Salta all’occhio il fatto che nel corso della storia si siano moltiplicati — e continuino a moltiplicarsi anche oggi — i fondamentalismi. In sostanza si tratta di sistemi di pensiero e di condotta assolutamente imbalsamati, che servono da rifugio. Il fondamentalismo si organizza a partire dalla rigidità di un pensiero unico, all’interno del quale la persona si protegge dalle istanze destabilizzanti (e dalle crisi) in cambio di un certo quietismo esistenziale. Il fondamentalismo non ammette sfumature o ripensamenti, semplicemente perché ha paura e — in concreto — ha paura della verità. Chi si rifugia nel fondamentalismo è una persona che ha paura di mettersi in cammino per cercare la verità. Già «possiede» la verità, già l’ha acquisita e strumentalizzata come mezzo di difesa; perciò vive ogni discussione come un’aggressione personale.
La nostra relazione con la verità non è statica, poiché la Somma Verità è infinita e può sempre essere conosciuta maggiormente; è sempre possibile immergersi di più nelle sue profondità. Ai cristiani, l’apostolo Pietro chiede di essere pronti a «rendere ragione» della loro speranza; vuol dire che la verità su cui fondiamo l’esistenza deve aprirsi al dialogo, alle difficoltà che altri ci mostrano o che le circostanze ci pongono. La verità è sempre «ragionevole», anche qualora io non lo sia, e la sfida consiste nel mantenersi aperti al punto di vista dell’altro, senza fare delle nostre convinzioni una totalità immobile. Dialogo non significa relativismo, ma «logos» che si condivide, ragione che si offre nell’amore, per costruire insieme una realtà ogni volta più liberatrice. In questo circolo virtuoso, il dialogo svela la verità e la verità si nutre di dialogo. L’ascolto attento, il silenzio rispettoso, l’empatia sincera, l’autentico metterci a disposizione dello straniero e dell’altro, sono virtù essenziali da coltivare e trasmettere nel mondo di oggi. Dio stesso ci invita al dialogo, ci chiama e ci convoca attraverso la sua Parola, quella Parola che ha abbandonato ogni nido e riparo per farsi uomo.
Così appaiono tre dimensioni dialogiche, intimamente connesse: una tra la persona e Dio — quella che i cristiani chiamano preghiera — , una degli esseri umani tra loro, e una terza, di dialogo con noi stessi. Attraverso queste tre dimensioni la verità cresce, si consolida, si dilata nel tempo. […] A questo punto dobbiamo chiederci: che cosa intendiamo per verità? Cercare la verità è diverso dal trovare formule per possederla e manipolarla a proprio piacimento.
Il cammino della ricerca impegna la totalità della persona e dell’esistenza. È un cammino che fondamentalmente implica umiltà. Con la piena convinzione che nessuno basta a sé stesso e che è disumanizzante usare gli altri come mezzi per bastare a sé stessi, la ricerca della verità intraprende questo laborioso cammino, spesso artigianale, di un cuore umile che non accetta di saziare la sua sete con acque stagnanti.
Il «possesso» della verità di tipo fondamentalista manca di umiltà: pretende di imporsi sugli altri con un gesto che, in sé e per sé, risulta autodifensivo. La ricerca della verità non placa la sete che suscita. La coscienza della «saggia ignoranza» ci fa ricominciare continuamente il cammino. Una «saggia ignoranza» che, con l’esperienza della vita, diventerà «dotta». Possiamo affermare senza timore che la verità non la si ha, non la si possiede: la si incontra. Per poter essere desiderata, deve cessare di essere quella che si può possedere. La verità si apre, si svela a chi — a sua volta — si apre a lei. La parola verità, precisamente nella sua accezione greca di aletheia, indica ciò che si manifesta, ciò che si svela, ciò che si palesa attraverso un’apparizione miracolosa e gratuita. L’accezione ebraica, al contrario, con il termine emet, unisce il senso del vero a quello di certo, saldo, che non mente né inganna. La verità, quindi, ha una duplice connotazione: è la manifestazione dell’essenza delle cose e delle persone, che nell’aprire la loro intimità ci regalano la certezza della loro autenticità, la prova affidabile che ci invita a credere in loro.
Tale certezza è umile, poiché semplicemente «lascia essere» l’altro nella sua manifestazione, e non lo sottomette alle nostre esigenze o imposizioni. Questa è la prima giustizia che dobbiamo agli altri e a noi stessi: accettare la verità di quel che siamo, dire la verità di ciò che pensiamo. Inoltre, è un atto d’amore. Non si costruisce niente mettendo a tacere o negando la verità. La nostra dolorosa storia politica ha preteso molte volte di imbavagliarla. Molto spesso l’uso di eufemismi verbali ci ha anestetizzati o addormentati di fronte a lei. È, però, giunto il momento di ricongiungere, di gemellare la verità che deve essere proclamata profeticamente con una giustizia autenticamente ristabilita. La giustizia sorge solo quando si chiamano con il loro nome le circostanze in cui ci siamo ingannati e traditi nel nostro destino storico. E facendo questo, compiamo uno dei principali servizi di responsabilità per le prossime generazioni.
La verità non s’incontra mai da sola. Insieme a lei ci sono la bontà e la bellezza. O, per meglio dire, la Verità è buona e bella. «Una verità non del tutto buona nasconde sempre una bontà non vera», diceva un pensatore argentino. Insisto: le tre cose vanno insieme e non è possibile cercare né trovare l’una senza le altre. Una realtà ben diversa dal semplice «possesso della verità» rivendicato dai fondamentalismi: questi ultimi prendono per valide le formule in sé e per sé, svuotate di bontà e bellezza, e cercano di imporsi agli altri con aggressività e violenza, facendo il male e cospirando contro la vita stessa.
Francesco, Vescovo di Roma
(via repubblica.it)
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