Eccoci giunti all’inizio di una nuova Quaresima, di un nuovo tempo di preparazione per una nuova Pasqua di Risurrezione.
Il vangelo che la Chiesa ci propone per iniziare questo itinerario è quello delle tentazioni nel deserto… nella versione (stringatissima!) di Marco, il quale a differenza di Matteo e Luca non esplicita nemmeno quali siano state queste “tentazioni”, limitandosi a dire: «Lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana».
È dunque solo leggendo il vangelo fino alla fine che si può scoprire cosa abbia inteso – qui all’inizio – l’evangelista per “tentato da Satana”… e arrivare a intuire che la tentazione per Gesù, come per ciascun uomo, è sempre una tentazione sull’identità.
È questo il punto su cui vorrei soffermarmi quest’oggi: la tentazione non è mai la tentazione riguardo a una cosa o a qualcosa… ma è sempre la tentazione sulla propria identità.
Il problema non è cioè immediatamente morale, ma sostanziale. In gioco, cioè, non vi è tanto la domanda su cosa è bene e cosa è male in astratto, ma sul chi sono io, sul chi divento facendo o non facendo una determinata cosa, pensando o non pensando così, reagendo così, parlando così, atteggiandomi così… fin dentro alle cose più quotidiane e immediate della vita: cosa dice di me il fatto che mi vesta così? Cosa dice di me il fatto che bacio così? Cosa dice di me il mio modo di stare a tavola? Il mio modo di salutare il giornalaio? Cosa dice di me la sensazione che provo di fronte alla morte? Di fronte a qualcuno che sta male? O di fronte a una coppia di innamorati? Ecc… ecc… ecc…
Ecco – io credo – la tentazione si attesti qui, a questo livello… è una tentazione identitaria.
È questa che ha patito Gesù per tutta la sua vita – proprio come ciascuno di noi. E in questo senso è interessante la scelta di Marco di non esplicitare le tentazioni nel deserto, perché ci costringe a mantenere salda la consapevolezza che la questione non è relegata e relegabile a un episodio di quaranta giorni, chiuso e risolto.
I quaranta giorni sono come la concentrazione in un tempo simbolico (i 40 giorni del diluvio, i 40 anni di Israele nel deserto, ecc…) di un’esperienza che è esperienza di tutta la vita: tutta la vita la questione è “Chi sono io? Chi sto diventando? Che uomo/donna sono? Che padre/madre sono? Che figlio/figlia sono? Che fratello/sorella, amico/amica, compagno/compagna sono?”.
Tutta la vita… Sia nel senso di “per tutta la vita, cioè fino alla morte”, sia nel senso di “per tutta la vita, cioè per ogni attimo della vita”.
Fino alla fine, ad ogni istante, in gioco c’è sempre il come mi sto determinando, il chi sto decidendo di essere, il chi sto diventando agendo così.
E questo – certo – è interessante sul nostro versante e credo sia sempre più necessario tornare a pensarci e trovare spazi di tempo per “guardarci dentro”, ma è altrettanto interessante pensato in riferimento a Gesù: anche lui è quell’uomo che ha deciso di sé, ha deciso chi essere, nelle piccole determinazioni (di pensiero, parola, gestualità, reazione emotiva, ecc…) quotidiane.
È qui che anche per lui si è attestata la tentazione identitaria: Chi sono? Chi devo essere?
È qui che ha scelto di essere uomo (e Dio) così.
Guardando allora con un po’ più di attenzione alla sua esperienza (che può e deve diventare matrice per la nostra), possiamo immediatamente scoprirne una caratteristica: la questione identitaria in Gesù e la sua relativa tentazione è sempre legata indisgiungibilmente ad un’altra identità e ad un’altra tentazione … che è quella del volto Dio.
Leggendo i vangeli ci si accorge infatti che la grande battaglia identitaria di Gesù si è condensata nella battaglia tra il volto di un Dio che è Padre e quello di un dio che è altro (tutt’altro… tanto di lui è stato detto – di tutto, appunto).
Il problema sta tutto qua… Sul come si risolve la questione di Dio… Questo ci identifica, dice cioè la nostra identità…
E parimenti, guardando alla nostra identità, si capisce o almeno si intuisce in che Dio crediamo.
È questo il senso di “Gesù definitiva rivelazione del Padre”: quella sua vita lì, la sua vita così, è coincisa con il vero volto del Padre. Ha creduto nel volto vero del Padre e quindi la sua storia – che mostrava in ogni singolo gesto la sua idea e fede in quel volto di Dio – è la piena rivelazione di quel volto!
Ecco perché per lui la tentazione è sempre e contemporaneamente antropo-teologica. È sempre sulla propria vita di uomo e sull’idea di volto di Dio che ha in testa (e in cuore). Perché sono come due poli indivisibili e inter-determinantisi: se penso Dio così, non posso che vivere così; se vivo così, non può che essere perché penso a Dio così!
E non c’è scampo. È così per Gesù – in maniera eminentemente riuscita (cioè lui è riuscito a far coincidere sempre vita e vero volto di Dio) – ma è così per tutti gli uomini. Per tutti! Anche per quelli che non credono in nessun dio.
Perché anche scegliere di non credere a Dio è una determinazione che mi determina, appunto. Cioè indisgiungibile dalla risposta che dò alla domanda “Chi sono io?”. “Se Dio non c’è, io sono… ecc… ecc… ecc…”; “Se Dio c’è, io sono…”; “Se Dio è così, allora io…”.
Il punto è che troppo spesso noi non sappiamo rispondere alla domanda “Chi è Dio?” e dunque lasciamo inevasa la domanda “Chi sono io?”. Dove “inevasa” vuol dire che non diamo una risposta, lasciando che sia il caso, la spontaneità del momento, l’istintualità a determinarci, a decidere chi siamo e a rivelare contemporaneamente che – appunto – non sappiamo (o non ci importa di sapere) chi è Dio.
O peggio pensiamo di saper rispondere alla domanda “Chi è Dio?” (magari dando sbrigative risposte preconfezionate imparate al catechismo chissà quanti anni fa…), ma la nostra vita non assomiglia minimamente agli “stessi sentimenti di Gesù”… facendo sorgere in chi ci vede vivere la domanda “Ma in quale dio credi??”.
Certo, poi la casistica può moltiplicarsi, ma ciò su cui io vorrei concentrare l’attenzione è il fatto che tutto ciò che faccio dice chi sono e contemporaneamente dice come penso Dio e viceversa tutto ciò che penso e credo su me e su Dio è vero solo se si esplicita in quotidianità. Altrimenti sono solo mere speculazioni o pii desideri.
Ma una volta accolta in cuore questa indivisibile circolarità tra la scelta della mia identità e la scelta dell’identità di Dio, la questione diventa qual è il volto di Dio che merita il mio credito. Cioè, se è così legato il “Chi sono io?” al “Chi è Dio?”, la domanda “Chi è Dio?” non può più rimanere inevasa o risolta sbrigativamente con due definizioni del catechismo.
C’è dunque da studiare, da indagare, da lasciarsi incontrare… da valutare e da decidere…
E questo vale per tutti…
Ma per un cristiano, in particolare, tutto questo vuol dire dare credito (e trovare le ragioni fondate per farlo!) al volto di Dio che Gesù ha rivelato. A quel Gesù che alla tentazione di tutta la vita sulla propria identità e sull’identità di Dio ha risposto – non solo a parole, ma con la vita – che Dio è Papà che ama i suoi figli e allora io posso vivere da affidato… anzi posso anche morire affidandomi… posso anche morire solo e maledetto (senza maledire nessuno, che se no la gente poi penserebbe che Dio è un Papà che vuole bene solo a chi fa il bene)… posso anche essere l’unico che ha colto e che custodisce questa verità e pur di non rinnegarla posso anche stare su una croce… perché tanto è lui che tiene la mia verità, la verità della mia identità, non lo sguardo di chi passando mi giudica maledetto da Dio.
E allora il “proposito” per questo tempo simbolico che è la Quaresima, potrebbe davvero essere quello di rimeditare la correlazione tra mia identità e l’identità di Dio e tra identità pensata, voluta, creduta e identità vissuta… nelle pieghe quotidiane di un’esistenza… che pare scorrerci via, come sabbia tra le dita, ma che ha la potenza di dire a tutti chi è Dio chi voglio essere io.
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