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venerdì 9 agosto 2013

XIX Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro della Sapienza (Sap 18,6-9)

La notte [della liberazione] fu preannunciata ai nostri padri, perché avessero coraggio, sapendo bene a quali giuramenti avevano prestato fedeltà. Il tuo popolo infatti era in attesa della salvezza dei giusti, della rovina dei nemici. Difatti come punisti gli avversari, così glorificasti noi, chiamandoci a te. I figli santi dei giusti offrivano sacrifici in segreto e si imposero, concordi, questa legge divina: di condividere allo stesso modo successi e pericoli, intonando subito le sacre lodi dei padri.

 

Dalla lettera agli Ebrei (Eb 11,1-2.8-19)

Fratelli, la fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede. Per questa fede i nostri antenati sono stati approvati da Dio. Per fede, Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava. Per fede, egli soggiornò nella terra promessa come in una regione straniera, abitando sotto le tende, come anche Isacco e Giacobbe, coeredi della medesima promessa. Egli aspettava infatti la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso. Per fede, anche Sara, sebbene fuori dell’età, ricevette la possibilità di diventare madre, perché ritenne degno di fede colui che glielo aveva promesso. Per questo da un uomo solo, e inoltre già segnato dalla morte, nacque una discendenza numerosa come le stelle del cielo e come la sabbia che si trova lungo la spiaggia del mare e non si può contare. Nella fede morirono tutti costoro, senza aver ottenuto i beni promessi, ma li videro e li salutarono solo da lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sulla terra. Chi parla così, mostra di essere alla ricerca di una patria. Se avessero pensato a quella da cui erano usciti, avrebbero avuto la possibilità di ritornarvi; ora invece essi aspirano a una patria migliore, cioè a quella celeste. Per questo Dio non si vergogna di essere chiamato loro Dio. Ha preparato infatti per loro una città. Per fede, Abramo, messo alla prova, offrì Isacco, e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unigenito figlio, del quale era stato detto: «Mediante Isacco avrai una tua discendenza». Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti: per questo lo riebbe anche come simbolo.

 

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 12,32-48)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno. Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma. Perché, dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore. Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito. Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro! Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. Anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo». Allora Pietro disse: «Signore, questa parabola la dici per noi o anche per tutti?». Il Signore rispose: «Chi è dunque l’amministratore fidato e prudente, che il padrone metterà a capo della sua servitù per dare la razione di cibo a tempo debito? Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così. Davvero io vi dico che lo metterà a capo di tutti i suoi averi. Ma se quel servo dicesse in cuor suo: “Il mio padrone tarda a venire”, e cominciasse a percuotere i servi e le serve, a mangiare, a bere e a ubriacarsi, il padrone di quel servo arriverà un giorno in cui non se l’aspetta e a un’ora che non sa, lo punirà severamente e gli infliggerà la sorte che meritano gli infedeli. Il servo che, conoscendo la volontà del padrone, non avrà disposto o agito secondo la sua volontà, riceverà molte percosse; quello invece che, non conoscendola, avrà fatto cose meritevoli di percosse, ne riceverà poche. A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più».

 

I testi che la Chiesa ci propone per questa Diciannovesima Domenica del Tempo Ordinario, sono assai densi, ed anche meno immediati di altri… è come richiesta una certa fatica “nell’entrarci”…

Mi pare però che un’illuminante chiave di lettura possa essere quella proposta da don Bruno Maggioni, quando scrive: «Dopo le direttive sull’uso dei beni, le parole che Luca ha qui raccolte entrano più direttamente nel tema della vigilanza, che non è anzitutto un elenco di cose da fare, ma una tensione dello spirito, un orientamento di fondo nei confronti delle situazioni di vita. Ma prima di precisare i contorni della vigilanza (un atteggiamento complesso, dalle molte sfaccettature), occorre una parola sui destinatari, che Luca designa con un’espressione insolita: “piccolo gregge”. Chi sono? L’espressione è una variante di un’altra più frequente coniata dai profeti dell’Antico Testamento: “il resto di Israele”. Si tratta di quella “minoranza” di autentici fedeli che nell’abbandono generale delle leggi del Signore rimangono ostinatamente attaccati alla loro fede. La loro prima caratteristica è dunque la minoranza, cosa che può far sorgere in alcuni il dubbio e la frustrazione. Ma a torto: la storia di Israele, di Gesù e della chiesa dimostra al contrario che la forza di Dio passa proprio attraverso minoranze. La seconda caratteristica è la fedeltà ostinata: in un mondo dove i più – o per comodità o per paura – si accodano agli ideali del momento, il piccolo gregge mantiene vive le promesse del Signore. E la terza caratteristica è il servizio: il piccolo gregge mantiene in vita valori che poi torneranno a vantaggio di molti, e in nessun modo si isola dal mondo, ma rimane giù nella piazza, dove gli uomini si incontrano e si scontrano. […] Si tratta di un gregge che è “piccolo” e tuttavia è da intendere bene. Minoranze sì, ma che si incontrano dovunque: nella chiesa, nelle altre religioni, in tutte le razze, in ogni popolo. Sono la forza di Dio: non confidano nell’odio o nella violenza o nella potenza. Confidano in Dio, nel rispetto di ogni uomo, nella libertà, nell’amore. Desiderano servire e hanno fame e sete di un mondo più giusto. E per costruirlo sono pronti a rimetterci. È a costoro che il discorso sulla vigilanza è particolarmente rivolto» [il racconto di Luca, 244].

La citazione è un po’ lunga, ma mi pare aiuti a collocare bene questo testo evangelico che – purtroppo – istintivamente ci rimanda a interpretazioni che (chissà come sono quasi innate in noi?) fanno presagire un automatismo meccanico tra venuta del Signore e condanna: “Se la fine della storia venisse di notte, si salverebbe solo l’altro emisfero dove la maggior parte delle persone non sarebbero a letto a dormire?”. È un esempio sciocco, ma noi ci ritroviamo a pensare anche questo…

Ma che volto stiamo dando al Signore quando pensiamo di Lui così? Quando lo associamo alla condanna, tradiamo il suo vangelo (dove mai si trova gesto o parola maledicente di Gesù verso chicchessia e le parole di “condanna” appartengono sempre al genere letterario dell’ammonimento, come quando una mamma dice: “Se me ne combini un’altra, ti spolpo!”)… quando lo associamo alla condanna automatica poi… dimentichi che seppur collocati sempre in un “attimo fuggente” noi non coincidiamo con quell’attimo, ma siamo una storia – abitata indubbiamente anche da tanti pasticci… ma anche da tanti spiraglietti di luce – eterni.

La lunga citazione allora mi pare possa servire a capire davvero il senso di quanto Gesù dice… perché il testo non è un ammonimento generico e astorico, del tipo: quando Dio arriva, si salvi chi può! Ma parla ad un destinatario preciso… parla della vigilanza del “piccolo gregge”, non della gente in generale, dunque, che a noi fa così comodo nei nostri ragionamenti catalogare come le masse che si perderanno perché peccatrici (e quante la Chiesa ne ha trattate in questo modo di masse…), ma alla minoranza di quelli che «conoscono la volontà del padrone».

Di quella “minoranza” spesso ci sentiamo parte anche noi (magari incapaci di restare fedeli al suo lato ruvido – a quell’“essere pronti a rimetterci” – o al suo lato inclusivo – a volte infatti il nostro sentirci “minoranza” è chiuso e aggressivo verso gli altri – ma questo non toglie la realtà del nostro appartenervi). E mi pare molto interessante il fatto che Gesù scelga di destinare questo tipo di parole a chi si sente (o è) solo (i più fortunati sono in – troppo – pochi) a portare avanti una logica disomogenea di benevolenza, fraternità, tenerezza, rispetto alle classiche dinamiche umane che ripropongono invece continuamente competizione e sopraffazione (fuori e dentro la chiesa / fuori e dentro noi stessi).

Ecco, dentro a questa solitudine o esiguità numerica (a volte irrisoria ed irrisa) si annida il pericolo che Gesù denuncia e – con la sua parola («Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno») – vuole disinnescare: il “prendere paura” di una solitudine che a differenza dei padri (che come dice il libro della Sapienza «sapevano bene a quali giuramenti avevano prestato fedeltà») non riesce più a riconoscere «degno di fede colui che gli aveva promesso» che “c’abbiamo ragione noi!” (come diceva don Primo Mazzolari, davanti allo specchio con un bicchiere di vino in mano!)… perché questa disomogeneità frustrante, che scava dentro un vuoto angoscioso, troppo spesso dimentica che non si tratta di un’assenza muta, ma di un’attesa amante («Siate pronti…», «siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze…», «Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli…», «E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro!», «Anche voi tenetevi pronti…», «Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così…»)… proprio come quella disposizione interiore che abbiamo quando aspettiamo il ritorno di qualcuno che amiamo davvero (un figlio, il nostro amato, qualcuno che abbiamo proprio piacere di avere tra noi…), trepidando, sognando, sorridendo…

In questo «Una processione di padri e di madri ci fanno da testimoni [cfr. la lettere agli Ebrei, cap. 11]… Talora si vedono, talora si intravedono soltanto. Ci vogliono tante parole ed esempi, a noi piccoli, per cercare di dirsi, raccontarsi … la fede. Ma ognuno ha dentro di sé (ma che fatica accoglierli!) i minuscoli indizi persuasivi di un volto “velato” che chiama, che spinge, che provoca… ad imbarcarsi, nonostante la paura, nel viaggio, a tentoni, nell’attesa / scoperta di cose e situazioni e vicende impreviste, che il Signore ha preparato, chiamandoci a reinventare con noi, adesso… un modo nuovo di stare, nella vita e nella morte. Nella fede morirono tutti costoro, pur non avendo conseguito i beni promessi, ma avendoli solo veduti e salutati di lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sopra la terra. Noi, piccoli discepoli di Gesù, viviamo simultaneamente nell’antica e nella nuova situazione del credente, privilegiati di aver toccato in Cristo l’adempimento della promessa del regno “vicino, in mezzo a noi”, ammaliati dalla certezza che stiamo camminando verso una città diversa, il cui architetto è Dio – ma anche lacerati (delusi!?) dalla conclamata irreperibilità di questa città, ‑ feriti dall’innegabile distanza della salvezza, nostra e di troppi disperati abbandonati» [Giuliano].

Dentro qui credo che siano due i modi evangelici per vegliare: innanzitutto una sorta di alleanza con chi ci è fratello nell’attesa: «I figli santi dei giusti offrivano sacrifici in segreto e si imposero, concordi, questa legge divina: di condividere allo stesso modo successi e pericoli»… un po’ come Gesù, che nell’agonia cercava la “compagnia dei fratelli”: «Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia. Disse loro: “La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate”» [Mc 14,33-34].

Con la consapevolezza sorda però – ed è quella che apre al secondo modo di vegliare – che «li trovò addormentati»… cioè che c’è una soglia oltre la quale si è da soli davvero, nella propria nudità radicale, a decidersi per il restare svegli nella propria disomogeneità. «La vocazione cristiana trova qui la sua appassionante e difficile dimensione quotidiana ‑ compresi i ritmi del dinamismo psicobiologico, i momenti di stanchezza e di angoscia, di speranza e di confidenza, di intontimento e di sonno, con relative pulsioni e ritorsioni su chi ci sta attorno. Ma la fede matura così, umilmente, nei passi della vita: strana misteriosa miscela, tra una ferita “dentro” e una “vocazione” ad uscire fuori, cioè una “debolezza” chiamata a compimento. Attratti e accompagnati da un’inafferrabile colonna di fuoco e di nebbia, in una luce chiaroscura, che vuole uno sbilanciamento verso di “lui” ‑ che, se un poco soltanto ti inoltri, già rimani comunque senza vedere né sapere cos’avverrà nel cammino – e dove si va… Però, vale la pena comunque di andarci!» [Giuliano].

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