Le letture che la Chiesa ci propone per questa ventunesima domenica del Tempo Ordinario, potrebbero indurre chi le ascolta – soprattutto chi le ascolta oggi, in una cultura cattolica che ha una scarsa frequentazione del testo biblico, ma che ha già assimilato nel DNA le spiegazioni che la cristianità ha trasmesso – due immediate e rapide interpretazioni, che – bisogna riconoscerlo – sono quasi istintive nella lettura dei testi, del vangelo soprattutto.
Innanzitutto l’interpretazione più “classica”, quella per cui qui si starebbe dicendo che a salvarsi sono proprio pochi! È un’interpretazione che segue più o meno questo ragionamento: se un tale chiede a Gesù «Signore, sono pochi quelli che si salvano?» e lui risponde «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno» (con tutta la parabola al seguito), vuol dire che il Signore sta dicendo che in paradiso vanno in pochi, quelli che – con grandi sforzi – sono riusciti a entrare nella porta stretta. E solitamente gli sforzi sono istintivamente identificati con digiuni, sacrifici, preghiere, mortificazioni, ecc…, cioè con ciò che tradizionalmente ha rappresentato l’itinerario per la via di perfezione.
Vi è poi una seconda immediata interpretazione, più “moderna”, ma ormai altrettanto automatica: quella che fa riferimento agli ultimi versetti contenuti nel vangelo («Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, voi invece cacciati fuori. Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi») in associazione con la prima lettura («Io verrò a radunare tutte le genti e tutte le lingue…»). Si tratta cioè dell’interpretazione per cui qui si sta parlando della salvezza puntando soprattutto sul fatto che essa non dipenda automaticamente dall’appartenenza (formale o di sangue) ad un popolo eletto (Israele o la Chiesa), ma che appunto – per salvarsi – sia necessario uno sforzo personale, una vita esemplare… per questo possibile a tutti (ai membri di tutti i popoli) e non dato per “nascita”.
A livello di reazioni emotive immediate, non si può nascondere che mentre la prima interpretazione disturba, la seconda non basta. Si tratta di sensazioni di “pancia”, certo, quindi anche facilmente “smontabili” (basterebbe per esempio dire che la prima interpretazione ci disturba perché propone un itinerario troppo difficile, che non vogliamo seguire), eppure a me hanno insegnato un immenso rispetto per le viscere di carne, perché non sono mai solo carne. E allora, se di fronte a qualcosa, reagiamo col “mal di pancia”, vuol dire che abbiamo intercettato qualcosa che la nostra testa ancora non ha visto e razionalizzato, ma che merita la nostra attenzione. Il processo di portare a ragione (e a linguaggio) quanto la pancia “dice” è delicatissimo – troppo facilmente connotiamo le nostre sensazioni con le interpretazioni che ci fanno più comodo – ma un sano allenamento in proposito, aiuta davvero a smascherarsi, disingannarsi, mostrarsi – almeno di fronte a se stessi – in trasparenza.
Ebbene, io credo che le nostre viscere di carne reagiscano a queste interpretazioni così istintive non perché esse siano sbagliate – anzi sicuramente per la cultura, il linguaggio e le situazioni in cui sono sorte sono state adeguate e davvero capaci di trasmettere il messaggio cristiano – ma perché – per la cultura, il linguaggio e le situazioni odierne – esse risultano sfuocate, come poste a partire da un punto prospettico non ideale. Entrambe le interpretazioni infatti danno per scontato che la domanda posta da quel tale che Gesù incontra sul suo cammino verso Gerusalemme («Signore, sono pochi quelli che si salvano?»), sia corretta, dimenticando invece che Gesù – come in tante altre occasioni – elude la richiesta specifica della domanda postagli e – nella risposta – cambia il livello del discorso e dimenticando soprattutto che – se avesse dovuto rispondere direttamente alla domanda in questione – avrebbe probabilmente usato le espressioni che in un passo parallelo, l’evangelista Matteo gli mette in bocca: «Gesù allora disse ai suoi discepoli: “In verità io vi dico: difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli. Ve lo ripeto: è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio”. A queste parole i discepoli rimasero molto stupiti e dicevano: “Allora, chi può essere salvato?”. Gesù li guardò e disse: “Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile”» (Mt 19,23-26).
Le nostre interpretazioni immediate vanno in cortocircuito proprio a questo riguardo, cioè nel presupposto per cui all’uomo (A pochi? Solo agli ebrei? Solo ai cristiani? Solo a chi ha un comportamento moralmente adeguato?) sia possibile salvarsi e dunque sia giusto mettere in atto tutto ciò che serve per “pagare a Dio il proprio prezzo” (cfr. Sal 49,7-10), facendo assumere alla domanda «Signore, sono pochi quelli che si salvano?» non tanto la connotazione di un interesse (per quanto ansioso) per la salvezza di tutti, quanto piuttosto l’intonazione di una rivendicazione per sé: se infatti in qualche modo “c’è da salvarsi” e per farlo è necessario intraprendere un duro percorso (una porta stretta), allora tutti quelli che “non ce la fanno” o “non ce la vogliono fare” (come spesso con arroganza noi presupponiamo) devono essere esclusi… è questione di giustizia (!)… umana.
Se così fosse, il Grande Inquisitore di Dostoevskij avrebbe tutte le ragioni per rivolgersi a Gesù dicendogli: «Il Tuo grande profeta dice nella sua visione e nella sua parabola di aver visto tutti i partecipi della prima resurrezione e che ce n’erano dodicimila per ciascuna tribú. Ma se erano tanti, vuol dire che quelli erano piú dèi che uomini. Essi sopportarono la Tua croce, essi sopportarono diecine d’anni di vita famelica nel nudo deserto, cibandosi di cavallette e di radici; e certo Tu puoi appellarti con orgoglio a questi eroi della libertà, dell’amore libero, del libero e magnifico sacrificio da essi compiuto in nome Tuo. Ma ricordati che erano in tutto appena alcune migliaia, ed erano per giunta degli dèi, ma i rimanenti? E che colpa hanno gli altri, gli uomini deboli, di non aver potuto sopportare ciò che i forti poterono? Che colpa ha l’anima debole, se non ha la forza di accogliere cosí terribili doni? Possibile che Tu sia venuto davvero solo agli eletti e per gli eletti?».
Eppure il Gesù che pronuncia le parole odierne («Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno») è lo stesso che racconta la parabola di Mt 20,1-16 (che curiosamente si conclude con la stessa espressione del nostro testo: «gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi»), nella quale il padrone della vigna paga allo stesso modo tutti gli operai (sia quelli che hanno lavorato per un’intera giornata, che quelli che hanno lavorato un’ora sola… per questione di giustizia (!)… divina).
Ma se tutto questo è vero, se cioè si può ben dire che non è l’uomo che si salva («Essi confidano nella loro forza, si vantano della loro grande ricchezza. Certo, l’uomo non può riscattare se stesso né pagare a Dio il proprio prezzo. Troppo caro sarebbe il riscatto di una vita: non sarà mai sufficiente per vivere senza fine e non vedere la fossa», Sal 49,7-10), che anzi «questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile”» (Mt 19,23-26); che Dio non segue i nostri stretti criteri contabili e non ha il desiderio di fare una selezione eroica che – dopo uno stillicidio di pusillanimi – tenga solo “chi se lo è meritato davvero”, ma – come dice Paolo a Timoteo – «vuole che tutti gli uomini siano salvati» (1 Tim 2,4), in che senso vanno interpretate le parole che pronuncia nel vangelo di Luca che la liturgia ci propone questa domenica («Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno. Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: “Signore, aprici!”. Ma egli vi risponderà: “Non so di dove siete”. Allora comincerete a dire: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze”. Ma egli vi dichiarerà: “Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia!”. Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, voi invece cacciati fuori. Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi»)?
In che cosa bisogna sforzarsi, se il Regno è un dono e non una conquista? Perché si parla di porta stretta, se anche gli operai dell’ultima ora ricevono la stessa paga di chi ha lavorato tutto il giorno? E in cosa consiste l’ingiustizia di cui sono colpevoli coloro che non vengono riconosciuti e allontanati? E perché questo tono minaccioso da parte di Gesù, così diverso da come siamo abituati a percepirlo (nel vangelo, non nel nostro cuore, dove il germe infetto del dio giudice implacabile si è incistato irrimediabilmente - ? - )?
Forse il modo migliore per approcciare queste domande è quello di guardarle non a partire dalle nostre paure (di un Dio che ci castigherà, ci manderà all’inferno, ci farà finire nel niente, ecc, ecc, ecc…), ma a partire dalla sua identità, cioè dalla sua storia. A partire dalla sua predicazione (dal suo vangelo) non c’è dubbio che il Regno sia un dono e non una conquista. Eppure bisogna, sì, sforzarsi… Sforzarsi in cosa? E per che cosa? Per chi? Non sforzarsi ad una conquista che è impossibile (un’impossibilità a salvarci da soli con la quale davvero – prima o poi – drasticamente ci dobbiamo scontrare, per arrivare a dire con Elia «Non sono migliore dei miei padri» e fare un sano bagno nell’umiltà – quella vera di quando ti torvi col sedere per terra e non quella finta che compiacente ti “autoprovochi” – fonte zampillante e rigenerante della misericordia – per sé e per gli altri – e per questo tanto cara ai suoi cantori), bensì – dentro ad un regalo – sforzarsi (ora sì! Perché non è più nostro, ma Suo il regalo!) per farsi carico della responsabilità in gioco: se infatti il regalo è la salvezza, cioè non tanto e non solo un mero perdurare in vita dopo la morte, ma un’inondazione di amore e tenerezza che scardina le durezze interiori e ci fa essere veramente noi stessi (perché solo dentro all’alveo dell’accoglienza benevola e innamorata si percorrono le strade interiori della trasparenza) in eterno, lo “sforzarsi” prende i connotati del far circolare il regalo (che se no ti marcisce in mano, proprio per la natura intrinseca dell’amore, che se non è dato, muore), dedicando una vita ad alzare il tasso di amore nel mondo! Sapendo che non siamo capaci, ma ricominciando sempre ad allargare il cuore. Ecco la porta stretta: chi ha provato a vivere così è infatti morto in croce, o perseguitato, o esiliato… Ed ecco l’inusuale tono minaccioso… ma è proprio come quello di chi ci vuole bene e le prova tutte a convincerci di qualcosa di cui è convinto che sia il nostro Bene, la nostra salvezza… quasi minacciando di sculacciarci se non lo facciamo, ma non perché vuole sculacciarci (se non lo facciamo mica ci sculaccia davvero), ma per provarle proprio tutte… a farci accettare il suo regalo ed entrare nel circuito dell’amore che per contagio si diffonde.
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