma del Signore (per Isaia, quanto narrato ai versetti 6-7 del capitolo 6: «Allora uno dei serafini volò verso di me; teneva in mano un carbone ardente che aveva preso con le molle dall’altare. Egli mi toccò la bocca e disse: “Ecco, questo ha toccato le tue labbra, perciò è scomparsa la tua colpa e il tuo peccato è espiato”»; per Paolo la consapevolezza che «Per grazia di Dio, però, sono quello che sono»; per Pietro, la parola che il Signore gli rivolge: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini»);
- e infine l’accettazione della relazione col Signore (Isaia: «Eccomi, manda me!»; Paolo: «Dunque, sia io che loro, così predichiamo»; Pietro: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti» / «tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono»).


Lo schema che così viene a comporsi – proprio per il fatto che attraversa tutte le scritture sia antico che neotestamentarie – diviene in qualche modo l’indicazione del percorso di ogni discepolato, di ogni relazione con Dio. Per tutti infatti – anche per ciascuno di noi – c’è un incontro col Signore, un venire a sapere di Lui, un imbattersi nella sua parola o nella sua vicenda; un non sentirsi all’altezza; un ritrovare una conferma del proprio esistere; uno sbilanciarsi per acconsentire ad una donazione che diventa radicale, totale, totalizzante…
Il problema è che forse spesso questi momenti (questi passaggi) nella vita reale vanno al di là di ogni possibile schematizzazione, per cui può capitare di vivere insieme alcune di queste fasi o prolungarne altre, o riviverle più volte… col rischio di non saperle ben riconoscere o – peggio – di fossilizzarsi su una di esse, mentre invece è nella loro coralità che tratteggiano il percorso compiuto del discepolo.
Innanzitutto la domanda che a noi può sorgere è quella dell’incontro con Dio… Pietro ha incontrato Gesù sulle rive del lago Gennèsaret, a Paolo è apparso il Signore risorto, Isaia ha addirittura vissuto una teofania… ma a noi? Niente di tutto questo: nessun evento di questo tipo… E allora la domanda nasce spontanea: Davvero ho incontrato il Signore? Non è stata una mia autosuggestione? Non mi ha semplicemente fatto piacere crederlo? Si può davvero incontrare il Signore?
A tutte queste domande mi sembra pertinente rispondere con le parole di un grande biblista dei nostri giorni, don Roberto Vignolo, il quale in un suo libro (Personaggi del quarto vangelo), parlando di un grande assente, Tommaso – assente almeno quanto noi – che però pretenderà e otterrà – a differenza nostra – di vedere per credere, scrive così: «In che cosa consisterà la forma specifica della fede che non vede rispetto alla visione che conduce Tommaso [noi potremmo dire: Isaia, Paolo, Pietro] alla fede? Come dovrà intendersi una fede “beata perché crede e non vede”? In che termini il lettore sarà non solo non penalizzato rispetto a questi personaggi, ma piuttosto fortunato, paradossalmente anche più di loro? L’enigmatico macarismo di Gv 20,29 [«Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!»] […] non intende affatto celebrare l’esaltazione di una fede cieca (e quindi più pura) contro una fede appagata di visione miracolistica (e quindi mediocre). Nemmeno rappresenta un deprezzamento per l’esperienza di Tommaso, e dei testimoni oculari in genere. [Piuttosto] una risposta può venire considerando come Giovanni, collocando un macarismo ad epilogo del suo Libro, recuperi abilmente la tradizione per cui un libro, in quanto condensa un patrimonio di esperienza vissuta e funge da strumento di comunicazione tra le generazioni, va considerato come una vera e propria fortuna. […] La fortuna dei lettori/uditori non contemporanei non starà nel contenuto quantitativo del Libro, che è materialmente parziale e più limitato rispetto all’evento. […] Ma questa forma della fede si rivela tuttavia a propria volta singolarmente “felice” per le seguenti ragioni: 1/ è fede necessariamente ancorata alla mediazione kerygmatico-testimoniale, che cioè dipende da una testimonianza – proprio come la fede degli stessi testimoni oculari. […] Per tutte le generazioni successive a quella dei testi oculari la gerarchia che prevede il primato della parola nella fondazione della fede non si limita più ad un’affermazione di principio, ma diventa una necessità, un a priori di fatto, che trova nella forma dei “segni scritti” l’adeguata mediazione per la fede che “non vede”. 2/ Questo kerygma specificamente testimoniale chiede e sollecita un ascolto che, lungi dall’essere cieco, intende piuttosto “far vedere” e “insegnare come vedere”. [Infatti] mentre si fa ascoltare come testimonianza verbale scritta, il Libro fa vedere sia ciò che i testi oculari hanno potuto vedere (il contenuto cristologico della rivelazione), sia come essi abbiano potuto farlo (il loro cammino di fede)». Dunque alla domanda “Si può davvero oggi incontrare il Signore?” i testi neotestamentari rispondono risolutamente di sì, anzi in maniera ancora più “beata”/fortunata/facilitata che i testimoni oculari.
Il cammino del discepolato quindi non trova oggi un’interruzione in partenza, per il fatto che oggi visioni, teofanie o rivelazioni particolari sembrino essere assenti dal palcoscenico della storia. Anzi, il fondamento per tale percorso sembra essere quello del primato della Parola… Il cammino di relazione col Signore nasce infatti dal nostro imbatterci in quella sua Parola, in quella sua iniziativa libera e gratuita di farsi incontrare, di farsi conoscere, di farsi prossimo… L’iniziativa dunque è sua… e per questo è per tutti: perché non è da conquistare, ma è donata!
Certo è che di fronte a tale donazione l’uomo si sente inadeguato, non all’altezza, non degno, nelle forme più svariate: “Per me capire la Parola di Dio è troppo difficile”, “Viverla poi…”, “Io sono troppo giovane”, “Io troppo vecchio”, “Io troppo peccatore”, “Io troppo imbranato”… Ma spesso non ci si rende conto che dietro a queste nostre obiezioni – pur vere da un certo punto di vista – in realtà si nasconde un frustrato desiderio di onnipotenza, che si presenta sotto il suo contrario: la rassegnazione. Siccome non posso essere dio, siccome non posso essere l’uomo/la donna ideale che ho in testa, siccome non posso essere il discepolo ideale, allora mi tiro indietro, mi tiro fuori da questo circolo, me ne sto per i fatti miei (e che gli altri vedano che me ne vado!)… O tutto o niente, o perfetto o distrutto, o dio o nulla… Questo è l’uomo… Questi siamo noi… quando cadiamo nella falsa illusione che essere amati voglia dire essere amabili! E siccome ci consideriamo non amabili, non crediamo sia possibile essere amati…
E invece ecco la riconferma del Signore, presente – come visto – in tutte e tre le letture… L’elemento forse più difficile di tutto il percorso del discepolato: riconoscersi amati/graziati/perdonati. All’uomo che non si sente amabile, che non si perdona la sua inadeguatezza e per questo vorrebbe andarsene, sparire, magari orchestrando una sceneggiata che almeno per un momento lo rimetta al centro dell’attenzione, Dio risponde con l’inaspettato sguardo di chi problemi per la nostra inadeguatezza proprio non se ne fa… Anzi… ci si era fatto prossimo quando noi eravamo ancora inconsapevoli della nostra inadeguatezza… e Lui l’aveva già contemplata, accettata, amata… (forse ne aveva anche maternamente sorriso).
È solo dentro a questo orizzonte che prende senso il decider-si del discepolo: solo in questo abbraccio che “tutto-accoglie” si può arrivare (anzi si deve arrivare) a dire: «Eccomi, manda me!», si deve arrivare cioè a giocarsi la vita…
Purtroppo invece a noi capita molto più spesso di non dar credito a questo orizzonte e di arenarci in qualcuno di questi momenti e non venirne fuori più: perché non crediamo sia possibile oggi un farsi prossimo del Signore, oppure perché troppo velocemente arriviamo a sentirci perdonati (nel giusto), senza passare dal rendersi conto purificatore che “Io non sono dio!”, oppure perché non crediamo nell’amore altrui che va ben al di là della nostra amabilità, oppure perché in ogni caso ci fa troppa paura dire «Eccomi, manda me!»…
In ogni caso, dietro ad ogni nostra interruzione sta sempre un’errata considerazione di chi sia Dio e dunque di chi sia l’uomo.

venerdì 23 maggio 2008

Chi mangia di me vivrà per me

Io darò la mia carne per la vita del mondo
La domenica del “Corpo del Signore” chiude simbolicamente le “feste” pasquali del Dio della nostra salvezza, perché il dono dello Spirito della Pentecoste, che ci ha rivelato il misterioso abbraccio Trinitario in cui viviamo, ci lascia in dono questo cibo essenziale alla “sopravvivenza”, nel cammino difficile della storia in cui noi ancora viviamo, dopo che Gesù ci ha lasciato ‑ prima che ritorni.
Giovanni non racconta l’istituzione dell’Eucaristia, già ampiamente spiegata negli altri testi dei vangeli e di Paolo, che giravano nelle prime comunità cristiane. Al suo posto mette la lavanda dei piedi, come gesto in cui condensa il senso dell’esistenza di Gesù e questo lungo capitolo 6°, nel quale il Maestro stesso spiega “l’eucaristia” (come noi diremmo). In questo serrata discussione con i giudei, ove la provocazione è evidente, per smuovere l’attenzione dei discepoli e di quelli che sono disposti ad ascoltarlo, fino ad oggi, Gesù non espone una proposta religiosa, una formula di preghiera o un rito simbolico riservato ai discepoli privilegiati – ma il senso e la salvezza del mondo intero. Non usa il termine “corpo”, come negli altri testi eucaristici del N. T., ma ‘carne e sangue’, ad indicare ancora più crudamente la dimensione fisica, biologica, corruttibile e precaria dell’ “animale” umano trafitto, che deve essere assolutamente “mangiato”! Il riferimento all’agnello pasquale richiama il retroterra simbolico antico dell’avventura fondante per Israele: la liberazione dalla schiavitù egiziana e l’errabonda parabola del deserto… allargata oramai alla salvezza dell’umanità intera. Solo attraverso e dentro questa umanità di carne donata e mangiata “scandalosamente” si apre la possibilità della salvezza eterna (cioè totale, storica, presente tra noi quaggiù ‑ e futura, che duri per sempre!). Con una ripetizione martellante dei termini “mangiare/bere carne/sangue e vita vera/eterna, si stringe un legame fisico tra di loro tanto indissolubile che esclude ogni possibilità di interpretazione psicologica o spirituale o sentimentale.
In una storia assetata senz’acqua, … c’è un segreto nel cuore dell’uomo
Nella terra arida, luogo di serpenti velenosi e scorpioni… è capitato il miracolo che indica presente la tenerezza di Dio che accudisce il suo popolo oppresso e disperato. Dalla roccia durissima è scaturita l’acqua, e in un deserto grande e spaventoso è arrivata la manna sconosciuta alle generazioni precedenti… Senza chiudere gli occhi sulla sofferenza e sul dolore, la sete e la fame, il lamento e la ribellione che segnano di lacrime e sangue la storia del popolo e dell’umanità tutta, la lettura che ostinatamente Israele si propone della propria vicenda storica è sempre aperta alla speranza: “ricordati!”... Tutto il cammino che il Signore ci fa fare nel deserto della vita ha questo scopo: perché si sveli a noi stessi “cosa abbiamo in cuore”. Non è per umiliarci o farci soffrire che instancabilmente Dio si occupa dell’uomo, nonostante la durezza della sua “cervice”. Ma lo accompagna per fargli scoprire il segreto per divenire “umani”, cioè per superare la soglia dell’animalità della carne che vuole sopravvivere ad ogni costo ed incattivisce perché non lo può! È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che vi ho dette sono spirito e vita (63).
Non di solo pane vive l’uomo… ma di ogni Parola che esce dalla bocca di Dio.
La Parola che si rivolge ad un volto” per farlo rispecchiare in sé , per farlo crescere in ciò che lui ha già nel cuore, è l’unica risposta adeguata all’anelito insopprimibile di libertà e amore che c’è nel cuore dell’uomo. Dunque, solo la “parola” di Colui che l’ha creato a propria immagine e somiglianza, lo può liberare. Ogni altro legame è costituzionalmente “servile”, al di là delle buone intenzioni, delle dipendenze educative, delle regressioni insuperabili … Tutto l’alveo delle relazioni nelle quali siamo intessuti fin dal ventre della madre, che modella la nostra vita affettiva, economica, politica (e ci fa uomini) è intossicato dai serpenti avvelenati e dagli scorpioni, dai quali già i nostri padri sono stati contagiati. Il suo motore è la competizione drammatica per la vita, che oppone carne a carne, in una guerra all’ultimo sangue, ove il più forte sopravvive mangiandosi il più debole… mors tua, vita mea: la tua morte è la mia sopravvivenza!
Il rovesciamento eucaristico
Le religioni hanno tentato di assumere e trasfigurare questa dinamica tendenzialmente omicida nel rito del “sacrificio”, per cui si offre a Dio quanto si ha di più caro e prezioso per sé e per il proprio futuro (sostentamento e prosecuzione della vita… come i primogeniti, le vergini… e poi, in sostituzione, gli animali…), come capri espiatori! Ma proprio perché ancora piccoli e indifesi… sono le vittime scelte dal potere sacro del sacerdote. La proposta di Gesù è tanto eversiva che genera continui fraintendimenti negli ascoltatori… ma soprattutto è tanto radicale e coinvolgente che provoca repulsione e rifiuto. Eppure questo è il centro di fuoco del messaggio e della vita di Gesù. Il senso della sua esistenza e la sua dinamica esplosiva di salvezza. Il sacerdote e la vittima in lui si identificano, eliminando ogni violenza sull’altro: solo sé stessi si può offrire in sacrificio! solo di sé si può dare da mangiare la carne e da bere il sangue. Non facendo deliberatamente del male a sé stessi, ma assorbendo su di sé il male del mondo, opponendosi al suo potere oppressivo e menzognero, per fermarne il contagio. Questo è l’unico modo non violento che ci è possibile. A partire da Gesù, il dono della propria vita per nutrire gli altri, diventa il cuore del cristianesimo: il “servizio” di amore che ci ha donato per contagiarne il mondo: Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me.
Questa è l’arma segreta invincibile e necessaria: se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. Nel buio della nostra storia anonima, lenta e faticosa, è questo l’estremo rimedio ‑ decisivo per vincere la competizione, la contesa, la sopraffazione che avvelenano la vita degli uomini, con la connivenza di ogni potere ‑ religioso compreso. Ogni autorità o potere o interesse, infatti, che non accettasse logica, vuol dire che è disposto ad autodistruggersi, perché crede più nella forza inerme dell’amore che nella forza armata del potere. Ma è l’unica strada per fare di tutta l’umanità un solo corpo, come dice Paolo.
Questo linguaggio è duro!
…infatti questa è la versione eucaristica del nocciolo duro del messaggio evangelico: Chi cercherà di salvare la propria vita la perderà, chi invece la perde la salverà (Lc 17,33). L’unico punto su cui Gesù non può cedere e si gioca l’abbandono dei discepoli stessi: volete andarvene anche voi? È ancora Pietro che ci offre l’uscita che mette insieme la debolezza tonta che ci accumuna a tutti, con la consapevolezza di sapersi chiamati per grazia: Da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna!
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