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lunedì 12 gennaio 2015

II Domenica del tempo ordinario


Dal primo libro di Samuèle (1Sam 3,3-10.19)

In quei giorni, Samuèle dormiva nel tempio del Signore, dove si trovava l’arca di Dio. Allora il Signore chiamò: «Samuèle!» ed egli rispose: «Eccomi», poi corse da Eli e gli disse: «Mi hai chiamato, eccomi!». Egli rispose: «Non ti ho chiamato, torna a dormire!». Tornò e si mise a dormire. Ma il Signore chiamò di nuovo: «Samuèle!»; Samuèle si alzò e corse da Eli dicendo: «Mi hai chiamato, eccomi!». Ma quello rispose di nuovo: «Non ti ho chiamato, figlio mio, torna a dormire!». In realtà Samuèle fino allora non aveva ancora conosciuto il Signore, né gli era stata ancora rivelata la parola del Signore. Il Signore tornò a chiamare: «Samuèle!» per la terza volta; questi si alzò nuovamente e corse da Eli dicendo: «Mi hai chiamato, eccomi!». Allora Eli comprese che il Signore chiamava il giovane. Eli disse a Samuèle: «Vattene a dormire e, se ti chiamerà, dirai: “Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta”». Samuèle andò a dormire al suo posto. Venne il Signore, stette accanto a lui e lo chiamò come le altre volte: «Samuéle, Samuéle!». Samuèle rispose subito: «Parla, perché il tuo servo ti ascolta». Samuèle crebbe e il Signore fu con lui, né lasciò andare a vuoto una sola delle sue parole.

 

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi (1Cor 6,13-15.17-20)

Fratelli, il corpo non è per l’impurità, ma per il Signore, e il Signore è per il corpo. Dio, che ha risuscitato il Signore, risusciterà anche noi con la sua potenza. Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? Chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito. State lontani dall’impurità! Qualsiasi peccato l’uomo commetta, è fuori del suo corpo; ma chi si dà all’impurità, pecca contro il proprio corpo. Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo, che è in voi? Lo avete ricevuto da Dio e voi non appartenete a voi stessi. Infatti siete stati comprati a caro prezzo: glorificate dunque Dio nel vostro corpo!

 

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 1,35-42)

In quel tempo Giovanni stava con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l’agnello di Dio!». E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: «Che cosa cercate?». Gli risposero: «Rabbì – che, tradotto, significa maestro –, dove dimori?». Disse loro: «Venite e vedrete». Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio. Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito, era Andrea, fratello di Simon Pietro. Egli incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia» – che si traduce Cristo – e lo condusse da Gesù. Fissando lo sguardo su di lui, Gesù disse: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa» – che significa Pietro.

 

Domenica scorsa abbiamo celebrato la festa del Battesimo del Signore: essa concludeva il Tempo di Natale e inaugurava il Tempo Ordinario; non a caso il vangelo faceva riferimento al primo atto della vita pubblica di Gesù, il Battesimo al Giordano, appunto.

Si è trattato dunque di una “domenica ponte”.

Questa settimana, invece, a tutti gli effetti inizia il Tempo Ordinario. In questa prospettiva mi sembra interessante che tutte e tre le letture narrino l’“inizio” di qualche storia: quella di Samuele, quella della comunità cristiana di Corinto, quella di Gesù e dei suoi discepoli.

Come a dire che ciò su cui è ora necessario sintonizzarsi è l’inizio, gli inizi: quelli originari della nostra vita, della nostra fede, delle nostre relazioni, delle nostre scelte, ma anche quelli congiunturali, quotidiani… i nuovi inizi a cui siamo sempre in qualche modo chiamati dalla storia.

In questo senso la coincidenza con il ricominciamento dell’anno sociale, la riapertura delle scuole, ecc… è un’ulteriore convergenza verso questo invito a soffermarsi sull’iniziare o il ri-iniziare.

E allora veniamo alle tre storie che ci raccontano le letture, non tanto o non solo mettendoci alla ricerca di suggerimenti e indicazioni che possano orientare i nostri inizi, ma provando ad immedesimarci in esse, perché – come suggerisce in un bellissimo testo uno dei teologi più importanti del XX secolo, H.U. Von Balthasar – «Non è soltanto un “esercizio pio” se io mi metto al posto di questi uomini e donne e recito la loro parte: non solo la posso recitare, la devo recitare questa parte, anzi io sono da lungo tempo coinvolto in questo dialogo senza che me ne sia stato chiesto il permesso. […] È troppo poco vedere negli incontri e colloqui del Vangelo soltanto “esempi”, allo stesso modo che, poniamo, un’opera epica presenta esempi di coraggio, ad imitare i quali si sente incitato il ragazzo che legge. Giacché la Parola, che là si è fatta carne per poter parlare con noi, intende in ogni singola volta ogni reale singola volta, intende in ogni peccatore che si converte ogni peccatore, in ogni ascoltatore che è seduto ai suoi piedi ogni ascoltatore» [H.U. Von Balthasar, Nella preghiera di Dio, Jaka Book, Milano 1983, 13-14].

In questi due primi discepoli che vedono Giovanni Battista fissare gli occhi su Gesù e dire “Ecco l’agnello di Dio”, c’è dunque ognuno di noi.

La scelta di questi due – a fronte di questa indicazione, dell’indicazione del loro maestro, così libero da farli andare dietro ad un altro – è quella di seguire Gesù e sentirsi chiedere “Che cosa cercate?”.

Sono le prime parole che l’evangelista Giovanni mette in bocca a Gesù nel suo vangelo: “Che cosa cercate?”.

Noi che cosa cerchiamo? Perché se è vero quanto diceva Balthasar, questa domanda di Gesù non è solo per quei due, ma è rivolta a ciascuno di noi.

Certo, è una domanda che ci siamo indubbiamente già posti chissà quante altre volte in vita… e che tuttavia è sempre necessario far riemergere: Che cosa cercate? Chi cerchiamo di più nella vita? E perché?

«Gli risposero: “Rabbì – che, tradotto, significa maestro –, dove dimori?”. Disse loro: “Venite e vedrete”. Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio». L’ora decima.

E noi? Siamo andati a vedere? E cosa abbiamo visto? Anche noi ci ricordiamo le nostre “ore decime”, le pietre miliari che hanno segnato il nostro itinerario fino a qui?

Io credo che all’alba di un nuovo inizio sia indispensabile fare memoria della nostra ora decima; ri-accedere a quello squarcio del cuore che il Signore, passando, ci ha lasciato, incandescente – come quello di Isaia, quando il serafino gli mise un carbone ardente sulle labbra –, e che ancora ci fa fremere quando lo guardiamo; credo sia indispensabile tornare a guardare a quell’entusiasmo tenero e ingenuo (eppure così “più vero” dei nostri cervellotici e sterili e tristi ragionamenti prudenti e compromissori) che l’inizio della storia di Samuele nella prima lettura dipinge così bene…

Per tornare anche noi ad andare e a vedere e a rimanere con Lui e a raccontare con le lacrime agli occhi «Abbiamo trovato il Messia», abbiamo cioè trovato quella relazione che dà senso e compimento al nostro orizzonte vitale e all’interno del quale trovano una collocazione tutte le nostre scelte, le nostre relazioni, le nostre identità, i nostri lutti e le nostre esultanze.

 

E poi c’è la seconda lettura, che se si riuscisse a leggere senza una pre-comprensione moralista o sessuofoba (che ce lo renderebbe antipatico), svela tutta la sua grandezza e bellezza: a una comunità al suo inizio, Paolo ricorda che ciò che avviene nel nostro corpo si scrive dentro al nostro cuore (come le terribili storie di violenza sulle donne e sui bambini o sui deboli in generale troppo spesso ci hanno testimoniato, vedendo quanto li hanno segnati in profondità). E allora Paolo dice “Cercate di non fare pasticci”, perché l’amore nel corpo, che è la cosa più bella in vita ed è la più bella perché è quella che raggiunge di più la profondità di ciò che siamo (addirittura è il luogo privilegiato dell’incontro col Signore: «il Signore è per il corpo» / «Chi si unisce al Signore [nel corpo = chi fa l’amore con lui – non a caso appena prima, nella parte di versetto omesso, si cita il fare l’amore con la prostituta] forma con lui un solo spirito»), proprio per la sua potenzialità inarrivabile da qualunque altro esercizio umano, se usata male (per il male) fa male più di qualsiasi altro esercizio umano. Ecco cosa intendeva giustamente la Chiesa quando suggeriva che qui dentro c’era una materia grave, cioè pesante, seria, a rischio di dolorosità potente.

Io credo che su questo si dovrebbe fondare il tentativo degli adulti di “educare” i piccoli: il corpo è il massimo della possibilità d’amore agli altri e a Dio, e infatti solo quando la mano di un altro / di un’altra (che non siano nostro padre o nostra madre) ci tocca nel corpo sperimentiamo e impariamo cos’è l’amore (il medesimo cui facciamo riferimento quando lo associamo a Dio e ai fratelli)… ed è proprio per questo che il nostro corpo (e quello degli altri) va custodito e amato. Credo infatti che tanti facendo memoria delle loro “ore decime” le ricorderanno come eventi che li hanno toccati nel corpo.

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