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lunedì 16 marzo 2015

V Domenica di Quaresima


Dal libro del profeta Geremia (Ger 31,31-34)

«Ecco verranno giorni – oracolo del Signore –, nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova. Non sarà come l’alleanza che ho concluso con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dalla terra d’Egitto, alleanza che essi hanno infranto, benché io fossi loro Signore. Oracolo del Signore. Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa d’Israele dopo quei giorni – oracolo del Signore –: porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. Non dovranno più istruirsi l’un l’altro dicendo: “Conoscete il Signore”, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande – oracolo del Signore –, poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato».

 

Dalla lettera agli Ebrei (Eb 5,7-9)

Cristo, nei giorni della sua vita terrena offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito. Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono.

 

Dal vangelo secondo Giovanni (Gv 12,20-33)

In quel tempo, tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù». Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose loro: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà. Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome». Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!». La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato». Disse Gesù: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire.

 

Il vangelo che la liturgia ci propone per questa quinta domenica di Quaresima è tratto dal capitolo 12 di Giovanni. Sebbene questo possa far pensare che si è ancora abbastanza all’inizio della vita pubblica di Gesù (i capitoli totali di Giovanni sono infatti 21), in realtà siamo ormai prossimi alla fine: con il capitolo 12 infatti si chiude la prima parte del vangelo di Giovanni e con il capitolo 13 iniziano i racconti degli ultimi giorni (la lavanda dei piedi).

Il nostro passo è dunque particolarmente significativo perché dopo la risurrezione di Lazzaro e l’ingresso trionfale a Gerusalemme, questo è l’ultimo discorso pubblico di Gesù. Esso è occasionato da un gruppo di Greci, probabilmente proseliti o simpatizzanti del giudaismo, che avvicinatisi a Filippo gli pongono una delle domande esistenzialmente più pregnanti di tutto il Vangelo: «Vogliamo vedere Gesù».

La questione è fondamentale perché essi in questo Gesù che vogliono vedere individuano qualcuno che potrebbe essere significativo in ordine alla risoluzione del problema dei problemi: il rapporto dell’uomo con Dio. Evidentemente la prospettiva in cui questi uomini guardavano a questa problematica non era quella di oggi (per esempio era pressoché data per scontata l’esistenza di Dio o degli dei), eppure anche le nostre corde interiori suonano di fronte a questo “voler vedere”.

Ciò che c’è in gioco infatti non è tanto o non è solo il corretto rapporto dell’uomo con Dio: cioè banalmente cosa l’uomo deve o non deve fare per stare in pace ora e nell’aldilà. Sebbene a volte anche il cristianesimo si sia appiattito su questa visione riduttiva, non si può negare che essa non sia in grado di rispondere all’anelito originario dell’uomo.

Il problema infatti è quello molto più radicale e determinante di quale sia l’origine (non in senso biologico, ma fondativo) della nostra vita, il suo senso, il suo compito e compimento, il suo fine da conciliare con la sua fine. La questione è cioè se ci sia o meno Qualcuno (e chi sia questo Qualcuno) che tiene in mano le fila disperse di quello che siamo (come singoli e come storia), se ci sia Qualcosa su cui vale la pena fondare una vita e anche perderla, se c’è Qualcuno insomma che non permetta che tutto questo sia un meschino gioco del caso che ci fa tornare e rimanere in polvere per l’eternità.

Per questo diventa così importante il vedere. Anche oggi spesso si sente dire: “Ah, se solo potessi vedere Dio”, o viceversa “Non credo in Dio perché non l’ho mai visto”… E quante volte anche a noi sale questo desiderio di una conferma, di una certezza, di una risposta…

È lo stesso anelito di questi Greci: hanno sentito parlare di questo maestro e vogliono vederlo; vogliono anche loro poterlo interrogare, ascoltare, valutare, perché forse ha da dare un’acqua che davvero placa il gemito interiore di un fondamento.

Non a caso la tematica del vedere in Giovanni non compare solo qui: l’evangelista infatti più volte riesce ad intercettare questa affannosa dimensione esistenziale e a riproporla in maniera originale: in proposito è utile ricordare che Egli è l’ultimo a scrivere un vangelo, dunque probabilmente aveva a che fare con tanti cristiani della seconda generazione, che, appunto, non avevano visto Gesù.

Giovanni per esempio introduce l’argomento già in 1,18, «Dio, nessuno lo ha mai visto»; e lo ripropone in 1,32.34, «Giovanni testimoniò dicendo: […] io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio»; oppure ancora in 1,39 è Gesù stesso a dire ai discepoli del Battista che lo seguivano: «Venite e vedrete». Ma al di là di questi esempi, che si sprecano, ciò che è interessante è notare come progressivamente nel vangelo, si scivoli da un “vedere” colto in chiave fisica a un vedere di altro tipo, tanto diverso da rendere l’altro superfluo. È sempre Giovanni infatti che in 20,29 fa dire a Gesù: «Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto».

Quest’affermazione, di cui noi forse per eccessiva abitudine non ci sorprendiamo più, in realtà se ascoltata alla luce di quanto detto finora sulla pregnanza esistenziale del vedere Dio, fa sobbalzare dalle sedie. In che senso infatti sarebbe beato chi non vede?

Per rispondere proviamo innanzitutto a farci aiutare da uno dei più grandi studiosi italiani di Giovanni, don Roberto Vignolo. Alla luce di quanto emergerà dalle sue considerazioni, torneremo poi al nostro testo per interrogarlo nella giusta prospettiva.

«In che cosa consisterà la forma specifica della fede che non vede rispetto alla visione che conduce Tommaso alla fede? Come dovrà intendersi una fede “beata perché crede e non vede”? In che termini il lettore sarà non solo penalizzato rispetto a questi personaggi, ma piuttosto fortunato, paradossalmente anche più di loro? L’enigmatico macarismo di 20,29 […] non intende affatto celebrare l’esaltazione di una fede cieca (e quindi più pura) contro una fede appagata di visione miracolistica (e quindi mediocre). Nemmeno rappresenta un deprezzamento per l’esperienza di Tommaso, e dei testimoni oculari in genere. […] Ma questa forma della fede si rivela singolarmente “felice” per le seguenti ragioni: 1- è una fede che dipende da una testimonianza – proprio come la fede degli stessi testimoni oculari. Come il Verbo incarnato, testimone del Padre, implicava e incorporava testimoni, così implica e incorpora anche un Libro [il vangelo] quale sua estrema forma testimoniale destinata a valicare il fossato delle generazioni: […] i segni fatti da Gesù sotto gli occhi dei suoi discepoli appaiono in una veste assai diversa rispetto al loro primitivo prodursi: non solo “selezionati”, ma anche già “contemplati”; non più allo stato grezzo, ma trasformati tutti in “parola”; non più isolabili rispetto ai discorsi di Gesù, ma al contrario tutti corredati dalla sua parola che li interpreta; non più frammentati rispetto alla totalità della sua missione, ma invece illuminati dalla intelligenza pneumatica postpasquale, organicamente assemblati nel racconto complessivo che il Libro offre della storia di Gesù; 2- questo kerygma specificamente testimoniale chiede e sollecita un ascolto che, lungi dall’essere cieco, intende piuttosto “far vedere” e “insegnare come vedere”. […] Mentre si fa ascoltare come testimonianza verbale scritta infatti, il Libro fa vedere sia ciò che i testi oculari hanno potuto vedere nella fede (il contenuto cristologico della rivelazione), sia come essi abbiano potuto farlo (il loro cammino di fede). La visione indiretta dei segni di Gesù attraverso il Libro favorisce ulteriormente il lettore proprio in quanto passa attraverso una duplice mediazione: quella dei personaggi e quella dell’autore» [R.Vignolo, Personaggi del Quarto vangelo, Glossa, Milano 1994, 89-97].

Questa la risposta che Vignolo dà a partire da Giovanni 20,29; essa non è affatto banale, tanto che riesce a incanalare nella giusta prospettiva anche il nostro episodio: in che modo infatti va letta la risposta di Gesù al desiderio dei Greci di vederlo? Ad una prima lettura le sue parole sembrano infatti non centrare il bersaglio, sembrano quasi divagare. In realtà proprio in esse si può rintracciare un percorso esistenziale all’altezza della domanda postagli, un vedere non più banalmente fisico o dimostrativo, ma coinvolgente una dinamica di libertà.

Procediamo con ordine. Le prime parole che Gesù pronuncia sono: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato». Come anticipato, sulle prime, questo incipit della risposta di Gesù non sembra andare esattamente incontro alla richiesta dei Greci. Eppure è un incipit importante: se si hanno nelle orecchie i capitoli precedenti del vangelo infatti, ci si accorge che qui per la prima volta Gesù afferma che la sua ora è giunta. Finora aveva affermato il contrario (cfr Gv 4,1; 7,1; 8,59; 10,39). Adesso però Egli intuisce che il suo tempo si è fatto breve, la sua morte incombe. Di fronte allora a questi uomini che manifestano il desiderio di vederlo, imposta una risposta nuova: l’ora è giunta e «se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto».

Con queste parole, ancora apparentemente elusive della domanda dei Greci, in realtà Gesù sta dicendo che “venire a Lui” non può essere solo un fatto materiale, fisico, un vederlo con gli occhi del corpo, ma un incontro vitale con la sua esperienza di morte: solo essa infatti renderà possibile vederlo per chi è realmente e definitivamente. Solo essa inoltre permetterà un autentico decidersi per lui: «Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore». Incontrarlo vorrà dire allora assimilarsi a Lui, proprio come anche nel campo dell’esperienza umana “vedere” realmente una persona vuol dire intrecciare la propria libertà con la sua: esistenzialmente infatti, e contrariamente a quanto di solito si pensa, gli occhi più oggettivi sono quelli di coloro che si amano! Solo chi ama infatti conosce veramente e sa dare il giusto peso alla vita altrui… Chi ama infatti sa che il “peso” della vita dell’altro è sempre più grande del peso della propria: solo lui infatti è disposto a “perdere la vita” per l’altro, un perdere la vita inteso proprio come lo intende qua Gesù: non un buttarla via, ma un consegnarla all’amato e per l’amato. Non a caso è la via seguita da Gesù con l’uomo: è a lui e per lui che la sua vita è consegnata! E questa è la nuova alleanza che già Geremia descriveva in modo così toccante: «Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa d’Israele dopo quei giorni – oracolo del Signore –: porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. Non dovranno più istruirsi l’un l’altro dicendo: “Conoscete il Signore”, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande – oracolo del Signore –, poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato».

Eppure non è un’alleanza “facile”: l’atmosfera di anticipata glorificazione in cui Giovanni racconta la passione di Gesù non deve essere fraintesa. Non è un’anestetizzazione per i deboli di stomaco. Questo modo di essere uomo e di essere Figlio, Gesù l’ha imparato in un quotidiano decidere di se stesso, in uno storico patire la vita e la morte con l’univoca risposta dell’amore: «Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza dalle cose che patì».

Anche nel nostro brano questo emerge con chiarezza. In queste parole di Gesù infatti sono contenute tutte le tematiche dell’agonia nel Getsemani dei sinottici che Giovanni invece non racconta: «Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome».

E proprio in queste ultime parole sta la risposta più esplicita ai Greci: essi chiedevano di vedere Gesù, ma Egli rimanda al Padre, il quale, per l’unica volta nel vangelo di Giovanni, risponde dal cielo, «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!».

«La croce allora – come commenta un altro grande biblista – è il momento in cui si manifesta la piena consonanza, la perfetta unità tra Gesù e Dio. Il momento dell’innalzamento è quello in cui Gesù rivela, “racconta” la sua unione con il Padre: […] i suoi gesti sono i gesti di Dio, il suo amore è l’amore di Dio. […] La croce allora diventerà il momento in cui Cristo attirerà a sé tutti coloro che desiderano vederlo, perché lì essi contempleranno Gesù come manifestazione di Dio che chiama a sé l’umanità» [P.Pezzoli, Scuola della Parola 1997, Bergamo, Litostampa Istituto Grafico, 229].

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