In questa III domenica del tempo ordinario, vorrei iniziare col fare qualche riflessione riguardo al brano della lettera di Paolo ai Corinzi. Essa infatti suona molto provocatoria in un tempo in cui personalmente, socialmente ed ecclesialmente sembra si riscontrino proprio quelle divisioni e discordie che l’Apostolo vuole scongiurare: la sua constatazione infatti, «mi è stato segnalato che tra voi vi sono discordie», mi pare dipinga bene anche la nostra realtà quotidiana, di singoli e di Chiesa.
È Paolo stesso a spiegare poi, nei versetti immediatamente successivi, cosa intenda rilevando questa situazione di divisione; e infatti annota: «Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: “Io sono di Paolo”, “Io invece sono di Apollo”, “Io invece di Cefa”, “E io di Cristo”». Il problema posto in campo allora è quello di una dispersione dei punti di riferimento all’interno dell’unico corpo (la Chiesa) che ha come capo solo Cristo.
Ma in questione non sembra esserci tanto l’esperienza di un’appartenenza o di un’amicizia o di una stima creatasi fra persone che hanno fatto un incontro tanto intimo da risultare decisivo; quanto piuttosto il fatto che esso rimanga come un baluardo ideologico, privo della capacità di far confluire i singoli verso l’Unico vero riferimento che può unire: Cristo Gesù.
L’indicazione di Paolo allora sembra andare proprio in questa direzione: perché si faccia comunione è necessario ri-orientare verso Gesù la centralità del proprio io, il proprio orizzonte di senso, il proprio cuore: «È forse diviso il Cristo? Paolo è stato forse crocifisso per voi? O siete stati battezzati nel nome di Paolo?».
Ma… mi vien da chiedermi… oggi basta un’indicazione di questo tipo? Certo, con la nostra sviluppata dialettica riusciremmo sicuramente «a essere tutti unanimi nel parlare», a trovare cioè formulazioni comuni sull’essenza del Cristianesimo e anche (sforzandoci) sulla pratica cristiana. Ma la sensazione è che la ben più coinvolgente «unione di pensiero e di sentire» che l’Apostolo prospetta, sia impresa decisamente ardua e sicuramente lontana dallo scenario attuale.
Il problema oggi infatti non sta solo in una pluralità di riferimenti (la destra, la sinistra, il centro, la linea profetica, quella magisteriale, quella evangelica, quella ortodossa, quella cattolica, quella di Ruini o quella di Martini…), ma nel fatto che è il centro stesso – riconosciuto da tutti con Paolo come il «nome del Signore nostro Gesù Cristo» – ad essere riempito di contenuti diversi: di un pensare e di un sentire diversi!
Tutti si riferiscono a Cristo: quelli che vogliono la messa in latino e quelli che sentono un tuffo al cuore a vedere il papa che dà il di dietro ai fedeli; quelli che vanno in piazza con le bandiere della pace e quelli che politicamente sostengono la giustezza della guerra preventiva; quelli che sono rigidissimi sull’uso degli anticoncezionali e quelli che per evitare agli africani la morte di aids li distribuiscono alla gente; quelli che proprio perché hanno incontrato il Vangelo non se la sentono più di lasciar fuori nessuno e quelli che in nome dello stesso Vangelo han bisogno di tracciare i confini…
Ma allora? Se questo stesso riferimento dà adito ad una così vasta pluriformità di pensieri e di modi di sentire, bisogna concludere che ciò avviene perchè lo stesso Cristo lo si incontra in modi diversi… lo stesso Vangelo lo si legge in modi diversi… lo stesso essere Chiesa lo si vive in modi diversi…
E sinceramente io sono un po’ stanca delle “formule concordiste”, che mi pare servano solo a dare una parvenza di unione (che fa comodo a tutti), ma che di fatto lasciano che ognuno vada per la sua strada… Il punto è che la storia ci ha già insegnato che a furia di andare ognuno per la sua strada (come è successo tra Chiesa d’Oriente e Chiesa d’Occidente) poi ci si ritrova talmente lontani da risultare, appunto, divisi…
Che fare dunque? Non è politicamente corretto sbilanciarsi nel dire che qualcuno ha ragione e qualcuno ha torto? Forse… Ma non ci resta che tentare di tornare, come suggerisce Paolo, a Cristo stesso, al suo Vangelo… e provare, senza forzare ideologicamente le sue parole, a far parlare lui…
Prendendo dunque in mano il Vangelo di questa domenica ci accorgiamo come esso ci parli dell’inizio del ministero di Gesù: è il testo di Matteo al capitolo 4, i versetti 12-23, il quale affonda esplicitamente le sue radici nel testo di Isaia 8,23-9,3 che la liturgia conseguentemente ci propone come prima lettura.
Si parla della terra di Zabulon e della terra di Neftali. Esse erano le due tribù più settentrionali e quindi più distanti dal centro, da Gerusalemme, che notoriamente è la beneficiaria delle promesse. E di fatti sono presentate nelle tenebre. Anche perché questo è il territorio dove passava la famosa “via maris”, la strada che collegava cioè le regioni più importanti della Mezzaluna fertile (l’Egitto con la Mesopotamia e la Persia) e che perciò rendeva queste terre oggetto del passaggio di eserciti, che vi compivano scorribande e saccheggi frequenti. Addirittura questo distretto di periferia, era abitato da numerosi gruppi di popolazioni non ebree; e gli Ebrei stessi la chiamavano la “regione delle Genti”.
Ma è proprio in queste terre, cariche di confusione sociale, politica, militare e religiosa, è proprio in queste terre, considerate in qualche modo maledette, che Dio interviene con un cambiamento tanto radicale quanto immotivato (non vi è infatti alcuna allusione ad una conversione): «Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse».
E Matteo, nel suo Vangelo, riprende proprio questo annuncio profetico, per mostrare come il compimento di questa attesa stia in Gesù di Nazareth: «Quando Gesù seppe che Giovanni era stato arrestato, si ritirò nella Galilea, lasciò Nàzaret e andò ad abitare a Cafàrnao, sulla riva del mare, nel territorio di Zàbulon e di Nèftali, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaìa».
Secondo l’evangelista, allora, è proprio Gesù colui che compie le attese, colui cioè che determina in modo storico (legato quindi alla carne, al sangue e alle lacrime delle persone) e insieme definitivo, il passaggio da una vita che sa di morte, ad una vita che si mette a brillare e a illuminarsi: «Il popolo che abitava nelle tenebre vide una grande luce, per quelli che abitavano in regione e ombra di morte una luce è sorta».
Ma come fa a compiere queste attese? Nel brano proposto le parole e le azione di Gesù sono poche, ma decisive; e ci aiutano anche a rispondere al nostro problema originario: qual è il Cristo a cui riferirsi?
Anzitutto è da notare come la prima parola di Gesù in questo brano sia un invito incalzante: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino».
Convertirsi, biblicamente parlando, non ha immediatamente un valore morale, ma piuttosto, esistenziale: incontrare il Signore, vuol dire cioè cambiare mentalità, invertire la direzione, trasformare gli orizzonti di senso. Ossia vuol dire che il Dio di Gesù Cristo non è riconducibile a nessuna forma di religiosità classica, a nessuno schema contrattualistico tra l’uomo e il suo dio: eppure, vien da pensare… quanto della nostra fede è stato invece ridotto ad un impianto religioso classico? Quanto poco è disposto, chi da questo impianto religioso trae profitto o potere, a convertire la religione con la fede?
Ma c'è dell'altro: va segnalata infatti anche un’altra azione significativa di Gesù: la chiamata dei primi discepoli. Ciò che incuriosisce è soprattutto questo prenderli a coppie, a due a due. Un fatto che immediatamente fa risuonare in noi la parola di Giovanni quando afferma «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35). È questo allora il modo di vivere le relazioni da cristiani (con Cristo come riferimento): non in maniera formale e asettica, stereotipata e convenzionale, gerarchica e reverenziale, distaccata e sessuofoba, ma coinvolgente e con-patente, spontanea e trasparente, intrecciata e confidenziale… e anche qui verrebbe da pensare… al giusto riferirsi a Cristo nella Chiesa...
Ed infine l’altra grande frase di Gesù: «Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini». I pescatori, si sa, sono coloro che tolgono i pesci dal mare. E biblicamente il mare è simbolo per eccellenza del male… Pescare uomini allora, vuol dire toglierli dal male (con tutte le caratterizzazioni che esso può assumere: fisico, morale, esistenziale, psicologico, economico…). Chi si riferisce a Cristo allora è colui che ridona all’uomo la sua umanità, colui che lo risana nella sua interiorità, colui che gli ridona la dignità di figlio e l’abilitazione alla Vita. Non può certo essere colui che incastra le persone nei sensi di colpa, che propone il sacro come rifugio, che discrimina le persone in base al sesso, alla purità, alla loro situazione etica…
Questi appaiono allora i criteri per il riferimento a Cristo: il rinnovamento del cuore, la passione per l'altro, il dono della Vita. Ma, purtroppo, così spesso non sappiamo essere altro che inariditi uomini, soli e sterili.
«Dai loro frutti li riconoscerete» (Mt 7,16).
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