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sabato 10 aprile 2010

Beati quelli che pur non avendo visto hanno creduto!

La liturgia di questo tempo dopo Pasqua ci introduce in un atmosfera di gesti e di parole, di sentimenti e di comportamenti del Signore “risorto” che ci fanno intravvedere un’umanità calda e misericordiosa, premurosa e provocatoria, tutta intenta a far maturare nella fede debole e troppo umana dei discepoli, impaurirti e complessati dai propri sensi di colpa, il salto di qualità verso una fede matura, animata dal suo “Spirito” – come Gesù aveva loro promesso, uno volta arrivato a questa sua compiutezza: Io sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi! Nella tenerezza misteriosa e dolcemente imperturbabile, del crocifisso risorto, promana ad ogni incontro con i discepoli, il “perdono” e la “pace” e ritrovano speranza le grandi promesse deluse della storia dell’umanità.
“Egli entrò nel cenacolo chiuso, come un vero spirito; la densità della sua carne risorta era diversa dalla densità della carne non risorta. I più puri e ingenui accettano l’apparizione del Risorto semplicemente come un dato di fatto; i più complicati lo obbligano a un’opera di rivelazione. Chi non si aspettava d’incontrarlo lungo la strada lo prende per un viandante qualunque. Tommaso, che invece l’attendeva suo malgrado, gli chiede la più elementare delle prove, quella di toccare le piaghe delle mani e del costato: ‘Non crederò se non metterò la mano nelle sue piaghe’. E Cristo appare nel Cenacolo con la sua carne risorta, Tommaso corre a toccarlo sicuro di sé, incontra la carne piagata, sfiora le ferite con le dita; crede a ciò che vede, a ciò che tocca. Aveva rifiutato la testimonianza, deluso la fiducia degli altri, adesso crede perché tocca, perché vede. Cristo prova una pena profonda per il discepolo incredulo, con dolore accetta un dato di fatto: Tommaso non crede allo spirito, crede alla materia; non alla verità sempre enunciata, ma alla testimonianza dei sensi; non ciò che è, ‘è’, ma ciò che sembra ‘è’!(Vannucci).

Non è tanto difficile, infatti, la prima fede – quella dell’adesione mentale ad una dottrina affascinante o al potere taumaturgico del messia di Nazareth. Il difficile è la seconda fede – quella consumata dalla delusione dell’impossibile, quando tutto è finito nel fallimento e nella morte. La fede, chiamata alla fiducia e allo sbilanciamento interiore nello spirito, a credere a chi che non si vede e non si tocca – la fede che continua ad affidarsi pur, nel tunnel dell’incredulità e del non senso …
L’esperienza di Tommaso è diventata così popolare e paradigmatica perché il buon senso istintivo della gente ci ha visto il “piccolo uomo” che tutti abbiamo dentro, quello che vede solo ciò che si vede, programma la sua vita su ciò che rende e … dopo, è già abbastanza stanco da non aver tempo da perdere per indagare oltre... Oltre! – dove solo i poeti e gli innamorati, i mistici e gli insoddisfatti del realismo di questo mondo (i poveri – guarda caso!), rimangono sempre ad aspettare cose che non ci sono ancora... Il “!piccolo uomo” è abituato a idee solide: ciò che gli occhi vedono e le mani toccano, perché solo questo è vero. Cristo lo ammonisce: “Tommaso, tu credi a ciò che hai veduto! Beato chi crederà a ciò che non ha visto!” (Gv 20, 29). Cioè: beato chi si applica ad una conoscenza fuori di ogni forma e misura corporea; beato chi vede con gli occhi dello spirito e non solo con quelli della materia!
Sta di fatto che in genere noi evitiamo volentieri ogni sforzo ‘spirituale’ (fondato o riferito all’immateriale!), perché credere a ciò che si vede e che corrisponde al nostro controllo è più facile che credere a ciò che s’intuisce soltanto e ci spinge oltre, in territori e situazioni non ancora sperimentati. Come si vede bene nell’istinto degli animali e dei bambini. Solo ripetere ciò che già si è visto e verificato sembra sicuro! Ma è solo ripetitivo, rassicurante, ma senza fermento di futuro. Entrare in un piano di aderenza fisica e psichica alle faccende e vicende quotidiane, controllate più o meno dalla ragione e dal buon senso, sembra più facile che inoltrarsi in un piano di aderenza spirituale alla “eccedenza” del vangelo e delle sue proposte sconvolgenti di approccio al diverso, all’imponderabile, al misterioso, a tutto ciò, insomma, che contiene una minaccia di rischio di sofferenza o di morte. L’esperienza di gran parte degli uomini (e di gran parte della nostra vita) si accontenta della “razionalità della carne” – non è molto provocata o coinvolta dalle sollecitazioni dello ‘spirito’, che pure ci appaiono in qualche momento come barlumi intermittenti e flebili (non cogenti) che illuminano per un secondo quali sarebbero le strade e le occasioni ove è promessa una maggior pienezza e coerenza della fede! La vita, giorno dopo giorno, ce ne presenta un’infinità, di queste occasioni o provocazioni, ad una risposta gratuita, ad un sorriso o ad un consenso previo, donato prima di ogni misura. Ma soltanto una litania di continui “affidamenti” e successive consegne interiori rendono possibile questa attitudine d’animo “spirituale”.
Ecco il campo interiore dove si coltiva … lo spirito – cioè l’amore trasparente, gratuito, capace di andare al di là degli psicosomatismi egocentrici, dai quali nel comportamento quotidiano tutto è vagliato e integrato secondo le proprie misure di carne paurosa. Lo spirito é amore! cioè relazione – e per dargli spazio occorre imparare a balbettare questo suo linguaggio sconnesso dai nostri automatismi, quindi ostico, all’inizio, per lo sforzo di uno sbilanciamento oltre abitudini e paure. Perché richiede di elaborare una consolidata attitudine interiore di apertura, di benevolenza, di spendimento generoso. Proprio questo è “agire nello spirito” – cioè entrare nell’orbita di oblatività verso l’altro. Invece che centrarsi sempre su di sé, aprirsi – per amore – cioè per far crescere l’altro! E allora è ovvio che occorre un volto di riferimento, una persona … un amico, che abbia già fatto la strada, che sia la strada stessa – su cui convergere i sentimenti, le attese, le fatiche, le speranze, i fallimenti… cioè tutto il nuovo (ancora maldestro) sistema copernicano “evangelico” o “agapico” (diremmo, nel nostro sistema culturale). E così, finalmente, mettere gradualmente e faticosamente al centro della galassia della propria vita l’amore all’altro – l’amore oblativo, non egocentrico.
Per anni Gesù aveva istruito i suoi discepoli cercando di preparare cuore e mente ai misteri del Regno – che sono i misteri dell’amore misericordioso rivelati ai piccoli e semplici, e nascosti ai grandi e ai sapienti. Adesso, ancora, impauriti nel cenacolo, incantati da una visione incredibile, i discepoli gioivano di aver ancora vicino il corpo che amavano, senza voler vedere o intendere altro. Sono trasecolati da questo corpo che avevano visto senza vita e deposto nel sepolcro – adesso tornato glorioso alla vita. Non son capaci di accogliere il vero messaggio della risurrezione che ora stava davanti a loro. Il lungo insegnamento degli anni terreni naufraga davanti al fatto concreto che li acceca, poiché per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore…! (Lc 24,41). Ecco la tentazione che li chiude in una esperienza storica, necessaria, ma, come tale, transitoria! “Beato chi crede senza aver veduto”, perché sennò la sua fede è grande come ciò che tocca, e dura fin quando e quanto è possibile vedere coi propri occhi e toccare con le proprie mani e sentire con i propri sentimenti… È ancora una fede troppo “carnale!”
Credere senza vedere è possibile non tanto attraverso un intimo convincimento della mente (che ne sarà piuttosto la conseguenza), ma attraverso un affidamento strappato alle proprie viscere, che accoglie l’insegnamento che Tommaso rifiuta. La testimonianza dello Spirito non avviene sul piano della materia concreta, ma nell’attuarsi cosciente di uno stato spirituale che cambia gradualmente ma radicalmente la propria situazione interiore … :“.. ricevete lo Spirito Santo!”. Nello Spirito Santo Cristo vuole continuare la sua discesa negli inferi della coscienza umana, per convertire fino all’ultima fibra la pusillanime paurosa carne umana nella sua capacità di amare, perdonare ed effondere la pace. Si comunica così ai suoi discepoli presenti e futuri, come amore – perché l’amore gratuito è fatto così! – è gratuito è necessario dal di dentro, insieme. Nasce dalla spontaneità della voglia di bene e non è la “necessaria” conseguenza delle appartenenze carnali o psichiche. É una scelta e una grazia, un intimo dovere impellente di non poter fare diverso e insieme un dono inesigibile. E quando ti ha preso dentro … è la morte, non poterlo essere! È, infatti, la memoria rinnovata nella nostra storia dell’avventura liberatrice di Gesù, crocifisso risorto.

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