Il brano di vangelo che la Chiesa ci propone per questa quindicesima domenica del tempo ordinario, è il famosissimo dialogo tra Gesù e un dottore della Legge, nel quale è inclusa la parabola – cosiddetta – del buon samaritano.
Data la notorietà del testo, il rischio da cui immediatamente guardarsi è quello di darne per scontato il contenuto, riducendone magari il senso ad una bonaria esortazione ad essere un po’ più buoni – che purtroppo è ciò che spesso si pensa della proposta evangelica…
In realtà – a ben guardare – già l’incipit di questo dialogo, colloca tutta la questione in un contesto ben preciso e per niente banale: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». In gioco c’è, quindi, non tanto o non semplicemente la richiesta di un buon consiglio per il quieto vivere, ma la domanda delle domande: “Cosa devo fare per ereditare la vita eterna?”, che – detto in termini a noi un po’ più familiari – sarebbe come chiedere: “Maestro, qual è il senso della vita?”, “Cos’è che le restituisce una compiutezza?”, “Come si fa ad arrivare sul letto di morte, guardarsi indietro, ed essere contenti della vita che si è condotta?”… Quello che i nostri ragazzi, un po’ brutalmente sintetizzano nel “Come si fa ad essere felici? E ad esserlo per sempre?”…
Il problema in gioco, dunque, non è una mera questione teorica fra teologi (Gesù e il dottore della Legge), ma è il problema dei problemi, quello contro cui ogni uomo (e donna) che nasce su questa terra inevitabilmente si imbatte, senza scrollarselo mai di dosso per tutta la vita (anche quando cerca di far finta di niente… o di scordarselo): “Come si fa ad avere la vita oltre la morte?”. «Una domanda curiosa, perché sembra sottintendere un certo diritto acquisito ad averla (è naturale, mi spetta, come a un figlio l’eredità!) ma anche una trepidazione misteriosa (quali condizioni per poterla ricevere e usufruirne?). Ci sembra così difficile, arduo, lontano… imprendibile, il senso della vita» [Giuliano].
Eppure… per la risposta (apparentemente) così difficile alla questione delle questioni, Gesù non fa altro che rimandare a ciò che “da sempre” si sapeva, perché già contenuto nella Legge: «“Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?” […]: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso”. […] “Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai”» (in eterno, ovviamente, dato che proprio questo chiedeva la domanda iniziale…).
Ma il dottore delle Legge sa che – nonostante questa risposta non sia per niente inedita, anzi sia molto vicina («è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica», «non è nel cielo, perché tu dica: “Chi salirà per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo?”. Non è di là dal mare, perché tu dica: “Chi attraverserà per noi il mare, per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo?”») – essa appare muta.
«L’uomo sa, dunque, come si dovrebbe amare, ma non ne è capace, come la sua storia infinita dimostra! L’umanità nel suo interminabile cammino verso la pienezza di sé – si è persa, mezza morta nella fatica, nella schiavitù, negli ospedali, nelle guerre, lungo la strada … non riesce più a camminare» [Giuliano].
Ecco il perché della nuova domanda del dottore della Legge… che cerca in questo modo di far tornare a parlare quell’antica legge (che diceva che il senso della vita era l’amore), ma che giaceva dimenticata dai cuori degli uomini: «E chi è mio prossimo?».
Ancora una volta Gesù non risponde direttamente, ma racconta una parabola: la storia di un uomo che «scendeva da Gerusalemme a Gèrico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto». «Per caso, un sacerdote [un prete – per fare il parallelo coi giorni nostri] scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levìta [un seminarista], giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un Samaritano [un rumeno – per intenderci – sempre col nostro linguaggio di oggi…], che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo [letteralmente “nel tutto accogli”] e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore [al tutti accogli], dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno».
Le tematiche sfiorate (come attraverso rapide pennellate) da Gesù in questa storia sono molte e – come aiuta a vedere il parallelismo col nostro mondo odierno messo tra parentesi quadra – anche molto provocatorie: c’è infatti la forte critica ad una religiosità che antepone le regole al volto dell’altro (il sacerdote / il levita); c’è la curiosa audacia per cui si prende a modello un eterodosso malvisto dalla sensibilità culturale del tempo (sacerdote – levita / samaritano); c’è la possibile identificazione di Gesù col malcapitato aggredito dai briganti (quasi che qui Gesù raccontasse la sua autobiografia) o – quella più evidente – col samaritano stesso… ma al di là di tutti questi possibili sviluppi del discorso (fondamentali, ma non qui percorribili, se non perché poi tutti ri-com-presi dal nucleo del discorso, perché tutti lì convergono…), il centro rimane la domanda finale di Gesù, col suo ribaltamento della problematica iniziale del dottore della Legge: «Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?».
Ecco la chiave di lettura della realtà propria di Gesù: non tanto “Chi è mio prossimo?”, quanto “il farsi prossimo degli altri”, la “prossimità” come colonna vertebrale dell’esistenza. Questa è la sua risposta!
Ecco infatti (ripresa – la tematica del) l’autobiografia di Gesù: «All’umanità ferita, mezzomorta, lungo il suo millenario cammino tante volte interrotto, ormai senza meta… Dio è venuto a “farsi prossimo”, in Gesù. Una prossimità nata dalle viscere di misericordia del nostro Dio… La prossimità non è uno stato misurabile in maggiore o minore distanza ideologica affettiva razziale religiosa politica… Prossimità è aver compassione – smuoversi nelle viscere “farsi vicino” a chi è lontano, per l’urgenza del cuore. È questa la storia “cristiana” della salvezza: Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna (Gv 3,16). Dunque, c’è davvero un’eredità di “vita eterna” da accogliere, nel viaggio di avvicinamento o “approssimazione” di Gesù a noi, lungo le nostre strade, per vedere come lui agisce e imparare da lui come ci si comporta! E allora si capisce bene “chi è il mio prossimo!” e qual è la vera soluzione per avere in eredità la vita eterna! È scritto in questa parabola: è la sua vita! Perché il prossimo è Gesù – ed esser suo discepolo vuol dire farsi prossimo come lui, ad ogni uomo, in sua memoria e con la forza del suo Spirito, che ci ha infuso nel cuore – come un gemito di invocazione di soccorso» [Giuliano].
Ecco il nuovo nome della Chiesa (e di ciascun cristiano): il “tutti accoglie”!
Con l’inevitabile presa di coscienza dello scarto tra una realtà spesso divisoria (le norme di purità dividono puri e impuri, peccatori e giusti; gli stati di vita dividono tra con-sacrati e non, abilitati a Dio o no… ecc… ecc... ecc… tutte cose necessarie, deve accadere così, ma qualcuno ci deve piangere), cioè inevitabilmente discriminante – che è una parola terribile, perché ha una radice semantica che suggerisce che di là ci sono i criminali (!)… lo scarto con la prossimità, l’onniaccoglienza, l’amore, che invece quelle divisioni, le supera… Ecco la critica – non poi così velata – che Gesù nella parabola porta al formalismo, legalismo, moralismo religioso – germe che purtroppo non infettava solo Israele, ma si è diffuso anche nel “tutti accoglie”, che doveva essere la Chiesa… o che è la Chiesa… perché se il protagonista è un samaritano, vuol dire proprio che, anche là dove non te lo aspetti (più), invece il germoglio evangelico può spuntare… e nella Chiesa – seppur spesso così ancorata a fare il “tutti divide” (credenti/atei; cristiani/non cristiani; cattolici/ non cattolici; chierici/laici; santi/peccatori; sposati/separati; etero/omosessuali; maschi/femmine…) – ci sono davvero persone e luoghi che “tutti accolgono”!
E infine, viene in mente la domanda che i servi di Namaan gli posero dopo che Eliseo gli aveva suggerito cosa fare per guarire dalla lebbra e lui se ne era andato sdegnato per la banalità del gesto da compiere (2Re 5,1ss): «Padre mio, se il profeta ti avesse ordinato una gran cosa, non l’avresti forse eseguita?»…
Ecco mi pare la domanda giusta da porsi alla fine di questo testo… Se per “conquistare” la vita eterna ci avessero messo in mano spade e corazze, saremmo (siamo) stati capaci di partire per grandi imprese, grandi avventure, grandi spargimenti di sangue… Siccome invece la “ricetta” è un’altra, spesso ce ne andiamo sdegnati… perché a noi il dio della guerra, del più forte, del più sanguinolento (dove a morire son sempre gli altri, cattivi, ovviamente) “ci” piace di più… Quello invece che “tutti accoglie” e ci chiede di “tutti accogliere”, dà un po’ troppo poco risalto al nostro io – sempre in cerca di affermazione (per illudersi di esserci – di non morire appunto, quindi di avere la vita – eterna) – perché, appunto, al centro mette l’altro… l’inevitabile necessità di “uscire da sé” per farsi prossimo…
Eppure – se vogliamo dare credito a Gesù – e nella vita diverse volte l’abbiamo potuto sperimentare… – la strada per la Vita, il suo senso, la sua pienezza, la sua eternizzazione… è “sprecarla” per gli altri, mettergli l’olio sulle ferite, accudirlo, coccolarlo, consolarlo, farlo crescere… includerlo nel circolo dell’amore che «riconcilia tutte le cose».
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