In questa quarta domenica di Pasqua, la Chiesa ci offre un vangelo brevissimo, ma intensissimo. Siamo al capitolo 10 del vangelo di Giovanni: Gesù è a Gerusalemme in occasione di una festa ebraica e mentre passeggia nel Tempio, viene interpellato dai Giudei – coi quali aveva già avuto diversi scontri: «Fino a quando terrai l’animo nostro in sospeso? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente». Gesù – quasi sconsolato – risponde: «Ve l’ho detto e non credete… ma voi non credete, perché non siete mie pecore. Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io dò loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».
Ecco… tutto il vangelo odierno è contenuto in queste potentissime frasi… Infatti dopo le prime tre domeniche di Pasqua, in cui il vangelo si soffermava sui racconti di apparizione, la Chiesa vuole ora farci fare un passettino ulteriore: mentre là infatti raccontava l’evento e contemporaneamente lo spiegava, qui prende una piccola distanza dall’evento e prova a concentrarsi sul senso. Come succede con le persone che amiamo: quando le abbiamo vicine le viviamo e le sentiamo, ma per vederle con occhi nuovi serve una distanza nuova. Così è il vangelo (che non a caso è la buona notizia che parla di una persona – anzi di tre): Giovanni infatti fa dire queste parole (che a noi servono per tentare di capire la risurrezione dei morti) a Gesù quando – secondo la cronologia evangelica – egli è ancora “vivo e vegeto”. In realtà però, quando Giovanni scrive, la prima comunità cristiana ha già vissuto “la distanza nuova” della morte e risurrezione che permette appunto di vedere Gesù con occhi nuovi. E dentro a questo gioco strabiliante di passato, presente e futuro che si intrecciano in questo testo, emergono parole potentissime che l’evangelista vuole lasciare alla sua chiesa: alle sue pecore il Signore dà la vita eterna… non andranno perdute in eterno… nessuno le strapperà dalla sua mano… e se questo non bastasse: «Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre»! Quasi a riaffermare in maniera ritornante e sempre più incontrastabile quanto aveva detto qualche versetto prima: «Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza».
Ecco il punto che Gesù va a toccare, il centro del suo “essere venuto”, lo snodo dove si vede se una proposta, una vicenda, una libertà è degna di essere ascoltata o va a cadere nel vociare confuso del mercato umano: il problema della vita e della morte; della vita che rimane; della morte che non annienta… In base a quello che si dice su questo, a questo livello, dove non c’è possibilità di gradazione, ma c’è il tutto (la vita) o il niente (la morte), una proposta risulta degna di ascolto o meno; e Gesù lo sa. Non basta dire parole vere; non basta fare segni che tolgono il problema contingente delle vicende che si stan vivendo; non basta nemmeno fare tutto questo con autorità… L’uomo valuta ciò che sente in base a quanto questo risponde al problema della vita e della morte. Oggi infatti la mediocrità in cui spesso siamo gettati è dovuta al fatto che nessuna proposta ha la pretesa di dire qualcosa che vinca la morte, che valga al di là della morte… non i soldi, non il successo, non la salute, non gli amori facili… e infatti la nostra vita si riempie di tutte queste cose, per soffocare dentro l’anelito che dice: “Tutto questo finisce sottoterra”… Non crediamo più che ci sia qualcosa che regga il confronto con la morte, nessuna proposta pare all’altezza, tutte in qualche modo sono state screditate… Tanto vale allora vivere senza pensare che si deve morire… E tutta la nostra economia, la nostra politica, il nostro quotidiano pensare, parlare, scegliere, va in questo senso (spesso)… Perché morire fa paura… e allora meglio non pensarci… anche perché nessuno – come dicevamo – in proposito, sembra riuscire a tenere testa al problema del morire (e del rimanere morti, che è il vero dramma).
Ecco, Gesù in questo senso sfida questo indicibile, questo invalicabile confine del nulla, questo straziante destino che fa ammutolire tutti: Lui parla e ha il coraggio di dire che la sua proposta tiene testa anche alla morte, per questo è vera e va ascoltata, perché permette di abitare davvero la tragicità della drammatica umana.
Stando al vangelo sembra che tutto giri intorno al fatto di essere “sue pecore”… E la domanda che sorge spontanea è evidentemente quella che chiede: “Come si fa a essere sue pecore?”. Ecco il punto… il problema vero a cui il brano conduce… essere “sue pecore”…
L’immagine è fin troppo inflazionata per lasciar correre con troppa disinvoltura ciò che ci salta in mente con immediatezza: “essere sue pecore è andare a messa”, “è comportarsi da bravi cristiani”, “è non fare il male”… Che non sono cose false o sbagliate… ma bisognerebbe anche saper dire cosa vuol dire andare a messa e vivere una vita eucaristica… cosa vuol dire essere “bravi cristiani” (formula curiosa, perché un cristiano non ha bisogno di essere bravo… dire “cristiano” è infatti già dire molto più che “bravo”…)…
Piuttosto – stando al testo – pare che l’essere sue pecore sia legato a due caratteristiche: ascoltare il pastore e seguirlo. E poco prima si diceva anche: conoscerlo.
Ma non nel senso con cui noi solitamente affrontiamo il problema religioso, per il quale di fronte al problema della salvezza (del salvarsi l’anima), sale pressante la domanda sul da farsi e le indicazioni che si possono racimolare si trasformano in precetti morali, itinerari spirituali, dogmi da credere… sotto questo meccanismo è fin troppo evidente la nostra ritornante mentalità mercantile: Cosa devo fare per pagarmi la salvezza? Credere questo, non fare questo, celebrare questa pratica… e sono apposto… Come se il problema della salvezza sia qualcosa di slegato da me, da chi sono io veramente. È il problema dell’anima, è il problema dell’aldilà. Non c’entra nulla con la mia vita, con ciò che amo, spero, temo… Più o meno come portare la macchina a far la revisione… E il tono della domanda che i Giudei gli rivolgono è molto chiara in questo senso: «Fino a quando terrai l’animo nostro in sospeso? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente».
Lette in quest’ottica le parole di Gesù sull’essere sue pecore han veramente poco da dirci… aggiungono forse qualche prescrizione, indicazione, orientamento…
Ma questo non è Gesù, questo non è il vangelo… questo slegare vita e morte, anima e corpo, aldiqua e aldilà è un germe che si è insinuato un po’ dopo nella storia della Chiesa e dell’umanità… Per Gesù invece l’aldiqua non va vissuto per l’aldilà. Le due realtà non sono separate. Quello che sarò è quello che sono. Quello che costruirò dentro come consistenza e dilatazione umana, sarò io (da viva e da morta).
E questa “consistenza”, questa “vita che rimane in eterno”, la si scopre mettendosi dietro a lui, come buon pastore… di nuovo, non perché abbia chissà quali consigli, o nuovi precetti, o parole che – limitando la nostra natura umana peccaminosa – ci evitino l’inferno… Ma perché ascoltarlo, seguirlo, conoscerlo, vuol dire ripercorrere la vicenda del darsi storico della sua libertà (chi lui ha deciso di essere) e scoprire che il suo “segreto” per la Vita è stato perderla… non in maniera mortificante e autolesionistica, repressiva di sé e della sua umanità, ma perché affetto da “troppo amore”…
Ecco… chi si fa convincere e contagiare da questa malattia del “troppo amore” è una sua pecora a cui è promessa la vita che rimane e un abbraccio così forte nelle mani del Padre che nessuno potrà strapparlo.
E dentro a una logica così non c’è spazio per dire: beh, allora, quello là è fuori da questo abbraccio… perché se fosse solo un credo, beh, chi non crede è fuori; se fosse solo una norma, beh, chi non la segue è fuori… ma siccome è una “malattia” che viaggia per contagio, quella del lasciarsi toccare dentro dal troppo dell’amore, beh allora è davvero per tutti. E il compito del cristiano è fin troppo chiaramente evidenziato… contagiare, contagiare, contagiare… senza paura di essere a volte inadeguati, pasticcioni, infelici e imbranati nel proporsi… senza paura addirittura di tradire quello stesso amore che si va contagiando… perché il ricircolo dell’amore che il Signore non ha mai interrotto (né da vivo, né da morente, né da risorto) è nuovamente sempre lì da ri-attingere. Per questo bisogna continuamente seguirlo senza pensare ad un certo punto di essere noi i pastori… perché quando la storia fa tremare d’angoscia le nostre viscere e la paura blocca i nostri canali dell’amore, allora anche noi – magari cristiani da sempre – abbiamo bisogno di tornare a farci contagiare da Lui… fonte inesauribile dell’amore che si commuove dentro…
1 commento:
Grazie. Per me non esiste alcun "fare", alcuna "regola", alcun "comportamento" se non un essere, nel bene e soprattutto nel male con LUI. Attraverso la SUA Parola, che si contorce dentro te e che spesso si trasforma in un vuoto interiore.... Un vuoto interiore da riempire. E' qui che si gioca la nostra vita proprio nel riempire questo vuoto, che come citi bene tu lo riempiamo di tanto e di tante "cose", poco di Amore per LUI. Grazie ancora, è non sentirsi soli.
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