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lunedì 16 settembre 2013

XXV Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro del profeta Amos (Am 8,4-7)

Il Signore mi disse: «Ascoltate questo, voi che calpestate il povero e sterminate gli umili del paese, voi che dite: “Quando sarà passato il novilunio e si potrà vendere il grano? E il sabato, perché si possa smerciare il frumento, diminuendo l’efa e aumentando il siclo e usando bilance false, per comprare con denaro gli indigenti e il povero per un paio di sandali? Venderemo anche lo scarto del grano”». Il Signore lo giura per il vanto di Giacobbe: «Certo, non dimenticherò mai tutte le loro opere».

 

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo a Timòteo (1Tm 2,1-8)

Figlio mio, raccomando, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo condurre una vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio. Questa è cosa bella e gradita al cospetto di Dio, nostro salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità. Uno solo, infatti, è Dio e uno solo anche il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti. Questa testimonianza egli l’ha data nei tempi stabiliti, e di essa io sono stato fatto messaggero e apostolo – dico la verità, non mentisco –, maestro dei pagani nella fede e nella verità. Voglio dunque che in ogni luogo gli uomini preghino, alzando al cielo mani pure, senza collera e senza contese.

 

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 16,1-13)

In quel tempo, Gesù diceva ai discepoli: «Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: “Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare”. L’amministratore disse tra sé: “Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua”. Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: “Tu quanto devi al mio padrone?”. Quello rispose: “Cento barili d’olio”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”. Poi disse a un altro: “Tu quanto devi?”. Rispose: “Cento misure di grano”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta”. Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce.

1- Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne.

2- Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra?

3- Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza».

 

Il vangelo che la Chiesa ci propone in questa Venticinquesima Domenica del Tempo Ordinario, è uno di quei testi che va letto diverse volte, prima che riesca a convincere di essere davvero tratto dal Nuovo Testamento – «fatevi degli amici con la ricchezza disonesta» (?!?) – e prima che si colga bene quel che vuole arrivare a dire: la spiegazione della parabola sembra infatti continuamente correggersi… in principio c’è una lode per l’amministratore disonesto («Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza»), ma subito sembra che egli sia da far rientrare nella categoria dei “figli di questo mondo” in opposizione ai “figli della luce” («I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce»); vi è poi l’invito sconcertante «fatevi degli amici con la ricchezza disonesta», seguito però subito da un’affermazione che pare screditare la disonestà: «Chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra? Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza».

Per cercare di chiarire un po’ i termini della questione, va innanzitutto detto che il testo va diviso in due parti: c’è la parabola propriamente detta, che termina al v. 8, seguita da 3 detti (come si vede dalla divisione del testo), di cui solo il I sembra strettamente legato alla parabola, mentre gli altri due sembrano posti qui quasi per assonanza gergale o tematica.

Iniziamo con la parabola, chiarendo alcuni termini che – tradotti in maniera più precisa dal greco – possono dare un’intonazione diversa al testo.

Innanzitutto il verbo “sperperare” riportato nel primo versetto come motivo d’accusa contro l’amministratore. Il termine “sperperare/dilapidare”, ricorre nel NT solo altre 4 volte:

-          In Lc 15,13: «Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto»;

-          In Mc 14,27: «Gesù disse loro: «Tutti rimarrete scandalizzati, perché sta scritto: Percuoterò il pastore e le pecore saranno disperse»;

-          In Gv 11,51-52: «Questo però non lo disse da se stesso, ma, essendo sommo sacerdote quell’anno, profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione; e non soltanto per la nazione, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi»;

-          E in At 5,37: «Dopo di lui sorse Giuda il Galileo, al tempo del censimento, e indusse gente a seguirlo, ma anche lui finì male, e quelli che si erano lasciati persuadere da lui si dispersero».

C’è dunque – nel significato del verbo – un’eco che ha a che vedere con la dispersione. Esattamente come il figliol prodigo, questo amministratore ha dunque disperso i beni del suo padrone.

Anch’egli – come il figliol prodigo (parabola, che a mio giudizio, non a caso è immediatamente precedente a questa) – è come costretto a fare i conti con la sua scelta di immergersi nella storia, negli affari della vita: quello per fame, questo perché licenziato dal padrone. Per entrambi c’è come un impatto con la storia che li costringe a uscire dal quotidiano svolgersi della loro vita. Entrambi sono costretti – dalla situazione – a ragionare (di entrambi è raccontato cosa andavano pensando tra sé e sé) e a decidersi.

Entrambe le loro decisioni incontrano un inaspettato (e scandaloso?) esito positivo: il figliol prodigo può sperimentare l’amore del padre (per il suo ritorno, scandalosamente determinato dalla fame, non da altro), l’amministratore può addirittura sperimentare la lode del suo padrone (per l’essere stato “avveduto”, amministrando scandalosamente in maniera ancora più “dispersiva” i beni del padrone).

Ho scritto “avveduto” e non “scaltro” perché il termine greco è proprio quello: «Il padrone lodò l’amministratore ingiusto perché aveva fatto avvedutamente; poiché i figli di questo mondo sono più avveduti dei figli della luce». Dove questo “avveduti” indica contemporaneamente la lucidità di avvertire la gravità della situazione, la prontezza nel cercare soluzioni, il coraggio di prendere decisioni.

Non a caso il termine è l’esatto contrario dell’aggettivo attribuito ad un altro personaggio di un’altra parabola di Luca, chiamato “stolto” per aver accumulato senza tener conto che quella notte stessa sarebbe morto (cfr. Lc 12,20).

Il centro della parabola è dunque questa avvedutezza, che si determina nella ricerca di qualcuno che lo possa accogliere in casa sua – dice la parabola – di “amici” – come dirà il primo detto: «Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne».

Il problema – a mio avviso – non è dunque tanto morale (come usare delle ricchezze?), ma esistenziale: come collocarsi nell’esistenza? Pare dire Gesù: creando relazioni di amicizia, di domesticità… coltivando terreni (del cuore) capaci di accoglierci… di accoglierci così tanto che – dice il primo detto – quando sarà ora di morire, troveremo là – sotto alle tende eterne del Padre – qualcuno che ci riconosce e che picchia dentro col gomito al Signore (che intanto si sta dicendo: “Io questo mica lo conosco”, cfr. Mt 25,13) e gli dice: “Quello lo conosco io!...

… una volta mi ha tolto un pezzo di debito… o … una volta l’ho preso in casa perché era stato licenziato!”.

Una duplicità che il vangelo suggerisce, questa del dare e del ricevere… in maniera per nulla gratuita…

Che – perlomeno a me – rinfranca un po’ il cuore… sempre un po’ disperso nel tentativo di amori “puri”, “inequivocabilmente gratuiti”, “affrancati dalla necessità del contraccambio”, “capaci di dedizione unilaterale”…

Che sono cose “sacre” a cui il vangelo ci richiama, ma che se diventano il nostro ideale di perfezione (perché – ancora una volta – emerga il nostro “io”), perdono di umanità e terrestrità… come ogni altro ideale di perfezione (sacrale, moralistico, spiritualistico, ecc…).

Mi sembra molto più nella prospettiva evangelica invece riconoscerci sempre impastoiati di necessità e convenienza (in tutti i nostri amori) – mai assoluti, dicevamo settimana scorsa, sempre storici – e contemporaneamente sempre capaci – in questa marasma che sono i nostri tentativi relazionali, fatti di emozioni, chimica, umori, ideali, tabù, confini – di quella gratuità che arriva anche a dare la vita. Sempre insieme, contemporaneamente, l’una e l’altra cosa: come si vede bene nella figura del poliziotto nel film Magnolia, per chi l’ha visto.

 

Infine gli altri due detti, che ruotano intorno al termine “mammona”. Una parola che ha avuto molta fortuna rispetto a quanto poco è presente nel NT: solo 4 volte (3 nel brano evangelico odierno e 1 nel parallelo di Mt 6,24).

Ma la cosa più curiosa è una possibile etimologia di questo termine, che pare avere la stessa radice di “amen”. Mammona sarebbe perciò ciò verso cui si ha fede, ciò verso cui si pone la propria fiducia, la propria sicurezza… invece che nel Dio, Padre di Gesù e nostro.

Così anche il II detto trova una sua spiegazione: perché il termine aramaico “mammona” viene reso in greco con la medesima radice del termine “fedeli”, cosicché si creerebbe – nel II detto – una sorta di gioco di parole, a cui il III detto si aggancia.

“Mammona”, quindi, che abitualmente è tradotto con “ricchezza”, starebbe ad indicare – secondo l’etimologia – tutto ciò in cui si pone la propria sicurezza tranne che Dio… e – stando al contesto di Luca in cui questi detti sono inseriti – tranne i nostri tentativi relazionali, lodati da Dio che – guarda caso – nel suo Figlio ci ha insegnato: «Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi», riassorbendo nel II comandamento dell’amore, il I.

giovedì 12 settembre 2013

XXIV Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro dell’Èsodo (Es 32,7-11.13-14)

In quei giorni, il Signore disse a Mosè: «Va’, scendi, perché il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto, si è pervertito. Non hanno tardato ad allontanarsi dalla via che io avevo loro indicato! Si sono fatti un vitello di metallo fuso, poi gli si sono prostrati dinanzi, gli hanno offerto sacrifici e hanno detto: “Ecco il tuo Dio, Israele, colui che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto”». Il Signore disse inoltre a Mosè: «Ho osservato questo popolo: ecco, è un popolo dalla dura cervìce. Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li divori. Di te invece farò una grande nazione». Mosè allora supplicò il Signore, suo Dio, e disse: «Perché, Signore, si accenderà la tua ira contro il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto con grande forza e con mano potente? Ricòrdati di Abramo, di Isacco, di Israele, tuoi servi, ai quali hai giurato per te stesso e hai detto: “Renderò la vostra posterità numerosa come le stelle del cielo, e tutta questa terra, di cui ho parlato, la darò ai tuoi discendenti e la possederanno per sempre”». Il Signore si pentì del male che aveva minacciato di fare al suo popolo.

 

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo a Timòteo (1Tm 1,12-17)

Figlio mio, rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede, e così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù. Questa parola è degna di fede e di essere accolta da tutti: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io. Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Cristo Gesù ha voluto in me, per primo, dimostrare tutta quanta la sua magnanimità, e io fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna. Al Re dei secoli, incorruttibile, invisibile e unico Dio, onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen.

 

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 15,1-32)

In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro questa parabola: «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.

Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”. Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».

Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa. Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

 

Le letture che la Chiesa ci propone per questa Ventiquattresima Domenica del Tempo Ordinario sono molto lunghe e molto dense. Si può dunque solo prendere una pista d’indagine, tra le tante che propongono. Quella che quest’anno mi viene da scegliere riguarda il percorso che Luca ci fa compiere al seguito delle sue tre parabole della misericordia (è l’unico evangelista che le riporta), a fronte di quella che è la situazione dell’uomo di tutti i tempi, quindi anche nostra, ben delineata dal popolo di Israele che – ai piedi del monte Sinai – decide di costruirsi un vitello d’oro.

Nella finzione letteraria pare che Dio se ne abbia a male di fronte a questo popolo, che aveva visto le grandi opere di Dio per lui, e che però senza troppo pensarci su è pronto ad attaccare il cuore ad un dio finto, un idolo, una statua d’oro, «opera delle mani dell’uomo», che come gli idoli delle genti «hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono, hanno narici e non odorano. Le loro mani non palpano, i loro piedi non camminano; dalla loro gola non escono suoni!» (Sal 115).

Mosè, invece, guarda il suo popolo con occhi diversi: ricorda a Dio che quegli uomini, incapaci di sostenere una fedeltà, sono il suo popolo… che non può che essere così… spaventato, inconsistente, figlio della viscosità e resistenza della storia, impastato di paure e abissi che gli fanno tremare il cuore… incapace di fiducia in qualcosa che non si tocca… disperso – come tutti noi – nei meandri del giusto/sbagliato, buono/cattivo, utile/inutile… spaesato di fronte alle vicende della vita mai davvero guardabili e “tenibili”…

È così per tutti, per ciascun uomo, sempre troppo coinvolto in ciò che fa, in ciò che gli capita per poter guardare le cose da fuori, tenerle in mano fino in fondo, custodendo una lucidità e un’oggettività priva di rimandi al vissuto, al patito, al deciso, all’inconscio, scavatoglisi dentro chissà quando, chissà dove, chissà come.

Nessuno di noi può evincersi dalla storia, dalla sua storia e pensare di avere reazioni, di porre scelte, di determinarsi evincendo da essa…

Tante volte abbiamo la presunzione di farlo, di essere assoluti (ab-soluti = slegati) dalla storia che ci abita la pelle… Tante volte le filosofie (anche religiose), le istituzioni (anche religiose), le istanze (anche religiose) ci chiedono di farlo, di essere “tutti d’un pezzo”… ma è come negare all’uomo di essere uomo, cioè storico.

E tutti i nostri tentativi – di fatti – vanno a finire come i castelli di sabbia distrutti dai piedi dei bambini… come il vitello del popolo di Israele, come il progetto del figlio minore della parabola o come quello di verso opposto, ma di medesima direzione del figlio maggiore. Tutti dispersi – dietro alla propria finta sicurezza – come la pecora e la moneta. Tutti col sedere a terra.

Questa è la realtà dell’umano, incapaci strutturalmente – per natura direbbero gli antichi – di porre qualcosa di assoluto, di definitivo, di non reinterpretabile, non travisabile, non corruttibile.

Di fronte a questa presa di coscienza, istintivamente, ci viene da sentirci in debito, come colpevoli, sempre e comunque inadeguati di fronte a Dio, che, pensiamo, ci vorrebbe diversi, migliori, meno invischiati nelle particelle di terrestrità che ci costituiscono.

In realtà il vangelo odierno ci narra di un Dio, che non pensa ai suoi figli come noi pensiamo ci pensi… Non è un desiderio di Dio il volerci astorici (lui ci ha fatti così, come raccontava il mito antico, impastati di fango e respiro divino – non pensati in antitesi – come la filosofia platonica ci ha insegnato – ma pensati come la cosa più bella che poteva fare - «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona», Gn 1,31; senza contare che lui si è fatto così: «E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi», Gv 1,14).

È così come siamo, storici, mai assoluti, persi negli interstizi del mondo, che il Signore ci ha pensati… Lì – dice la Parola di Dio – lui ci cerca e ci trova.

È dunque forse ora di smetterla di investire (sprecare) energie, tempo, fatiche per “diventare dei o angeli” sperando di poter così essere con Dio, di poterlo incontrare, trovare, avvicinare… Tanto Lui, non è lì.

Forse è ora di investire energie, tempo e fatiche per “diventare uomini”, per “restare uomini”, per “essere uomini”, immischiati con il sudore, il fango, il sangue, le lacrime, la carne, la storia… con una certezza nel cuore: ovunque ci saremo dis-persi, sciolti, mescolati Lui c’è; perché lì ci cerca e lì ci trova… Come un pastore con la sua pecorella, come una donna con la sua moneta, come un padre con il suo figlio…

Così – dice Luca – avviene l’incontro col Signore… accettando di essere non-dei, non-angeli, ma uomini e in questo riconosciuti come figli… come fa il padre della parabola, che riconosce in quello scapestrato che torna da lui per fame, non certo per pentimento, suo figlio. Se da lontano avesse avvistato un etereo angelo o uno snaturato semidio non vi avrebbe riconosciuto la faccia del suo.

In chiusura allora, le parole di una canzone di Vecchioni, che a me piace molto e che mi pare si addica a quanto andiamo pensando… Nei suoi versi, l’Autore decide di lasciare dio (il dio che abbiamo in testa noi, però, quello che pensiamo ci voglia non-uomini)… per essere uomo… ma solo così si fa trovare da Dio:

C'è un solo vaso di gerani / dove si ferma il treno, / e un unico lampione / che si spegne se lo guardi, / e il più delle volte / non c'è ad aspettarti nessuno, / perché è sempre troppo presto / o troppo tardi. / - Non scendere - mi dici, / - continua con me questo viaggio! - / e così sono lieto di apprendere / che hai fatto il cielo / e milioni di stelle inutili / come un messaggio, / per dimostrarmi che esisti, / che ci sei davvero: / ma vedi, il problema non è / che tu ci sia o non ci sia: / il problema è la mia vita / quando non sarà più la mia, / confusa in un abbraccio senza fine, / persa nella luce tua sublime, / per ringraziarti non so di cosa e perché // Lasciami / questo sogno disperato / di esser uomo, / lasciami / quest'orgoglio smisurato / di esser solo un uomo: / perdonami, Signore, / ma io scendo qua, / alla stazione di Zima. // Alla stazione di Zima / qualche volta c'è il sole: / e allora usciamo tutti a guardarlo, / e a tutti viene in mente che / cantiamo la stessa canzone / con altre parole, / e che ci facciamo male / perché non ci capiamo niente. // E il tempo non s'innamora due volte / di uno stesso uomo; / abbiamo la consistenza lieve delle foglie: / ma ci teniamo la notte, per mano, / stretti fino all'abbandono, / per non morire da soli / quando il vento ci coglie: / perché vedi, l'importante non è / che tu ci sia o non ci sia: / l'importante è la mia vita / finché sarà la mia: / con te, Signore / è tutto così grande, / così spaventosamente grande, / che non è mio, non fa per me // Guardami, / io so amare soltanto / come un uomo: / guardami, / a malapena ti sento, / e tu sai dove sono... / ti aspetto qui, Signore, / quando ti va, alla stazione di Zima.

martedì 3 settembre 2013

XXIII Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro della Sapienza (Sap 9,13-18)

Quale, uomo può conoscere il volere di Dio? Chi può immaginare che cosa vuole il Signore? I ragionamenti dei mortali sono timidi e incerte le nostre riflessioni, perché un corpo corruttibile appesantisce l’anima e la tenda d’argilla opprime una mente piena di preoccupazioni. A stento immaginiamo le cose della terra, scopriamo con fatica quelle a portata di mano; ma chi ha investigato le cose del cielo? Chi avrebbe conosciuto il tuo volere, se tu non gli avessi dato la sapienza e dall’alto non gli avessi inviato il tuo santo spirito? Così vennero raddrizzati i sentieri di chi è sulla terra; gli uomini furono istruiti in ciò che ti è gradito e furono salvati per mezzo della sapienza».

Dalla lettera a Filèmone (Fm 1,9-10.12-17)

Carissimo, ti esorto, io, Paolo, così come sono, vecchio, e ora anche prigioniero di Cristo Gesù. Ti prego per Onèsimo, figlio mio, che ho generato nelle catene. Te lo rimando, lui che mi sta tanto a cuore. Avrei voluto tenerlo con me perché mi assistesse al posto tuo, ora che sono in catene per il Vangelo. Ma non ho voluto fare nulla senza il tuo parere, perché il bene che fai non sia forzato, ma volontario. Per questo forse è stato separato da te per un momento: perché tu lo riavessi per sempre; non più però come schiavo, ma molto più che schiavo, come fratello carissimo, in primo luogo per me, ma ancora più per te, sia come uomo sia come fratello nel Signore. Se dunque tu mi consideri amico, accoglilo come me stesso.

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 14,25-33)

In quel tempo, una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo. Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: “Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”. Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace. Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo».

 

Le letture che la Chiesa ci offre in questa Ventitreesima Domenica del Tempo ordinario, sono tutte molto interessanti e – ciascuna a suo modo – davvero capaci di smuovere le viscere della nostra pancia, anche se ad un prima scorsa non appare immediato il filo conduttore che le lega.

Soprattutto, un po’ slegato dai brani della Sapienza e del vangelo, appare il testo di Paolo a Filèmone – come è giusto che sia, dato che la prassi liturgica tende sempre ad associare la prima lettura col vangelo e proporre altri spunti di riflessione attraverso le lettere paoline e non. Eppure su queste poche righe – che fanno sì che questa lettera propriamente non sia nemmeno ricordata come una lettera, ma come un “biglietto” – non si può soprassedere a cuor leggero, perché – forse proprio per il suo contesto così particolare («Il biglietto indirizzato da Paolo a Filèmone è sostanzialmente una lettera di raccomandazione. Uno schiavo di nome Onèsimo, fuggito dal padrone Filèmone, incontra Paolo che sta in prigione; l’apostolo gli annuncia il Vangelo e lo rimanda al suo padrone con un breve scritto», La sacra Bibbia, nuova traduzione CEI) – lascia emergere un tratto della personalità di Paolo che in altri scritti resta più in ombra: frasi come «Ti prego per Onèsimo, figlio mio», «lui che mi sta tanto a cuore», «Avrei voluto tenerlo con me», «come fratello carissimo, in primo luogo per me», insieme al fatto che decida di non “scavalcare” Filèmone, avendone pure in qualche modo il diritto come apostolo, ma dicendogli addirittura «non ho voluto fare nulla senza il tuo parere, perché il bene che fai non sia forzato, ma volontario», lasciano trasparire il modo in cui Paolo intendeva il rapporto fra fratelli (fra cristiani, cioè fra discepoli – seppur della seconda ora – di Gesù) e alcuni dei pilastri su cui esso si fondava: l’amore, inteso nel suo senso forte di farsi carico del destino altrui; la corresponsabilità… “pilastri” che – forse – anche noi, come singoli e come Chiesa, dovremmo una volta per tutte deciderci a scegliere come elementi fondanti le nostre relazioni, ancora spesso così incastrate invece in inutili pacche sulle spalle o in un “ricordiamoci nella preghiera”, cui non fa seguito il coinvolgersi nella sorte dell’altro, l’abitare la sua solitudine, il considerare i “suoi” problemi come i “nostri” problemi… per non parlare della corresponsabilità…

E credo che proprio a questo livello (quello cioè del chiedersi “Che cosa nella nostra vita di singoli e di Chiesa abbiamo deciso di scegliere?” – dunque: “Chi abbiamo deciso di essere?”), possiamo lasciarci interrogare dalla riflessione che il libro della Sapienza e il vangelo di Luca istituiscono.

La prima lettura, infatti, in termini incredibilmente vicini alla sensibilità dei nostri giorni, va a toccare proprio il nocciolo duro del pensare umano: «Quale, uomo può conoscere il volere di Dio? Chi può immaginare che cosa vuole il Signore? […] A stento immaginiamo le cose della terra, scopriamo con fatica quelle a portata di mano; ma chi ha investigato le cose del cielo?»; che – in termini più laici – potremmo forse tradurre così: “Quale uomo può afferrare la verità della vita? Il suo senso? Io, come posso afferrarla? Cosa devo fare? Come voglio spendermi? Per cosa vale la pena farlo? Per cosa, che non mi si sgretoli in mano come un castello di carte sul letto di morte? Chi devo essere? Chi voglio essere?”…

Ecco il punto centrale… di Paolo, della Sapienza, di Gesù… Il rapporto col Signore non è come iscriversi al club della vela… in gioco c’è qualcosa di decisivo, c’è un impresa da compiere, che potremmo verbalizzare nella domanda: “Chi abbiamo deciso di essere?” E: “Su quale base?” – domanda forse ancora più importante, perché invera o falsifica la prima… “Su quale base?” se è così evidente che «Questa sapienza, sempre ambita dall’uomo, è biblicamente irraggiungibile se non è lo stesso spirito di Dio dall’alto, a spiegarci cosa Dio stesso (non le nostre proiezioni su di lui) vuole veramente» [Giuliano]: «Chi avrebbe conosciuto il tuo volere, se tu non gli avessi dato la sapienza e dall’alto non gli avessi inviato il tuo santo spirito?». Nessuno! Appunto… perché non c’è progetto umano (su sé, sugli altri, sul mondo, su dio…) che tenga, se costruito a partire da sé, perché «i ragionamenti dei mortali sono timidi e incerte le nostre riflessioni, perché un corpo corruttibile appesantisce l’anima e la tenda d’argilla opprime una mente piena di preoccupazioni»… perché l’uomo non è assoluto… “ab-solutus”, sciolto da tutto: dalla storia, dalla carne, dalla «faticosa e fragilissima elaborazione del pensiero nella refrattarietà della materia», dalle «cornici culturali di lettura e interpretazione della realtà, che incapsulano il pensiero in una tenda invalicabile, più che le pareti di argilla di un vaso» [Giuliano].

“Per fortuna”, “ad un certo punto”… a Dio è venuto in mente di farsi conoscere lui, di rivelarci lui la sua identità (di Padre) che contemporaneamente svelava la nostra (di figli)… così che – come recita la mai troppo citata DV2 – «Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelarsi in persona e manifestare il mistero della sua volontà (cfr. Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, hanno accesso al Padre nello Spirito Santo e sono resi partecipi della divina natura (cfr. Ef 2,18; 2 Pt 1,4). Con questa Rivelazione infatti Dio invisibile (cfr. Col 1,15; 1 Tm 1,17) nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici (cfr. Es 33,11; Gv 15,14-15) e si intrattiene con essi (cfr. Bar 3,38), per invitarli e ammetterli alla comunione con sé. Questa economia della Rivelazione comprende eventi e parole intimamente connessi, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, mentre le parole proclamano le opere e illustrano il mistero in esse contenuto. La profonda verità, poi, che questa Rivelazione manifesta su Dio e sulla salvezza degli uomini, risplende per noi in Cristo, il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta intera la Rivelazione».

Da allora la “base”, su cui decidere chi essere, non può essere che quella «misurata e collaudata sull’avventura umana di Gesù» [Giuliano]!

Da questo punto di vista, il brano di vangelo di Luca che la Chiesa ci propone questa domenica, è davvero emblematico, perché tratta esplicitamente del «criterio evangelico di maturazione del discepolo (“se uno viene dietro di me!”): Nel suo viaggio verso Gerusalemme, Gesù è seguito da “molte folle” di aspiranti discepoli, ancora inconsapevoli del senso e della meta del viaggio. In questo percorso verso la sua fine, ha già spiegato in vari modi la sua identità. Ora si gira verso la gente, e proclama in modo estremamente crudo e sintetico in cosa consiste questa sapienza dall’alto! Non è una dottrina, ma un atteggiamento globale verso la vita, che si può imparare perseguendo, nel contesto della propria storia, la presenza del Padre, divenuta visibile in Gesù. In lui, infatti, finalmente, “possiamo immaginare cosa vuole il Signore”, “possiamo conoscere la sua volontà”, perché Dio si è reso visibile in Gesù di Nazareth» [Giuliano].

«Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo»… «chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo»…

Ecco qual è per Gesù il criterio “crudo e sintetico” dell’essere discepoli, cioè del decidere chi essere: andare dietro a lui, cioè incarnare la sua logica, tenere il suo sguardo (sulle cose, sulla gente, su se stessi, su Dio), vivere la sua dedizione… anche quando questo vuol dire incontrarsi o scontrarsi con prospettive di altro tipo – fossero anche quelle di chi amiamo di più (padre, madre, moglie, figli, fratelli, sorelle e perfino la nostra vita; quest’ultima sicuramente la più dura da “contra-stare”) – anche quando questo vuol dire rimanere soli…

È in questi “momenti topici” della nostra vita – quando appunto siamo soli, quando non ci sentiamo capiti, quando siamo ritenuti “folli” dai “nostri” – che radicalmente ci è chiesto di scegliere chi essere (per lui o contro di lui), ma non perché la nostra vita sia segnata da gesti eroici, ma perché quei momenti misurano quanto la nostra quotidianità sia stata istruente per fronteggiare anche momenti così decisivi. È la quotidianità della dedizione infatti che ci insegna «per progressiva modifica dell’atteggiamento profondo di fronte alla vita» [Giuliano] ad avere una tenuta (che “tiene” appunto) anche nei momenti dove il nostro dramma storico si fa più tagliente.

È stato così anche per Gesù, che non è sfuggito dal Getzemani, ma è salito in croce, non perché lì si è “improvvisato eroe”, “è riuscito nell’impresa”, ma perché per tutta la vita che ha preceduto quel momento, aveva abilitato se stesso alla dinamica della consegna (si era predisposto all’impresa: «Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: “Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”. Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace»).

Oppure – prendendo la questione per un altro verso, non alternativo, ma in circolarità con questo: le “situazioni limite” in cui amare di più lui, di tutto il resto, non sono “situazioni limite” perché disomogenee alla quotidianità, ma perché segnalano in maniera evidente quello che è sempre all’opera nella quotidianità, e cioè che c’è una scelta su chi vogliamo essere perennemente presente nelle piccole e apparentemente insignificanti decisioni e modi di essere quotidiani… sono come punti luce che illuminano il prima e il dopo: ogni attimo della vita ha infatti in sé la caratura pregnante del custodire la decisione su di sé. In ogni scelta, modo di essere, di reagire, di sentire c’è in gioco il “chi stiamo decidendo di essere”… così che se è vero che nella riflessione decidiamo chi essere e nella quotidianità lo attuiamo (o tentiamo di farlo) è anche vero che vivendo l’ordinarietà della vita costruiamo il “chi vogliamo essere”, a cui poi nei momenti di riflessione diamo un contorno più consapevolizzato.

Per questo non c’è preghiera senza vita e non c’è vita senza preghiera, perché è in questa circolarità di azione e riflessione, di pratica e di teoria, di atto e di consapevolizzazione dell’atto, che costruiamo il “chi vogliamo essere”, in un processo che – inevitabilmente – è storico, cioè si fa, facendolo… dietro a lui.

venerdì 30 agosto 2013

XXII Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro del Siràcide (Sir 3,19-21.30-31)

Figlio, compi le tue opere con mitezza, e sarai amato più di un uomo generoso. Quanto più sei grande, tanto più fatti umile, e troverai grazia davanti al Signore. Molti sono gli uomini orgogliosi e superbi, ma ai miti Dio rivela i suoi segreti. Perché grande è la potenza del Signore, e dagli umili egli è glorificato. Per la misera condizione del superbo non c’è rimedio, perché in lui è radicata la pianta del male. Il cuore sapiente medita le parabole, un orecchio attento è quanto desidera il saggio.

 

Dalla lettera agli Ebrei (Eb 12,18-19.22-24)

Fratelli, non vi siete avvicinati a qualcosa di tangibile né a un fuoco ardente né a oscurità, tenebra e tempesta, né a squillo di tromba e a suono di parole, mentre quelli che lo udivano scongiuravano Dio di non rivolgere più a loro la parola. Voi invece vi siete accostati al monte Sion, alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a migliaia di angeli, all’adunanza festosa e all’assemblea dei primogeniti i cui nomi sono scritti nei cieli, al Dio giudice di tutti e agli spiriti dei giusti resi perfetti, a Gesù, mediatore dell’alleanza nuova.

 

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 14,1.7-14)

Avvenne che un sabato Gesù si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo. Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti: «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: “Cèdigli il posto!”. Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti!”. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato». Disse poi a colui che l’aveva invitato: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti».

 

Il vangelo che in questa Ventiduesima Domenica del Tempo Ordinario ci viene offerto dalla Liturgia, mi pare ruoti intorno a due grandi fuochi, forse i due veramente centrali dell’esperienza di Gesù: l’umiltà e la gratuità…

E allora, facendomi aiutare da qualcuno che su queste cose c’ha giocato la vita, provo a dire due parole…

Innanzitutto l’umiltà: «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: “Cèdigli il posto!”. Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti!”. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato».

Sarebbe però davvero banale e banalizzante leggere o – peggio – pensare di “attuare” queste parole mettendosi all’ultimo posto col desiderio di cercare il primo… Il punto di vista di Gesù non è infatti quello di tracciare una via per arrivare al primo posto – dando come suggerimento quello di mettersi all’ultimo (il cristianesimo invece è fin troppo inficiato da questo finto perbenismo, da questa maschera petulante di costruita remissività che in realtà punta solo, in maniera cinicamente metodica, al primo posto per sé o al massimo per i propri cari – nell’aldiqua e nell’aldilà) – ma, come sempre, è quello di tentare di ribaltare una logica mondana!

Scriveva Giuliano: «L’umiltà non è una virtù! … difficile definirla come tale, perché uno non può proporsela come obiettivo cui mirare, altrimenti vuole essere qualcosa di grande, vuole raggiungere qualcosa di gratificante: l’uomo non deve tendere a niente per se stesso, nel senso che non ha in mano il disegno su di sé ! Se no sta ricercando in qualche modo un primo posto. Se vuole crescere, deve piuttosto cercare dentro di sé il posto dell’amore, il posto di Dio. E scopre presto che, di sicuro, il posto dove mettersi non è quello che ha pensato e progettato. È piuttosto l’ultimo, al servizio di tutti, come il figlio dell’uomo che è venuto non per essere servito, ma per servire e dare la sua vita... Perché, amare è dire all’altro: stai prima di me! Chi “vuole” essere umile, si attorciglia attorno a sé. Non si può essere umili, se non per un’altra passione che nasce “dentro”, più grande che l’amore di sé: è il volto dell’altro, preferito al proprio, perché più valido a nutrire la tua gioia e compiutezza, capace di liberarti dalla paralisi del tuo narcisismo infantile, ridicolmente indaffarato tutta la vita a far girare il mondo attorno a te … Ti deve per forza capitare la grazia di rompere lo specchio della tua immagine, incessantemente rielaborata dentro di te, cioè innamorarti… e così ritrovarti all’ultimo posto (o in qualsiasi altro) con dentro nel cuore il tuo proprio “vero volto” ridisegnato da altri, da chi ami – da chi ti ama [non a caso per la Santa Madre Teresa di Gesù, l’umiltà è “conoscere e camminare nella propria verità”]! E trovi la tua gioia nel servire la crescita di bene dell’altro… Allora tutte le vicende mortificanti della tua storia, non fanno male più di tanto, nessun’altra arsura ti può distogliere da questa pur minuscola sorgente di senso, che sei riuscito a disseppellire sotto le macerie del cuore : chi beve dell'acqua che io gli darò, non avrà mai più sete, anzi, l'acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna (Gv 4,14)».

Ecco perché – nel vangelo – le parole sull’umiltà sono immediatamente seguite da quelle sulla gratuità («Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti»), perché in gioco non vi è l’ideale virtuoso dello stoico mortificarsi per apparire grandi (primi!) davanti a Dio e agli altri, ma il tentativo (sempre da riprendere) di decentrarsi da sé per far spazio agli altri!

In questo senso i poveri sono indicati come i migliori invitati: non perché vi è in causa un’analisi sull’ingiustizia dell’emarginazione e sulla giusta (da primi della classe!) elemosina che noi possiamo fare, ma perché sono quelli che non ti possono dare il contraccambio! Ecco il punto: finché si sta nella logica della ricompensa non si ha ancora avuto accesso alla prospettiva che Gesù qui tratteggia: non si tratta di essere umili (ultimi) per avere in contraccambio il primo posto; non si tratta di essere buoni con gli altri per guadagnarne in contraccambio stima, rispetto, considerazione, “punti paradiso”… Ma di ribaltare la prospettiva.

«Schematicamente si possono distinguere due atteggiamenti religiosi qualitativamente diversi, che si possono contraddistinguere con le categorie di “contraccambio” e di “gratuito” – anche se poi nella storia della salvezza, come nella vita di ognuno, si mescolano. E così riusciamo a consegnare la nostra povera fede al Padre solo come risultato di una lunga e mai terminata purificazione della fame di gratificazione, di riposta immediata, di contraccambio della nostra ambigua dedizione a Dio e al prossimo.

… nella religione del “contraccambio”, infatti, predomina la ricerca del proprio bene, perché si è nel bisogno, nella debolezza e nel peccato, perché il mondo è pieno di male, mentre anche noi siamo incapaci di bene libero, fatto perché è bello farlo… Ma lo si fa piuttosto perché è dovere, e, in fondo a tutto, perché si deve morire! Si passa magari tutta una vita a cercare di essere bravi… e poi ce n’è sempre uno più bravo e più “ragguardevole” di te (lo guardano di più!), che ci passa avanti e ci lascia l’amaro nel cuore o ci avvelena la vita. [...]

… la religione del gratuito (una voglia di amore e amicizia!) … sarebbe, invece, andare furtivamente dallo sposo, invece di amareggiarci per competizioni e precedenze, per dirgli : stai bene? hai bisogno che faccia qualcosa per aiutarti, per il pranzo? Perché, nella religione della benevolenza ricevuta e donata, si fanno tutte le cose che si devono fare, con tanta passione e senza competizione…Ma si anela, si cerca, si crede in una misteriosa presenza nella nostra vita quotidiana e nel mondo – una “presenza (vera! anche se sempre troppo assente!) di amore, di tenerezza, di solidarietà sofferente, una presenza che Gesù chiama “Padre”! […]

Questo è il discorso difficile della fede, cioè di chi è invitato alle nozze del figlio di Dio, che nelle varie vicende della sua storia, ci insegna a prender atto della nostra umanità, sempre troppo intrisa di egocentrismo, per diventare veri discepoli di Gesù e capire come camminare nel viaggio della vita, che qualità di relazione con lui ci è proposta, quale scarnificazione ci toccherà subire per vincere l’istinto che ci spinge incessantemente a occupare sempre una poltrona più avanti e a guardare in cagnesco chi ce l’ha sottratta…» [Giuliano].
Ma a noi questa scarnificazione fa paura e spesso preferiamo tornare a consolarci all’interno della logica del contraccambio, compiacendoci di quanto siamo buoni (perché anche l’io – se serve – sa essere buono!)… O forse – più semplicemente – abbiamo perso il coraggio di innamorarci.

sabato 24 agosto 2013

XXI Domenica del tempo Ordinario (C)


Le letture che la Chiesa ci propone per questa ventunesima domenica del Tempo Ordinario, potrebbero indurre chi le ascolta – soprattutto chi le ascolta oggi, in una cultura cattolica che ha una scarsa frequentazione del testo biblico, ma che ha già assimilato nel DNA le spiegazioni che la cristianità ha trasmesso – due immediate e rapide interpretazioni, che – bisogna riconoscerlo – sono quasi istintive nella lettura dei testi, del vangelo soprattutto.

Innanzitutto l’interpretazione più “classica”, quella per cui qui si starebbe dicendo che a salvarsi sono proprio pochi! È un’interpretazione che segue più o meno questo ragionamento: se un tale chiede a Gesù «Signore, sono pochi quelli che si salvano?» e lui risponde «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno» (con tutta la parabola al seguito), vuol dire che il Signore sta dicendo che in paradiso vanno in pochi, quelli che – con grandi sforzi – sono riusciti a entrare nella porta stretta. E solitamente gli sforzi sono istintivamente identificati con digiuni, sacrifici, preghiere, mortificazioni, ecc…, cioè con ciò che tradizionalmente ha rappresentato l’itinerario per la via di perfezione.

Vi è poi una seconda immediata interpretazione, più “moderna”, ma ormai altrettanto automatica: quella che fa riferimento agli ultimi versetti contenuti nel vangelo («Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, voi invece cacciati fuori. Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi») in associazione con la prima lettura («Io verrò a radunare tutte le genti e tutte le lingue…»). Si tratta cioè dell’interpretazione per cui qui si sta parlando della salvezza puntando soprattutto sul fatto che essa non dipenda automaticamente dall’appartenenza (formale o di sangue) ad un popolo eletto (Israele o la Chiesa), ma che appunto – per salvarsi – sia necessario uno sforzo personale, una vita esemplare… per questo possibile a tutti (ai membri di tutti i popoli) e non dato per “nascita”.

A livello di reazioni emotive immediate, non si può nascondere che mentre la prima interpretazione disturba, la seconda non basta. Si tratta di sensazioni di “pancia”, certo, quindi anche facilmente “smontabili” (basterebbe per esempio dire che la prima interpretazione ci disturba perché propone un itinerario troppo difficile, che non vogliamo seguire), eppure a me hanno insegnato un immenso rispetto per le viscere di carne, perché non sono mai solo carne. E allora, se di fronte a qualcosa, reagiamo col “mal di pancia”, vuol dire che abbiamo intercettato qualcosa che la nostra testa ancora non ha visto e razionalizzato, ma che merita la nostra attenzione. Il processo di portare a ragione (e a linguaggio) quanto la pancia “dice” è delicatissimo – troppo facilmente connotiamo le nostre sensazioni con le interpretazioni che ci fanno più comodo – ma un sano allenamento in proposito, aiuta davvero a smascherarsi, disingannarsi, mostrarsi – almeno di fronte a se stessi – in trasparenza.

Ebbene, io credo che le nostre viscere di carne reagiscano a queste interpretazioni così istintive non perché esse siano sbagliate – anzi sicuramente per la cultura, il linguaggio e le situazioni in cui sono sorte sono state adeguate e davvero capaci di trasmettere il messaggio cristiano – ma perché – per la cultura, il linguaggio e le situazioni odierne – esse risultano sfuocate, come poste a partire da un punto prospettico non ideale. Entrambe le interpretazioni infatti danno per scontato che la domanda posta da quel tale che Gesù incontra sul suo cammino verso Gerusalemme («Signore, sono pochi quelli che si salvano?»), sia corretta, dimenticando invece che Gesù – come in tante altre occasioni – elude la richiesta specifica della domanda postagli e – nella risposta – cambia il livello del discorso e dimenticando soprattutto che – se avesse dovuto rispondere direttamente alla domanda in questione – avrebbe probabilmente usato le espressioni che in un passo parallelo, l’evangelista Matteo gli mette in bocca: «Gesù allora disse ai suoi discepoli: “In verità io vi dico: difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli. Ve lo ripeto: è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio”. A queste parole i discepoli rimasero molto stupiti e dicevano: “Allora, chi può essere salvato?”. Gesù li guardò e disse: “Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile”» (Mt 19,23-26).

Le nostre interpretazioni immediate vanno in cortocircuito proprio a questo riguardo, cioè nel presupposto per cui all’uomo (A pochi? Solo agli ebrei? Solo ai cristiani? Solo a chi ha un comportamento moralmente adeguato?) sia possibile salvarsi e dunque sia giusto mettere in atto tutto ciò che serve per “pagare a Dio il proprio prezzo” (cfr. Sal 49,7-10), facendo assumere alla domanda «Signore, sono pochi quelli che si salvano?» non tanto la connotazione di un interesse (per quanto ansioso) per la salvezza di tutti, quanto piuttosto l’intonazione di una rivendicazione per sé: se infatti in qualche modo “c’è da salvarsi” e per farlo è necessario intraprendere un duro percorso (una porta stretta), allora tutti quelli che “non ce la fanno” o “non ce la vogliono fare” (come spesso con arroganza noi presupponiamo) devono essere esclusi… è questione di giustizia (!)… umana.

Se così fosse, il Grande Inquisitore di Dostoevskij avrebbe tutte le ragioni per rivolgersi a Gesù dicendogli: «Il Tuo grande profeta dice nella sua visione e nella sua parabola di aver visto tutti i partecipi della prima resurrezione e che ce n’erano dodicimila per ciascuna tribú. Ma se erano tanti, vuol dire che quelli erano piú dèi che uomini. Essi sopportarono la Tua croce, essi sopportarono diecine d’anni di vita famelica nel nudo deserto, cibandosi di cavallette e di radici; e certo Tu puoi appellarti con orgoglio a questi eroi della libertà, dell’amore libero, del libero e magnifico sacrificio da essi compiuto in nome Tuo. Ma ricordati che erano in tutto appena alcune migliaia, ed erano per giunta degli dèi, ma i rimanenti? E che colpa hanno gli altri, gli uomini deboli, di non aver potuto sopportare ciò che i forti poterono? Che colpa ha l’anima debole, se non ha la forza di accogliere così terribili doni? Possibile che Tu sia venuto davvero solo agli eletti e per gli eletti?».

Eppure il Gesù che pronuncia le parole odierne («Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno») è lo stesso che racconta la parabola di Mt 20,1-16 (che curiosamente si conclude con la stessa espressione del nostro testo: «gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi»), nella quale il padrone della vigna paga allo stesso modo tutti gli operai (sia quelli che hanno lavorato per un’intera giornata, che quelli che hanno lavorato un’ora sola… per questione di giustizia (!)… divina).

Ma se tutto questo è vero, se cioè si può ben dire che non è l’uomo che si salva («Essi confidano nella loro forza, si vantano della loro grande ricchezza. Certo, l’uomo non può riscattare se stesso né pagare a Dio il proprio prezzo. Troppo caro sarebbe il riscatto di una vita: non sarà mai sufficiente per vivere senza fine e non vedere la fossa», Sal 49,7-10), che anzi «questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile”» (Mt 19,23-26); che Dio non segue i nostri stretti criteri contabili e non ha il desiderio di fare una selezione eroica che – dopo uno stillicidio di pusillanimi – tenga solo “chi se lo è meritato davvero”, ma – come dice Paolo a Timoteo – «vuole che tutti gli uomini siano salvati» (1 Tim 2,4), in che senso vanno interpretate le parole che pronuncia nel vangelo di Luca che la liturgia ci propone questa domenica («Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno. Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: “Signore, aprici!”. Ma egli vi risponderà: “Non so di dove siete”. Allora comincerete a dire: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze”. Ma egli vi dichiarerà: “Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia!”. Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, voi invece cacciati fuori. Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi»)?

In che cosa bisogna sforzarsi, se il Regno è un dono e non una conquista? Perché si parla di porta stretta, se anche gli operai dell’ultima ora ricevono la stessa paga di chi ha lavorato tutto il giorno? E in cosa consiste l’ingiustizia di cui sono colpevoli coloro che non vengono riconosciuti e allontanati? E perché questo tono minaccioso da parte di Gesù, così diverso da come siamo abituati a percepirlo (nel vangelo, non nel nostro cuore, dove il germe infetto del dio giudice implacabile si è incistato irrimediabilmente - ? - )?

Forse il modo migliore per approcciare queste domande è quello di guardarle non a partire dalle nostre paure (di un Dio che ci castigherà, ci manderà all’inferno, ci farà finire nel niente, ecc, ecc, ecc…), ma a partire dalla sua identità, cioè dalla sua storia. A partire dalla sua predicazione (dal suo vangelo) non c’è dubbio che il Regno sia un dono e non una conquista. Eppure bisogna, sì, sforzarsi… Sforzarsi in cosa? E per che cosa? Per chi? Non sforzarsi ad una conquista che è impossibile (un’impossibilità a salvarci da soli con la quale davvero – prima o poi – drasticamente ci dobbiamo scontrare, per arrivare a dire con Elia «Non sono migliore dei miei padri» e fare un sano bagno nell’umiltà – quella vera di quando ti torvi col sedere per terra e non quella finta che compiacente ti “autoprovochi” – fonte zampillante e rigenerante della misericordia – per sé e per gli altri – e per questo tanto cara ai suoi cantori), bensì – dentro ad un regalo – sforzarsi (ora sì! Perché non è più nostro, ma Suo il regalo!) per farsi carico della responsabilità in gioco: se infatti il regalo è la salvezza, cioè non tanto e non solo un mero perdurare in vita dopo la morte, ma un’inondazione di amore e tenerezza che scardina le durezze interiori e ci fa essere veramente noi stessi (perché solo dentro all’alveo dell’accoglienza benevola e innamorata si percorrono le strade interiori della trasparenza) in eterno, lo “sforzarsi” prende i connotati del far circolare il regalo (che se no ti marcisce in mano, proprio per la natura intrinseca dell’amore, che se non è dato, muore), dedicando una vita ad alzare il tasso di amore nel mondo! Sapendo che non siamo capaci, ma ricominciando sempre ad allargare il cuore. Ecco la porta stretta: chi ha provato a vivere così è infatti morto in croce, o perseguitato, o esiliato… Ed ecco l’inusuale tono minaccioso… ma è proprio come quello di chi ci vuole bene e le prova tutte a convincerci di qualcosa di cui è convinto che sia il nostro Bene, la nostra salvezza… quasi minacciando di sculacciarci se non lo facciamo, ma non perché vuole sculacciarci (se non lo facciamo mica ci sculaccia davvero), ma per provarle proprio tutte… a farci accettare il suo regalo ed entrare nel circuito dell’amore che per contagio si diffonde.

Perché – alla fine – se uno scopre che questo gli era chiesto e non l’ha fatto… un po’ è vero che gli viene da mangiarsi le mani (o come dice il testo da lasciarci qualche lacrima e stringere un po’ i denti)… Non tanto se non ha vissuto così perché non è stato capace («è impossibile agli uomini»)… Ma se non l’ha fatto perché aveva frainteso ciò che il cuore del Signore sognava per gli uomini…

Come ci resta uno che ha digiunato e si è incartapecorito corpo e anima pensando così di far contento Dio – lui unico (o uno fra i pochi) in un mondo di nemici suoi (e dunque dl Signore) – e scopre che Dio aveva sognato per i suoi figli che mangiassero contenti insieme ad amici e nemici?

Come ci resta uno che non si è mai fermato ad accarezzare un viso di donna perché Dio chiede di non toccare, non toccarsi e non farsi toccare, e poi insterilito nella carne e nello spirito scopre che Dio aveva sognato per i suoi figli una corporeità capace di coccole per passare di carezza in carezza il suo amore?

Qualche lacrimuccia dobbiamo concedergli che gli scappi… e anche qualche stretta ai denti, psicosomatismo della stretta allo stomaco… Anzi… dobbiamo concedercela, perché siamo noi questi di cui parla il Signore: sempre a metà strada tra il Dio di Gesù, Padre suo e Padre nostro che ci ha mostrato nel suo Figlio il sogno che aveva su noi uomini e il dio, grande inquisitore del nostro animo… che siamo poi noi… travestiti da dio.

venerdì 9 agosto 2013

XIX Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro della Sapienza (Sap 18,6-9)

La notte [della liberazione] fu preannunciata ai nostri padri, perché avessero coraggio, sapendo bene a quali giuramenti avevano prestato fedeltà. Il tuo popolo infatti era in attesa della salvezza dei giusti, della rovina dei nemici. Difatti come punisti gli avversari, così glorificasti noi, chiamandoci a te. I figli santi dei giusti offrivano sacrifici in segreto e si imposero, concordi, questa legge divina: di condividere allo stesso modo successi e pericoli, intonando subito le sacre lodi dei padri.

 

Dalla lettera agli Ebrei (Eb 11,1-2.8-19)

Fratelli, la fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede. Per questa fede i nostri antenati sono stati approvati da Dio. Per fede, Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava. Per fede, egli soggiornò nella terra promessa come in una regione straniera, abitando sotto le tende, come anche Isacco e Giacobbe, coeredi della medesima promessa. Egli aspettava infatti la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso. Per fede, anche Sara, sebbene fuori dell’età, ricevette la possibilità di diventare madre, perché ritenne degno di fede colui che glielo aveva promesso. Per questo da un uomo solo, e inoltre già segnato dalla morte, nacque una discendenza numerosa come le stelle del cielo e come la sabbia che si trova lungo la spiaggia del mare e non si può contare. Nella fede morirono tutti costoro, senza aver ottenuto i beni promessi, ma li videro e li salutarono solo da lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sulla terra. Chi parla così, mostra di essere alla ricerca di una patria. Se avessero pensato a quella da cui erano usciti, avrebbero avuto la possibilità di ritornarvi; ora invece essi aspirano a una patria migliore, cioè a quella celeste. Per questo Dio non si vergogna di essere chiamato loro Dio. Ha preparato infatti per loro una città. Per fede, Abramo, messo alla prova, offrì Isacco, e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unigenito figlio, del quale era stato detto: «Mediante Isacco avrai una tua discendenza». Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti: per questo lo riebbe anche come simbolo.

 

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 12,32-48)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno. Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma. Perché, dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore. Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito. Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro! Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. Anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo». Allora Pietro disse: «Signore, questa parabola la dici per noi o anche per tutti?». Il Signore rispose: «Chi è dunque l’amministratore fidato e prudente, che il padrone metterà a capo della sua servitù per dare la razione di cibo a tempo debito? Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così. Davvero io vi dico che lo metterà a capo di tutti i suoi averi. Ma se quel servo dicesse in cuor suo: “Il mio padrone tarda a venire”, e cominciasse a percuotere i servi e le serve, a mangiare, a bere e a ubriacarsi, il padrone di quel servo arriverà un giorno in cui non se l’aspetta e a un’ora che non sa, lo punirà severamente e gli infliggerà la sorte che meritano gli infedeli. Il servo che, conoscendo la volontà del padrone, non avrà disposto o agito secondo la sua volontà, riceverà molte percosse; quello invece che, non conoscendola, avrà fatto cose meritevoli di percosse, ne riceverà poche. A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più».

 

I testi che la Chiesa ci propone per questa Diciannovesima Domenica del Tempo Ordinario, sono assai densi, ed anche meno immediati di altri… è come richiesta una certa fatica “nell’entrarci”…

Mi pare però che un’illuminante chiave di lettura possa essere quella proposta da don Bruno Maggioni, quando scrive: «Dopo le direttive sull’uso dei beni, le parole che Luca ha qui raccolte entrano più direttamente nel tema della vigilanza, che non è anzitutto un elenco di cose da fare, ma una tensione dello spirito, un orientamento di fondo nei confronti delle situazioni di vita. Ma prima di precisare i contorni della vigilanza (un atteggiamento complesso, dalle molte sfaccettature), occorre una parola sui destinatari, che Luca designa con un’espressione insolita: “piccolo gregge”. Chi sono? L’espressione è una variante di un’altra più frequente coniata dai profeti dell’Antico Testamento: “il resto di Israele”. Si tratta di quella “minoranza” di autentici fedeli che nell’abbandono generale delle leggi del Signore rimangono ostinatamente attaccati alla loro fede. La loro prima caratteristica è dunque la minoranza, cosa che può far sorgere in alcuni il dubbio e la frustrazione. Ma a torto: la storia di Israele, di Gesù e della chiesa dimostra al contrario che la forza di Dio passa proprio attraverso minoranze. La seconda caratteristica è la fedeltà ostinata: in un mondo dove i più – o per comodità o per paura – si accodano agli ideali del momento, il piccolo gregge mantiene vive le promesse del Signore. E la terza caratteristica è il servizio: il piccolo gregge mantiene in vita valori che poi torneranno a vantaggio di molti, e in nessun modo si isola dal mondo, ma rimane giù nella piazza, dove gli uomini si incontrano e si scontrano. […] Si tratta di un gregge che è “piccolo” e tuttavia è da intendere bene. Minoranze sì, ma che si incontrano dovunque: nella chiesa, nelle altre religioni, in tutte le razze, in ogni popolo. Sono la forza di Dio: non confidano nell’odio o nella violenza o nella potenza. Confidano in Dio, nel rispetto di ogni uomo, nella libertà, nell’amore. Desiderano servire e hanno fame e sete di un mondo più giusto. E per costruirlo sono pronti a rimetterci. È a costoro che il discorso sulla vigilanza è particolarmente rivolto» [il racconto di Luca, 244].

La citazione è un po’ lunga, ma mi pare aiuti a collocare bene questo testo evangelico che – purtroppo – istintivamente ci rimanda a interpretazioni che (chissà come sono quasi innate in noi?) fanno presagire un automatismo meccanico tra venuta del Signore e condanna: “Se la fine della storia venisse di notte, si salverebbe solo l’altro emisfero dove la maggior parte delle persone non sarebbero a letto a dormire?”. È un esempio sciocco, ma noi ci ritroviamo a pensare anche questo…

Ma che volto stiamo dando al Signore quando pensiamo di Lui così? Quando lo associamo alla condanna, tradiamo il suo vangelo (dove mai si trova gesto o parola maledicente di Gesù verso chicchessia e le parole di “condanna” appartengono sempre al genere letterario dell’ammonimento, come quando una mamma dice: “Se me ne combini un’altra, ti spolpo!”)… quando lo associamo alla condanna automatica poi… dimentichi che seppur collocati sempre in un “attimo fuggente” noi non coincidiamo con quell’attimo, ma siamo una storia – abitata indubbiamente anche da tanti pasticci… ma anche da tanti spiraglietti di luce – eterni.

La lunga citazione allora mi pare possa servire a capire davvero il senso di quanto Gesù dice… perché il testo non è un ammonimento generico e astorico, del tipo: quando Dio arriva, si salvi chi può! Ma parla ad un destinatario preciso… parla della vigilanza del “piccolo gregge”, non della gente in generale, dunque, che a noi fa così comodo nei nostri ragionamenti catalogare come le masse che si perderanno perché peccatrici (e quante la Chiesa ne ha trattate in questo modo di masse…), ma alla minoranza di quelli che «conoscono la volontà del padrone».

Di quella “minoranza” spesso ci sentiamo parte anche noi (magari incapaci di restare fedeli al suo lato ruvido – a quell’“essere pronti a rimetterci” – o al suo lato inclusivo – a volte infatti il nostro sentirci “minoranza” è chiuso e aggressivo verso gli altri – ma questo non toglie la realtà del nostro appartenervi). E mi pare molto interessante il fatto che Gesù scelga di destinare questo tipo di parole a chi si sente (o è) solo (i più fortunati sono in – troppo – pochi) a portare avanti una logica disomogenea di benevolenza, fraternità, tenerezza, rispetto alle classiche dinamiche umane che ripropongono invece continuamente competizione e sopraffazione (fuori e dentro la chiesa / fuori e dentro noi stessi).

Ecco, dentro a questa solitudine o esiguità numerica (a volte irrisoria ed irrisa) si annida il pericolo che Gesù denuncia e – con la sua parola («Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno») – vuole disinnescare: il “prendere paura” di una solitudine che a differenza dei padri (che come dice il libro della Sapienza «sapevano bene a quali giuramenti avevano prestato fedeltà») non riesce più a riconoscere «degno di fede colui che gli aveva promesso» che “c’abbiamo ragione noi!” (come diceva don Primo Mazzolari, davanti allo specchio con un bicchiere di vino in mano!)… perché questa disomogeneità frustrante, che scava dentro un vuoto angoscioso, troppo spesso dimentica che non si tratta di un’assenza muta, ma di un’attesa amante («Siate pronti…», «siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze…», «Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli…», «E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro!», «Anche voi tenetevi pronti…», «Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così…»)… proprio come quella disposizione interiore che abbiamo quando aspettiamo il ritorno di qualcuno che amiamo davvero (un figlio, il nostro amato, qualcuno che abbiamo proprio piacere di avere tra noi…), trepidando, sognando, sorridendo…

In questo «Una processione di padri e di madri ci fanno da testimoni [cfr. la lettere agli Ebrei, cap. 11]… Talora si vedono, talora si intravedono soltanto. Ci vogliono tante parole ed esempi, a noi piccoli, per cercare di dirsi, raccontarsi … la fede. Ma ognuno ha dentro di sé (ma che fatica accoglierli!) i minuscoli indizi persuasivi di un volto “velato” che chiama, che spinge, che provoca… ad imbarcarsi, nonostante la paura, nel viaggio, a tentoni, nell’attesa / scoperta di cose e situazioni e vicende impreviste, che il Signore ha preparato, chiamandoci a reinventare con noi, adesso… un modo nuovo di stare, nella vita e nella morte. Nella fede morirono tutti costoro, pur non avendo conseguito i beni promessi, ma avendoli solo veduti e salutati di lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sopra la terra. Noi, piccoli discepoli di Gesù, viviamo simultaneamente nell’antica e nella nuova situazione del credente, privilegiati di aver toccato in Cristo l’adempimento della promessa del regno “vicino, in mezzo a noi”, ammaliati dalla certezza che stiamo camminando verso una città diversa, il cui architetto è Dio – ma anche lacerati (delusi!?) dalla conclamata irreperibilità di questa città, ‑ feriti dall’innegabile distanza della salvezza, nostra e di troppi disperati abbandonati» [Giuliano].

Dentro qui credo che siano due i modi evangelici per vegliare: innanzitutto una sorta di alleanza con chi ci è fratello nell’attesa: «I figli santi dei giusti offrivano sacrifici in segreto e si imposero, concordi, questa legge divina: di condividere allo stesso modo successi e pericoli»… un po’ come Gesù, che nell’agonia cercava la “compagnia dei fratelli”: «Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia. Disse loro: “La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate”» [Mc 14,33-34].

Con la consapevolezza sorda però – ed è quella che apre al secondo modo di vegliare – che «li trovò addormentati»… cioè che c’è una soglia oltre la quale si è da soli davvero, nella propria nudità radicale, a decidersi per il restare svegli nella propria disomogeneità. «La vocazione cristiana trova qui la sua appassionante e difficile dimensione quotidiana ‑ compresi i ritmi del dinamismo psicobiologico, i momenti di stanchezza e di angoscia, di speranza e di confidenza, di intontimento e di sonno, con relative pulsioni e ritorsioni su chi ci sta attorno. Ma la fede matura così, umilmente, nei passi della vita: strana misteriosa miscela, tra una ferita “dentro” e una “vocazione” ad uscire fuori, cioè una “debolezza” chiamata a compimento. Attratti e accompagnati da un’inafferrabile colonna di fuoco e di nebbia, in una luce chiaroscura, che vuole uno sbilanciamento verso di “lui” ‑ che, se un poco soltanto ti inoltri, già rimani comunque senza vedere né sapere cos’avverrà nel cammino – e dove si va… Però, vale la pena comunque di andarci!» [Giuliano].

giovedì 1 agosto 2013

XVIII Domenica del tempo ordinario (C)


Dal libro del Qoèlet (Qo 1,2;2,21-23)

Vanità delle vanità, dice Qoèlet, vanità delle vanità: tutto è vanità. Chi ha lavorato con sapienza, con scienza e con successo dovrà poi lasciare la sua parte a un altro che non vi ha per nulla faticato. Anche questo è vanità e un grande male. Infatti, quale profitto viene all’uomo da tutta la sua fatica e dalle preoccupazioni del suo cuore, con cui si affanna sotto il sole? Tutti i suoi giorni non sono che dolori e fastidi penosi; neppure di notte il suo cuore riposa. Anche questo è vanità!

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Colossèsi (Col 3,1-5.9-11)

Fratelli, se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio! Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria. Fate morire dunque ciò che appartiene alla terra: impurità, immoralità, passioni, desideri cattivi e quella cupidigia che è idolatria. Non dite menzogne gli uni agli altri: vi siete svestiti dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova per una piena conoscenza, ad immagine di Colui che lo ha creato. Qui non vi è Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, Scita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto e in tutti.

 

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 12,13-21)

In quel tempo, uno della folla disse a Gesù: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità». Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?». E disse loro: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede». Poi disse loro una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. Egli ragionava tra sé: “Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? Farò così – disse –: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!”. Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”. Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio».

 

Le letture che la Chiesa ci propone per questa Diciottesima Domenica del Tempo Ordinario mostrano con evidenza quella che è una prerogativa di tutto il vangelo, e cioè la sua perenne attualità, la sua capacità di interpellare ogni generazione, di parlare all’uomo di ogni tempo, anche al nostro. Anzi, in questi testi, sembra addirittura intercettata laproblematica vera dell’uomo del nostro tempo (ma forse solo perché – anche se in contenitori culturali diversi – è la problematica dell’uomo di tutti i tempi): e cioè il senso della vita, a fronte della morte… il “cosa siamo qui a fare?”, se poi dobbiamo morire… il “come dunque spendere questo breve tempo che ci è dato?”, “come impegnarlo?”, “in cosa impegnarci?”, “a cosa attaccare il cuore, dare le nostre energie, affidare il nostro tempo?”, “quale senso sposare, per cosa vivere, a cosa credere?”, “a chi dar retta, da chi imparare, chi seguire per non buttar via questa vita e noi stessi con essa?”…

Con il ritornante e sempre mai sopito ritornello amaro del libro del Qoelet: «tutto è vanità. […] Infatti, quale profitto viene all’uomo da tutta la sua fatica e dalle preoccupazioni del suo cuore, con cui si affanna sotto il sole? Tutti i suoi giorni non sono che dolori e fastidi penosi; neppure di notte il suo cuore riposa. Anche questo è vanità!». Cioè, con la tentazione/consapevolezza (paura) agnostico atea, per cui, quelle, rimarranno domande senza risposta; tanto che non val neanche la pena affannarsi per pensarci… ma piuttosto smagarsi dall’illusorio incontro/ricerca di una sensatezza, per vivere da uomini/donne maturi, che sanno fronteggiare l’abissalità della morte, che ci riserva il niente («Farò così – disse –: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!”»).

Solo che poi la morte sopraggiunge davvero – e non solo nel nostro immaginario, più o meno esorcizzato con ironia, sarcasmo, acidità o presunta maturità e superiorità quasi indifferente – e ci porta via chi amavamo di più, chi non era giusto che morisse (perché troppo giovane, troppo bello o troppo importante), chi non ha fatto in tempo nemmeno ad affacciarsi in questo nostro tempo (perché troppo fragile, troppo scomodo, troppo piccolo), chi non aveva ancora trovato il “lieto fine” delle sue vicende (perché troppo solo, o troppo ingarbugliato, o troppo poco amato)… chi – semplicemente – avremmo voluto fosse stato ancora un po’ a farci compagnia… e allora si fa esperienza di come tutte le risposte (o rispostine) che ci siamo dati con la testa, che abbiamo messo lì per placare/sfidare l’angoscia, non tengono, non sos-tengono la realtà di una vita inconsistente, in cui «Tutto ciò che esiste, ma, ancor peggio, tutto ciò che è umano e ci è caro, è destinato a morire. Non ha in sé capacità di tenere insieme i pezzi fisici o vitali di cui è composto. Questo vuol dire in/consistenza!»… e allora davvero «Non possiamo reprimere quella parte di noi che si commuove e si ribella. Le bestemmie di Giobbe, come gli incubi dei santi e dei dannati sono sacre, sono quelle di ogni uomo pensoso, per l’ingiustizia del dono di una vita “da morire”»! [Giuliano]

È dentro qui – dentro a questa condizione in-consistente dell’uomo (addirittura “da dentro” questa condizione) – che si innesta la vicenda storica di Gesù e in particolare questo brano del vangelo di Luca che la liturgia oggi ci propone. E che parla di vita e di morte, appunto…

Innanzitutto l’incipit – sempre sorprendente: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità». Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?»… Come “Chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?”? Non era mica Dio, il Figlio di Dio, il Figlio dell’uomo?! Insomma il Messia? Dunque il giudice e mediatore sopra di noi? No! No, almeno nel senso che quest’uomo intendeva/pretendeva, che noi uomini intendiamo/pretendiamo… quando «vorremmo trascinare il vangelo nelle nostre questioni e non ci accorgiamo che esso invece va alla radice e le sconvolge tutte» [Maggioni, il racconto di Luca]: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede»!

Ecco la “radice” della questione: non chi ha ragione o torto, quanto spetta a questo e quanto a quello… ma “da cosa dipende la vita?”, il suo senso?… Che – come dicevamo – è il problema dell’uomo.

Gesù, all’uomo disperso nelle ragioni per aver ragione, nella misurazione di sé e degli altri per aver un po’ di più (di eredità, di soldi, di amore, di lucidità, di cultura, di simpatia, di attenzioni, ecc…) degli altri e “sentirsi sicuro” (e a ben guardare tutta la nostra vita la misuriamo così!), dice: la vita non dipende da ciò che si possiede… c’è da cambiare sguardo, pena il rimanere «consumati nel farsi dar retta» [De Andrè, Verranno a chiederti del nostro amore], cioè nel «primo più ingenuo tentativo di sfuggire alla morte, come privazione di ogni bene, che è la bramosia di accantonare più beni possibile… come sicurezza per sé!» [Giuliano]. C’è da fare un passo indietro – come guardare dal di fuori – tutte queste dialettiche sulle cose, che ci rendono più simili a un pollaio che ad una famiglia… e intravvedere in esse – e nella passione che ci mettiamo (per aver ragione appunto – dunque per sentirci giustificati, sicuri, “apposto”) – quanto siano intrise della logica dell’affermazione di sé, per niente libere – come credevamo e pretendevamo di imporre – ma sempre inserite nel meccanismo: paura della morte – bisogno di affermazione di sé (a scapito degli altri)… come a dire… in un regime di “si salvi chi può”… mors tua, vita mea

A guardarle così… le nostre “ragioni” (religiose, politiche, economiche, affettive, relazionali, ecc…) si sgonfiano proprio, perché ci appaiono non così nobili come volevamo farle apparire, ma meschine tanto quanto quelle degli altri… perché votate non a rispondere al problema del senso, ma a fintarne uno di cui convincersi e convincere, con lo scopo non di Vivere, ma di sopravvivere (più degli altri)…

È da qui che Gesù si tira fuori e vuole tirarci fuori, per fissare lo sguardo altrove: «“Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”. Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio». Dove il nodo centrale è quel “per sé” – così evidente anche dal monologo che il ricco della parabola si fa tra sé e sé («Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!») – contrapposto al “per chi?” di Gesù («Quello che hai preparato, di chi sarà?”») e al suo “presso Dio” («Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio»).

Un po’ scostati allora (è la preghiera!) dal pollaio delle pretese di possedere le giuste ragioni, orientati dallo sguardo stesso con cui Gesù – anch’egli scostato («stava in preghiera») – ha guardato la nostra storia, si può intravvedere che forse c’è differenza tra morire – perché non si è vinta l’ennesima battaglia della lotta per la sopravvivenza e si è stati sopraffatti da qualcuno/qualcosa più forte di noi – e morire – perché ci si è consegnati alla Vita, che è poi l’A/altro… già durante la vita!

Per arrivare – in pace – alla consegna finale…

Come Gesù… e tanti dietro a Lui…
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