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sabato 7 agosto 2010

XIX Domenica del Tempo Ordinario (C): una minoranza disomogenea

I testi che la Chiesa ci propone per questa diciannovesima domenica del Tempo Ordinario, sono assai densi, ed anche meno immediati di altri… è come richiesta una certa fatica “nell’entrarci”…

Mi pare però che un’illuminante chiave di lettura possa essere quella proposta da don Bruno Maggioni, quando scrive: «Dopo le direttive sull’uso dei beni, le parole che Luca ha qui raccolte entrano più direttamente nel tema della vigilanza, che non è anzitutto un elenco di cose da fare, ma una tensione dello spirito, un orientamento di fondo nei confronti delle situazioni di vita. Ma prima di precisare i contorni della vigilanza (un atteggiamento complesso, dalle molte sfaccettature), occorre una parola sui destinatari, che Luca designa con un’espressione insolita: “piccolo gregge”. Chi sono? L’espressione è una variante di un’altra più frequente coniata dai profeti dell’Antico Testamento: “il resto di Israele”. Si tratta di quella “minoranza” di autentici fedeli che nell’abbandono generale delle leggi del Signore rimangono ostinatamente attaccati alla loro fede. La loro prima caratteristica è dunque la minoranza, cosa che può far sorgere in alcuni il dubbio e la frustrazione. Ma a torto: la storia di Israele, di Gesù e della chiesa dimostra al contrario che la forza di Dio passa proprio attraverso minoranze. La seconda caratteristica è la fedeltà ostinata: in un mondo dove i più – o per comodità o per paura – si accodano agli ideali del momento, il piccolo gregge mantiene vive le promesse del Signore. E la terza caratteristica è il servizio: il piccolo gregge mantiene in vita valori che poi torneranno a vantaggio di molti, e in nessun modo si isola dal mondo, ma rimane giù nella piazza, dove gli uomini si incontrano e si scontrano. […] Si tratta di un gregge che è “piccolo” e tuttavia è da intendere bene. Minoranze sì, ma che si incontrano dovunque: nella chiesa, nelle altre religioni, in tutte le razze, in ogni popolo. Sono la forza di Dio: non confidano nell’odio o nella violenza o nella potenza. Confidano in Dio, nel rispetto di ogni uomo, nella libertà, nell’amore. Desiderano servire e hanno fame e sete di un mondo più giusto. E per costruirlo sono pronti a rimetterci. È a costoro che il discorso sulla vigilanza è particolarmente rivolto» [il racconto di Luca, 244].
La citazione è un po’ lunga, ma mi pare serva davvero a capire il senso di quanto Gesù dice… perché di quella “minoranza” spesso ci sentiamo parte anche noi (magari incapaci di restare fedeli al suo lato ruvido – a quell’“essere pronti a rimetterci” – o al suo lato inclusivo – a volte infatti il nostro sentirci “minoranza” è chiuso e aggressivo verso gli altri – ma questo non toglie la realtà del nostro appartenervi). E mi pare molto interessante il fatto che Gesù scelga di destinare questo tipo di parole a chi si sente (o è) solo (i più fortunati sono in – troppo – pochi) a portare avanti una logica disomogenea di benevolenza, fraternità, tenerezza, rispetto alle classiche dinamiche umane che ripropongono invece continuamente competizione e sopraffazione (fuori e dentro la chiesa / fuori e dentro noi stessi).
Ecco, dentro a questa solitudine o esiguità numerica (a volte irrisoria ed irrisa) si annida il pericolo che Gesù denuncia e – con la sua parola («Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno») – vuole disinnescare: il “prendere paura” di una solitudine che a differenza dei padri (che come dice il libro della Sapienza «sapevano bene a quali giuramenti avevano prestato fedeltà») non riesce più a riconoscere «degno di fede colui che gli aveva promesso» che “c’abbiamo ragione noi!” (come diceva don Primo Mazzolari, davanti allo specchio con un bicchiere di vino in mano!)… perché questa disomogeneità frustrante, che scava dentro un vuoto angoscioso, troppo spesso dimentica che non si tratta di un’assenza muta, ma di un’attesa amante («Siate pronti…», «siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze…», «Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli…», «E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro!», «Anche voi tenetevi pronti…», «Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così…»)… proprio come quella disposizione interiore che abbiamo quando aspettiamo il ritorno di qualcuno che amiamo davvero (un figlio, il nostro amato, qualcuno che abbiamo proprio piacere di avere tra noi…), trepidando, sognando, sorridendo…
In questo «Una processione di padri e di madri ci fanno da testimoni [cfr. la lettere agli Ebrei, cap. 11]… Talora si vedono, talora si intravedono soltanto. Ci vogliono tante parole ed esempi, a noi piccoli, per cercare di dirsi, raccontarsi … la fede. Ma ognuno ha dentro di sé (ma che fatica accoglierli!) i minuscoli indizi persuasivi di un volto “velato” che chiama, che spinge, che provoca… ad imbarcarsi, nonostante la paura, nel viaggio, a tentoni, nell’attesa / scoperta di cose e situazioni e vicende impreviste, che il Signore ha preparato, chiamandoci a reinventare con noi, adesso… un modo nuovo di stare, nella vita e nella morte. Nella fede morirono tutti costoro, pur non avendo conseguito i beni promessi, ma avendoli solo veduti e salutati di lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sopra la terra. Noi, piccoli discepoli di Gesù, viviamo simultaneamente nell’antica e nella nuova situazione del credente, privilegiati di aver toccato in Cristo l’adempimento della promessa del regno “vicino, in mezzo a noi”, ammaliati dalla certezza che stiamo camminando verso una città diversa, il cui architetto è Dio – ma anche lacerati (delusi!?) dalla conclamata irreperibilità di questa città, feriti dall’innegabile distanza della salvezza, nostra e di troppi disperati abbandonati» [Giuliano].
Dentro qui credo che siano due i modi evangelici per vegliare: innanzitutto una sorta di alleanza con chi ci è fratello nell’attesa: «I figli santi dei giusti offrivano sacrifici in segreto e si imposero, concordi, questa legge divina: di condividere allo stesso modo successi e pericoli»… un po’ come Gesù, che nell’agonia cercava la “compagnia dei fratelli”: «Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia. Disse loro: “La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate”» [Mc 14,33-34].
Con la consapevolezza sorda però – ed è quella che apre al secondo modo di vegliare – che «li trovò addormentati»… cioè che c’è una soglia oltre la quale si è da soli davvero, nella propria nudità radicale, a decidersi per il restare svegli nella propria disomogeneità. «La vocazione cristiana trova qui la sua appassionante e difficile dimensione quotidiana compresi i ritmi del dinamismo psicobiologico, i momenti di stanchezza e di angoscia, di speranza e di confidenza, di intontimento e di sonno, con relative pulsioni e ritorsioni su chi ci sta attorno. Ma la fede matura così, umilmente, nei passi della vita: strana misteriosa miscela, tra una ferita “dentro” e una “vocazione” ad uscire fuori, cioè una “debolezza” chiamata a compimento. Attratti e accompagnati da un’inafferrabile colonna di fuoco e di nebbia, in una luce chiaroscura, che vuole uno sbilanciamento verso di “lui” che, se un poco soltanto ti inoltri, già rimani comunque senza vedere né sapere cos’avverrà nel cammino – e dove si va… Però, vale la pena comunque di andarci!» [Giuliano].

2 commenti:

maria sole ha detto...

Grazie per la memoria dei commenti che ci riproponi, mai abbastanza ricordati. Grazie per il tuo e nostro guardarci dentro e della sottile speranza che infondono le parole: "però, vale la pena comunque andarci!" Buon onomastico, oggi è Santa Chiara.....

chia ha detto...

grazie per quanto scrivi e per gli auguri!

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