Le letture che la Chiesa ci propone per questa diciassettesima domenica del Tempo Ordinario, hanno come evidente tematica centrale la preghiera. Innanzitutto il brano tratto dalla Genesi: esso contiene la famosa “contrattazione” tra Dio ed Abramo, riguardo alla sorte di Sodoma e Gomorra. Un dialogo che di primo acchito stride con il volto di Dio proposto da Gesù e tramandato nei Vangeli, perché il risultato finale è quello della distruzione delle due città. Ma tenendo conto del fatto che, nel leggere i testi biblici, non bisogna mai dimenticare che si tratta sempre della rilettura che gli uomini fanno della storia (della salvezza) e non di una “presa diretta” dei fatti così come si sono svolti (dunque che si tratta di un racconto a posteriori della distruzione di Sodoma e Gomorra – cioè di un racconto che a partire dal dato storico della fine di queste città, prova a rileggerlo teologicamente, con una teologia legata alla cultura e mentalità del tempo – che prevedeva un Dio retributivo!), ciò che di questo testo risulta fondamentale non è tanto l’episodio “storico” (anche perché poi – di fatto – quanto sia c’entrato Dio con Sodoma e Gomorra è davvero difficile dirlo), quanto piuttosto la convinzione ad esso soggiacente che con Dio si può parlare! «Il nostro Dio – infatti – non è il Fato, un destino irreversibile, già tutto predestinato, contro il quale ogni domanda o anelito o lacrima è senza senso. È questa la grande scoperta di Abramo, l’uomo collettivo che condensa la sofferenza di tutti i samaritani feriti dalla compassione per gli uomini! Ha scoperto che con Dio si può discutere» [Giuliano].
Un’evidenza (?!) forse, per i più, ma anche una grande chiave orientativa: perché per le nostre orecchie di uomini e donne postmoderni fa una certa differenza sentirsi dire “Con Dio si può parlare/discutere”, rispetto al più tradizionale “Si può pregare Dio”. Perché, pur essendo frasi che indicano la medesima possibilità di relazione, esse in realtà evocano istintivamente orizzonti diversi. Troppo spesso infatti oggi il “pregare Dio” rimanda al mero “dire preghiere” (che non sono certo da svilire, ma che a volte rimangono formulazioni vuote, quasi magiche, senza che riescano a coinvolgere la libertà personale dell’orante); mentre la notizia che a Dio si può parlare, riesce – oggi – forse a dire meglio la possibilità di coinvolgere realmente la vita con Lui, con Qualcuno dunque che, per definizione era separato, e invece – liberamente – ha deciso di rendersi accessibile, incontrabile, “im-mischiato” con noi: «Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelarsi in persona e manifestare il mistero della sua volontà (cfr. Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, hanno accesso al Padre nello Spirito Santo e sono resi partecipi della divina natura (cfr. Ef 2,18; 2 Pt 1,4). Con questa Rivelazione infatti Dio invisibile (cfr. Col 1,15; 1 Tm 1,17) nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici (cfr. Es 33,11; Gv 15,14-15) e si intrattiene con essi (cfr. Bar 3,38), per invitarli e ammetterli alla comunione con sé» (DV 2).
Si tratta dunque dell’inaudita e insperata possibilità di poter parlare a Dio, di avere una relazione con Lui, di pensarsi in relazione a Lui. Ecco perché i discepoli, che diverse volte avevano visto Gesù vivere (di) questa relazione, ad un certo punto gli fanno la domanda diretta: «Signore, insegnaci a pregare»: perché avevano intuito che il volto di Dio che Gesù – vivendo – mostrava non poteva non andare a con-vertire anche le strutture tradizionali del relazionarsi a Lui. Come scriveva H. Küng infatti «La preghiera è il test pratico della comprensione di Dio: come viene espresso Dio, così viene praticata la preghiera. E come si prega, così viene anche compreso Dio. [Ma anche] Da come uno prega si capisce che uomo egli è» [H. KÜNG, Preghiera e problema di Dio, in G. MORETTO (ed.), Preghiera e filosofia, Morcelliana, Brescia 1991, 42]. E di fatti Gesù, nel “test pratico” della preghiera che dice in risposta alla domanda dei suoi («Quando pregate, dite: “Padre”»), conferma la comprensione di Dio che aveva già fatto emergere nella sua vita e cui manterrà fede fino alla fine («Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito», Lc 23,46) e anche che «uomo egli è».
A chi – dunque – scopre che a Dio si può parlare e chiede come a Lui ci si deve rivolgere, Gesù risponde: “A Dio si parla, chiamandolo Padre”! Dove – appunto – il “chiamarlo Padre” non è il suggerimento su quale titolo sia più appropriato usare, per evitare di toppare col galateo… ma è il dar credito alla possibilità reale di accedere ad una relazione filiale con Lui. “Chiamare Dio col nome di Padre”, cioè rivolgersi a Lui in questo modo, fa già la relazione. Come insegna l’analisi linguistica infatti «È chiaro che la sempre particolare maniera in cui all’inizio della preghiera si fa appello alla relazione tra chi parla e il suo destinatario, stabilisce anche il restante momento della preghiera. Ciò vale chiaramente in particolare per le affermazioni del postulante sulla sua situazione e sui suoi derivanti bisogni e necessità. Il mendicante davanti alle porte delle chiese può formulare questa affermazione in una maniera del tutto anonima, per esempio attraverso un cartello con la scritta “fame”. Lo straniero che cerca una strada, invece, dapprima saluterà i passanti a cui vuole chiedere informazioni, per porre poi la sua domanda, collegandola magari alla dichiarazione di aver perso l’orientamento in una città a lui sconosciuta. Il rivolgere la parola e la descrizione della situazione indica che qui non ci si riferisce a una relazione anonima, neanche a un caso che cade sotto una regola, bensì a una situazione individualmente dipinta, che deve essere affidata a un individuo per la sua soluzione. Molteplici sono le possibilità per la preghiera ad un amico fedele. Qui la descrizione della propria situazione di emergenza può avere il carattere di una comunicazione confidenziale che chi parla non farebbe mai ad un altro; essa si può limitare anche ad allusioni e lascia all’ascoltatore di farsi un’idea personale della situazione presente, sulla base della sua conoscenza della persona e dei rapporti con chi parla. Ma soprattutto in questi casi le affermazioni di chi narra la sua situazione personale saranno sostenute dalla fiducia, che l’amico comprenda ciò che significano per lui le condizioni di vita di cui parla e in quale modo esse dipingano una situazione nella quale egli ha bisogno di aiuto» [dalla mia tesi… sulla preghiera come luogo di accesso a Dio e all’io].
Il chiamare Dio col nome di Padre è allora molto più che imbroccare il titolo esatto con cui rivolgersi a Lui per evitare di farlo irritare, ma è il dar credito a chi ci ha detto che Dio è proprio così e che davvero possiamo costruire con Lui una relazione di figliolanza, di abbandono, di fiducia. Perché tra l’altro – prosegue il vangelo – questo è un Padre che ascolta: «Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto». Ma noi facciamo fatica a crederci… perché tante volte la storia a mostrato che le cose non vanno proprio così… che non è vero che le preghiere sono ascoltate… neanche quelle di fronte alle quali “non c’è santo che tenga”… Come la mettiamo allora con le preghiere di richiesta inesaudite?!? O addirittura con la consapevolezza dell’orante di porre una richiesta che non verrà esaudita? Ha senso pregare per chiedere qualcosa, accettando contemporaneamente l’eventuale non soddisfazione della nostra richiesta?
Mi pare che spesso – parlando di preghiera – ci si incarti un po’ in questi ragionamenti che paiono smentire la logica e dunque fanno cadere un’ombra di sospetto su Dio, sulla nostra relazione con Lui, sulla sua sensatezza… portandoci a rinunciare a pensare troppo (per evitare di non riuscire più ad uscirne) o gettandoci nello sconforto del dubbio e nell’angoscia anti-evangelica, quella cioè per cui la verità non è la buona notizia di un Dio che ci è Padre, ma la cattiva notizia di un dio disinteressato o addirittura inesistente.
Da questo punto di vista le ultime righe del vangelo di oggi, risultano invece illuminanti («Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!), dove «il suggerimento di Gesù di insistere fino alla sfacciataggine (11,8) finisce in un’affermazione curiosa : la bontà del Padre si rivela sollecita e smisurata, ma insieme “da conquistare”, proprio nel dono dello Spirito – “a chi glielo chiede!” A questo si riferiva l’insistenza: chiedete, bussate, cercate… Chiedere lo Spirito al Padre è come essere convinti dell’insufficienza del nostro spirito piccolo, a sbilanciarsi oltre la nostra storia, i nostri confini visibili, l’orizzonte percorribile con il nostro occhio… per aprirsi invece alla gratuità inventiva del suo Amore. Per credere che il suo disegno non è limitato nei miseri dati biografici personali, che ci precedono, o nel conteggio dei giusti che salveranno la città, ma nella forza dello Spirito che, attraverso la nostra ostinata incessante implorazione al Padre, ci impregna del suo Nome e ci immerge nel suo Regno» [Giuliano]. Che era quanto esprimeva anche Bonhoffer nella sua felice intuizione per cui «Dio non esaudisce le nostre domande, ma le sue promesse».
A dire – ancora una volta – che ciò che è implicato nella preghiera non è mai un mero scambio di favori, o di informazioni, o di consolazioni… ma in gioco c’è una relazione vera e propria, come tra una mamma e il suo bimbo, come tra due amici o come tra innamorati, dove – certo – ci sono anche tante cose e parole e situazioni, ma tutto come sostenuto dall’esserci dell’altro e per l’altro. Per questo – nella relazione con Dio (che è la preghiera) – non può non esserci un de-cidersi, un decidere di sé a suo favore, un rompere gli indugi per entrare nell’orizzonte di senso per cui Lui c’è ed è così, senza continuamente tenere un piede dentro e uno fuori, facendo come se ci fosse, ma poi magari non c’è… E questo non perché è una consolante auto illusione, ma perché Gesù, il Figlio che solo conosce il Padre, ce lo ha voluto raccontare (Mt 11,27).
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