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sabato 29 gennaio 2011

IV Domenica del Tempo Ordinario: Tra i beati Gesù mette anche quelli che piangono (di afflizione)?!

In questa quarta domenica del Tempo Ordinario, ecco che puntuale arriva il testo di Matteo 5, che ci propone l’inizio del cosiddetto “Discorso della montagna”, ossia quello che ci narra le beatitudini che Gesù elenca ai suoi discepoli e alle folle sul monte…


È un testo difficile… per tanti motivi… sicuramente per il contenuto, ma prima ancora forse, perché è uno di quei testi che subisce il doppio rischio dei brani “troppo” conosciuti: quello cioè di essere ormai dato per scontato o – viceversa – quello di essere così minuziosamente analizzato (per trovarci qualcosa di nuovo da dire) da risultare snaturato…

Mi pare allora che – forse – il modo migliore, quest’oggi, per approcciarsi al testo sia quello di far emergere con sincerità e trasparenza tutto il disagio che il ritrovarselo – ancora una volta – “tra i piedi”, suscita…

Perché il punto è proprio questo… ritrovarsi ancora una volta di fronte a questo brano e scoprire che ancora non lo si è capito, non lo si è incarnato… Infatti il “contenutisticamente difficile” a cui si faceva riferimento in precedenza, non sta tanto nell’individuazione del significato del testo (che è fin troppo chiaro), ma nell’attuare una conversione alla logica che propone…

Esso, infatti, sostanzialmente non è molto più che un elenco di persone (o gruppi di persone) che Gesù definisce “beate”, dunque felici, contente… Un elenco che chiunque di noi potrebbe stilare… anzi che sarebbe interessantissimo che ciascuno di noi stilasse… Chi è beato? Chi potremmo chiamare “felice”? Di chi potremmo dire che è contento?

E dalle proposte che ne risulterebbero, emergerebbe, per ciascuno, l’idea di felicità che ha in testa… l’idea di “buona riuscita” della vita… l’ideale di contentezza a cui aspira…

E il punto sta proprio qua: Quale idea di beatitudine, di felicità, di buona riuscita della vita, emerge dall’elenco di Gesù? Perché se abbiamo deciso di dargli credito, se abbiamo deciso di porre in Lui (cioè nella Parola di Dio, fatta carne) la nostra fiducia, se siamo alla ricerca di risposte credibili e fondative per orientare il percorso della nostra vita, è proprio questo che dobbiamo chiederci e chiarirci… Qual è il futuro che ci prospetta? Qual è l’ideale verso cui ci conduce? Qual è la vita che pensa, dovremmo condurre per essere felici?

Beh… è quella dei poveri in spirito, di quelli che sono nel pianto, dei miti, di quelli che hanno fame e sete di giustizia, dei misericordiosi, dei puri di cuore, degli operatori di pace, dei perseguitati per la giustizia (e non dalla giustizia! A scanso di equivoci…)…

Un elenco strano… Non tanto perché lontano da quello che formulerebbero i nostri adolescenti (o la parte più visibile e rumorosa dei nostri adolescenti – di tutte le età) – quindi un elenco in cui i beati sono i ricchi, i famosi, i calciatori, quelli che hanno tante donne, ecc… “Strano” dunque, non tanto per questo (perché, credo e spero, un ideale del genere mostri da sé tutta la sua meschinità e bassezza…), quanto piuttosto perché, pur assomigliando – almeno in alcuni aspetti – all’elenco che formuleremmo anche noi alla ricerca di “ideali alti” (la mitezza, la giustizia, la pace, ecc…), in realtà ha in sé un elemento del tutto imprevisto (e che Luca radicalizzerà): quello degli afflitti, che ora la nuova traduzione rende con “quelli che sono nel pianto”…

Mentre infatti tutte le altre beatitudini di Matteo sono in qualche modo riconducibili ad un ideale accettabile e accettato – almeno a parole – da tutti noi e da quella che riconosciamo come la parte “nobile” e “sana” della società, questa degli afflitti (e quelle di Luca: «Beati voi, poveri», « Beati voi, che ora avete fame», « Beati voi, che ora piangete»), ci risulta incompatibile da accostare ad un ideale di felicità…

Ma, come sempre in questi casi, non pare una buona prassi metodologica il mettere tra parentesi ciò che fa problema alla sintesi riflessiva che ci siamo fatti, facendo finta che questo elemento di eterogeneità non ci sia… Molto più serio è rimettere in discussione la sintesi trovata a partire dall’elemento che non fa tornare i conti… perché se non tornano, non tornano… è inutile far finta di niente…

Il punto è allora che – a dispetto di quanto sembrava all’inizio – l’ideale di felicità di Gesù, che in qualche modo non ci sembrava così lontano da quello (almeno teorico) che avremmo evinto anche da un nostro ipotetico elenco di beati, in realtà va ripensato… radicalmente…
Infatti forse l’inganno mentale in cui siamo caduti è stato quello di dare per scontato che cosa fosse la “beatitudine”, la “felicità” e, dunque, semplicemente far variare i percorsi per raggiungerla: perciò una vita bella, riuscita, felice non poteva essere quella dei ricchi, fannulloni, annoiati e soli… bensì quella di persone animate da grandi idealità e impegnate su quei versanti… la pace, la giustizia, la mitezza, ecc… pensando che questo fosse anche ciò che pensava / diceva Gesù…

Invece, la questione è più radicale… Quel “beati gli afflitti” insinua un necessario ripensamento che va a scavare fino al significato stesso di felicità… Detto con uno slogan: per Gesù i felici non sono necessariamente i sorridenti… Tra i beati Lui ci mette infatti anche quelli che piangono (di afflizione!).

Cosa vuol dire questo? Che la buona riuscita della vita per Gesù ha come elemento fondamentale qualcosa d’altro rispetto alla sensazione/emozione/condizione di ben-essere, di allegria, contentezza, soddisfazione, ecc… Per Lui infatti – e lo si evince da tutto il vangelo, da come vive e da come muore – una vita è beata se ha come unica preoccupazione quella di alzare il tasso d’amore nel mondo, testimoniando così l’inequivoca paternità di Dio. A quel punto non importa se le prendi, se ti perseguitano, se ti ritrovi nel pianto… non importa neanche se rimani da solo (come don Primo Mazzolari davanti allo specchio con un bicchiere di vino a dire: “Però c’abbiamo ragione noi!”)… la tua vita – a quel punto – è una vita “riuscita” secondo le logiche del Regno! E la felicità starà nel guardare alla consistenza della persona (amante) che si è diventati o si è tentato di diventare… il resto conterà… ma molto poco…

È per questo che dicevo all’inizio che è brutto ritrovarsi “tra i piedi” un’altra volta questo testo… Perché è su di esso che continuamente dovremmo fare la verifica della nostra vita, delle nostre giornate, dei criteri che guidano le nostre scelte, i nostri umori, le nostre reazioni… la nostra felicità… e la verifica non dà grandi esiti: ci ritroviamo infatti, guardandoci, a vedere quello che Paolo vedeva nelle prime comunità, «dove d’istinto emergeva l’affermazione mondana della forza, della cultura, del potere, come criteri di valore e d’importanza in comunità» [Giuliano]… dove cioè, ancora una volta, è la pienezza dell’io a determinare la felicità… e non la pienezza del tu…

Forse allora, all’inizio di questo nuovo anno liturgico, è bene ripartire da questa necessità di convertirci noi al vangelo e non di convertire lui a noi… Partendo proprio dal chiederci: Che cosa è per me la beatitudine? E che cosa invece mi suggerisce il Signore per arrivare alla fine e, guardandomi indietro, non dire “che schifo di vita ho vissuto, che brutta persona sono diventata”, ma piuttosto “ho voluto bene più che ho potuto”?

«Magari sono piccolissimi assaggi o (minuscole beatitudini!), soltanto squarci di un cielo e di una prospettiva che di solito vediamo e desideriamo da lontano, ed invece già adesso, ci è promessa e seminata in cuore, anche se rimane sempre ingovernabile e imprendibile…come ogni dono dello Spirito. E si annebbia presto, lungo la giornata, nei ritmi alterni dei nostri umori. Però è vera, e ne rimane la memoria e l’attenzione premurosa, perché le troppe distrazioni ed urgenze del nostro vivere non ci allontanino dall’essenziale!

… e così imparare, o almeno cominciare a tentare qualche gesto, arrischiare di rispondere alle asprezze della vita e degli uomini con qualche sbilanciamento di amore, di tenerezza, di assorbimento del male, invece che di ritorsione:

• quando la desolazione ci devasta il cuore e vorremmo anche noi consolazione, e siamo tentati di amarezza

• quando la reazione violenta ci preme dentro come l’unica soluzione, e vorremo esser capaci di seminare mitezza

• quando la rabbia triste per l’ingiustizia ci rode l’anima e la vorremo subito eliminata… a costo di altra violenza

• quando la miseria è cosi grande che bisognerebbe contenerla e accudirla con ancor più grande misericordia

• quando ci si offuscano gli occhi del cuore e non vediamo più la benevolenza del Padre in chi ci fa del male

… portando sempre pace e perdono dove c’è conflitto e odio, perché questo è il mestiere di Dio e dei suoi figli» [Giuliano].

1 commento:

greg50 ha detto...

Ciao Chiara, tramite Google ho aggiornato il mio accesso ed ora mi rimetto al passo con le tue 'lectio'. Meno male! Buona domenica! Greg

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