Le letture di questa quarta domenica del tempo ordinario non lasciano dubbi interpretativi: c’è una predilezione del Signore per coloro che stanno nella precarietà, in qualsiasi forma essa si presenti! Secondo Sofonia infatti il resto che il Signore si preserva non è una elite morale o religiosa: non si tratta di preservare “il meglio” per attuare una rifondazione del popolo su di esso. Piuttosto l’attestazione della fedeltà eterna di Dio, che è il senso della custodia di un resto, poggia sulla predilezione per il povero: «Lascerò in mezzo a te un popolo umile e povero».
E questa è la stessa prospettiva che si ritrova anche in Paolo. Egli infatti attuando una sorta di metodologia fenomenologica dice che per capire la logica della chiamata di Dio, è necessario guardarsi addosso, guardare al dato della realtà che si dà da vedere. E ciò che esso mostra in modo evidente è che non siamo una elite né intellettuale («non ci sono fra voi molti sapienti dal punto di vista umano»), né politica («non ci sono fra voi molti potenti»), né sociale («non ci sono fra voi molti nobili»). Anzi, esplicitamente Paolo dice che Dio sceglie «quello che per il mondo è stolto, quello che è debole, quello che è ignobile e disprezzato, quello che è nulla».
E il Vangelo insuperabilmente rincara la dose: le beatitudini infatti sono il fremito gioioso che sgorga dal cuore di Dio per l’umanità che vive un’esistenza precaria… Uso questo aggettivo, come sintetico di tutte le “categorie” presentate nel testo matteano, perché mi pare riesca a dire la realtà di tutti gli uomini lì presentati.
Non si tratta infatti solo di sfortunati o incompiuti o disagiati… La prospettiva, che certo tiene anch’essi, è però più ampia. Appunto, mi pare, sia quella di chi ad ogni modo sta nella vita come colui che è feribile e ferito e non come colui che ferisce. Ecco il senso della precarietà! I poveri in spirito, gli afflitti, i miti, gli affamati e assetati di giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di pace, i perseguitati per la giustizia sono tutti coloro che per scelta loro o di altri si trovano dalla parte di chi “le prende”.
Nel mondo non si è mai visto infatti un povero in spirito su cui altri non abbiano prevaricato, un afflitto sul cui dolore altri non abbiano speculato, un mite di cui altri non abbiano approfittato, un affamato di giustizia che l’abbia definitivamente ottenuta, un misericordioso il cui cuore non sia trafitto dalla colpa subita, un puro di cuore di cui altri non abbiano abusato, un operatore di pace che non sia stato eliminato, un perseguitato su cui non sia stata usata violenza.
È per questo che istintivamente nessuno di noi vorrebbe ritrovarsi in quella situazione: perché porta alla morte. E noi, che come una consapevolezza arcaica, lo sappiamo, pur onorando a parole queste condizioni di vita, in realtà nelle piccole e grandi cose le rifuggiamo, e preferiamo scegliere, basandoci su quella che ci pare una ragione incontrovertibile, cioè la salvezza della nostra pelle (o più subdolamente, dei nostri figli), preferiamo scegliere di farci carnefici.
Gesù in tutto questo invece pone una parola diversa e facendolo rivela all’uomo un volto nuovo di Dio e di uomo. Egli, dichiarando beati coloro che si sono lasciati ferire dalla storia, o che la storia ha ferito, senza chiedergli il permesso, attesta nei loro confronti una benevolenza privilegiata. Privilegiata perché essi si trovano nella condizione di poter guardare le cose dal punto di vista di Dio, un punto di vista che lo stesso suo Figlio ci ha definitivamente rivelato. Gesù infatti vive proprio così; è Lui il primo che si getta in questa vita lasciandosi ferire dalla precarietà: lo si è visto bene negli inizi di questa sua avventura umana (gli umili natali, il rifiuto, il pericolo, il basso profilo dell’inizio della sua missione) e lo si vedrà ancora meglio nella sua fine.
Ma, in fin dei conti, in cosa consiste questa beatitudine? Perché… insomma… mi verrebbe da dire… va bene che Gesù ha vissuto così, ma a me piacerebbe comunque di più la tranquillità, il benessere, il non essere destinata prenderle e a morirci… E allora, cos’è che rende questa precarietà così necessaria? Perché Dio chiama “abilitati a Vivere” proprio coloro che ne fanno esperienza? Cos’è che la precarietà dischiude di così decisivo?
Forse il fatto che solo così la vita è Vita; solo così posso dedicarmi a viverla e non a dovermela salvare; solo così l’altro è fratello e non rivale.
Provo a spiegarmi… Sono i nuovi volti di Dio e dell’uomo cui accennavo:
1- Da un lato infatti la precarietà mi insegna che il fondamento della mia vita non può essere in me. È un Altro il riferimento su cui devo appoggiarmi. E la buona notizia è che questo fondamento (che l’uomo da sempre ha creduto ci fosse) ha un volto preciso: non è banalmente il più potente dei potenti della terra, che si limita a riproporre, potenziandole, le dinamiche di dominio dei tiranni del mondo; ma è il volto di un Padre che guarda con benevolenza le vicende dei suoi figli e le patisce con loro, innestandoci un anelito di risurrezione;
2- Dall’altro la precarietà mi rende avvicinabile a chiunque: i perfetti, i puri, i rispettabili non li tocca nessuno… incutono timore… e tanto meno loro toccano gli altri… per paura di contaminarsi… Il mio peccato invece, la mia paura, le mie ferite mi permettono di sentirmi a casa dentro all’umanità, a quella massa di uomini e donne che è peccatrice, malata, spaventata, inadeguata, incompiuta…
Ma non vorrei essere fraintesa… non è un osannare la sofferenza, un giustificare Dio di fronte al male del mondo o un legittimare lo status quo, ignorando quanto patire c’è in questa umanità precaria. È solo il ribadire che essa non è carne da macello per la vita di pochi, non è la parte del mondo nata sfortunata che non ha possibilità altra che il passare inutilmente e tristemente su questa terra… No! Per Gesù essa stessa è vita; anzi è proprio questa l’umanità che Dio, a dispetto delle logiche del mondo, crede l’unica veramente abilitata alla vita. Solo lì in effetti si può scrivere nella nostra carne la logica cristica: l’unica logica che, attraversando sì la morte, ma facendolo affidandosi al Padre e per i fratelli, incarna la vera vita beata!
E questa è la stessa prospettiva che si ritrova anche in Paolo. Egli infatti attuando una sorta di metodologia fenomenologica dice che per capire la logica della chiamata di Dio, è necessario guardarsi addosso, guardare al dato della realtà che si dà da vedere. E ciò che esso mostra in modo evidente è che non siamo una elite né intellettuale («non ci sono fra voi molti sapienti dal punto di vista umano»), né politica («non ci sono fra voi molti potenti»), né sociale («non ci sono fra voi molti nobili»). Anzi, esplicitamente Paolo dice che Dio sceglie «quello che per il mondo è stolto, quello che è debole, quello che è ignobile e disprezzato, quello che è nulla».
E il Vangelo insuperabilmente rincara la dose: le beatitudini infatti sono il fremito gioioso che sgorga dal cuore di Dio per l’umanità che vive un’esistenza precaria… Uso questo aggettivo, come sintetico di tutte le “categorie” presentate nel testo matteano, perché mi pare riesca a dire la realtà di tutti gli uomini lì presentati.
Non si tratta infatti solo di sfortunati o incompiuti o disagiati… La prospettiva, che certo tiene anch’essi, è però più ampia. Appunto, mi pare, sia quella di chi ad ogni modo sta nella vita come colui che è feribile e ferito e non come colui che ferisce. Ecco il senso della precarietà! I poveri in spirito, gli afflitti, i miti, gli affamati e assetati di giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di pace, i perseguitati per la giustizia sono tutti coloro che per scelta loro o di altri si trovano dalla parte di chi “le prende”.
Nel mondo non si è mai visto infatti un povero in spirito su cui altri non abbiano prevaricato, un afflitto sul cui dolore altri non abbiano speculato, un mite di cui altri non abbiano approfittato, un affamato di giustizia che l’abbia definitivamente ottenuta, un misericordioso il cui cuore non sia trafitto dalla colpa subita, un puro di cuore di cui altri non abbiano abusato, un operatore di pace che non sia stato eliminato, un perseguitato su cui non sia stata usata violenza.
È per questo che istintivamente nessuno di noi vorrebbe ritrovarsi in quella situazione: perché porta alla morte. E noi, che come una consapevolezza arcaica, lo sappiamo, pur onorando a parole queste condizioni di vita, in realtà nelle piccole e grandi cose le rifuggiamo, e preferiamo scegliere, basandoci su quella che ci pare una ragione incontrovertibile, cioè la salvezza della nostra pelle (o più subdolamente, dei nostri figli), preferiamo scegliere di farci carnefici.
Gesù in tutto questo invece pone una parola diversa e facendolo rivela all’uomo un volto nuovo di Dio e di uomo. Egli, dichiarando beati coloro che si sono lasciati ferire dalla storia, o che la storia ha ferito, senza chiedergli il permesso, attesta nei loro confronti una benevolenza privilegiata. Privilegiata perché essi si trovano nella condizione di poter guardare le cose dal punto di vista di Dio, un punto di vista che lo stesso suo Figlio ci ha definitivamente rivelato. Gesù infatti vive proprio così; è Lui il primo che si getta in questa vita lasciandosi ferire dalla precarietà: lo si è visto bene negli inizi di questa sua avventura umana (gli umili natali, il rifiuto, il pericolo, il basso profilo dell’inizio della sua missione) e lo si vedrà ancora meglio nella sua fine.
Ma, in fin dei conti, in cosa consiste questa beatitudine? Perché… insomma… mi verrebbe da dire… va bene che Gesù ha vissuto così, ma a me piacerebbe comunque di più la tranquillità, il benessere, il non essere destinata prenderle e a morirci… E allora, cos’è che rende questa precarietà così necessaria? Perché Dio chiama “abilitati a Vivere” proprio coloro che ne fanno esperienza? Cos’è che la precarietà dischiude di così decisivo?
Forse il fatto che solo così la vita è Vita; solo così posso dedicarmi a viverla e non a dovermela salvare; solo così l’altro è fratello e non rivale.
Provo a spiegarmi… Sono i nuovi volti di Dio e dell’uomo cui accennavo:
1- Da un lato infatti la precarietà mi insegna che il fondamento della mia vita non può essere in me. È un Altro il riferimento su cui devo appoggiarmi. E la buona notizia è che questo fondamento (che l’uomo da sempre ha creduto ci fosse) ha un volto preciso: non è banalmente il più potente dei potenti della terra, che si limita a riproporre, potenziandole, le dinamiche di dominio dei tiranni del mondo; ma è il volto di un Padre che guarda con benevolenza le vicende dei suoi figli e le patisce con loro, innestandoci un anelito di risurrezione;
2- Dall’altro la precarietà mi rende avvicinabile a chiunque: i perfetti, i puri, i rispettabili non li tocca nessuno… incutono timore… e tanto meno loro toccano gli altri… per paura di contaminarsi… Il mio peccato invece, la mia paura, le mie ferite mi permettono di sentirmi a casa dentro all’umanità, a quella massa di uomini e donne che è peccatrice, malata, spaventata, inadeguata, incompiuta…
Ma non vorrei essere fraintesa… non è un osannare la sofferenza, un giustificare Dio di fronte al male del mondo o un legittimare lo status quo, ignorando quanto patire c’è in questa umanità precaria. È solo il ribadire che essa non è carne da macello per la vita di pochi, non è la parte del mondo nata sfortunata che non ha possibilità altra che il passare inutilmente e tristemente su questa terra… No! Per Gesù essa stessa è vita; anzi è proprio questa l’umanità che Dio, a dispetto delle logiche del mondo, crede l’unica veramente abilitata alla vita. Solo lì in effetti si può scrivere nella nostra carne la logica cristica: l’unica logica che, attraversando sì la morte, ma facendolo affidandosi al Padre e per i fratelli, incarna la vera vita beata!
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