Nel breve racconto dell’apparizione agli undici si affacciano molti temi, alcuni già noti, altri che compaiono per la prima volta. In questa scena soltanto Gesù agisce e parla: saluta, domanda, rimprovera, mostra le mani e i piedi e, perfino, mangia davanti ai suoi discepoli. Al contrario i discepoli sono fermi e silenziosi, tranne il gesto di offrire a Gesù una porzione di pesce. Non si dice se hanno toccato Gesù e neppure, almeno esplicitamente, se hanno creduto. Di loro sono, però descritti i sentimenti interiori: lo sconcerto e la paura, il turbamento e il dubbio, lo stupore e l’incredulità, la gioia. I sentimenti dominanti tradiscono la difficoltà a credere nella risurrezione. Luca sa che non è facile credere nel Risorto.
[B.Maggioni, Il racconto di Luca, Cittadella Editrice, Assisi 2001, 398].
In questa terza domenica di Pasqua la Chiesa rinnova la proposta di continuare a meditare il mistero di Cristo risorto. In questa prospettiva, come già nei testi di domenica scorsa (Gv 20,19-31: l’episodio di Tommaso), ciò che emerge con chiarezza è quanto anche la citazione sopra riportata comunica efficacemente: non è facile credere nel Risorto! Questo è il dato che più di ogni altro emerge dai testi sulle apparizioni di Gesù risorto, ed è un elemento di cui bisogna rendere conto.
Perché non lo riconoscono – mi è stato diverse volte chiesto in questi giorni? Perché i sentimenti dominanti di chi lo incontra sono lo sconcerto, la paura, il turbamento, il dubbio, lo stupore, l’incredulità? Perché anche oggi siamo così propensi a stimare l’operato storico di Gesù e lo spessore umano rivelato durante la sua passione e morte, e invece così lontani, forse addirittura scettici, sull’evento di risurrezione, che ci appare sempre così vaporoso, quasi che Gesù lì diventasse evanescente, inconsistente e dunque superfluo?
Certo la risposta a questi grandi quesiti non può essere chiara, netta e univoca, anche perché intercettano diversi livelli e piani storici: un conto è rendere ragione della paura e incredulità dei discepoli, che – non riconoscendolo pensavano di avere davanti un fantasma –, un conto è rendere ragione della nostra fede nella risurrezione, 2000 anni dopo le apparizioni… Eppure non si può nemmeno negare che in ultima analisi alla radice di queste problematiche, diverse ma evidentemente collegate, ci sia un fondamento comune.
Procediamo con ordine; innanzitutto: perché i suoi non lo riconoscono?
Il dato della non-riconoscibilità di Gesù (che nell’altra faccia della medaglia – quella meno gloriosa – vuol dire anche il non-riconoscimento da parte dei discepoli) è – come già accennato – comune a tutti gli scritti neotestamentari. Il problema degli evangelisti infatti era rendere ragione di un elemento difficilmente spiegabile con le categorie della scientificità e materialità: essi cioè dovevano in qualche modo far comprendere ai loro lettori che Gesù risorto era in continuità con il Gesù storico (era il crocifisso, era lo stesso uomo), eppure anche in discontinuità con esso (cioè in una condizione nuova). Ecco allora l’introduzione narrativa (dunque non sperimentale, analitica, medica…) di una serie di elementi che rendano questa realtà: il risorto ha i segni dei chiodi, conosce i suoi, dove sono, la storia appena vissuta, mangia, dice parole in continuità con quelle di sempre; e nello stesso tempo entra a porte chiuse, sembra un fantasma, nessuno lo riconosce…
Il non-riconoscimento / la non-riconoscibilità è dunque un segno di questa discontinuità: Gesù è il crocifisso, ora risorto.
Ma perché questo elemento è così difficilmente superabile? Perché cioè anche quando Gesù esce dalla sua irriconoscibilità, rimangono nei discepoli sentimenti di dubbio, incredulità, addirittura paura?
Beh, forse innanzitutto e molto banalmente, perché vedere vivo uno che era morto, dev’essere effettivamente un’esperienza un po’ sconvolgente e frastornante… e poi soprattutto perché quello che noi raccogliamo in un’espressione linguistica breve e veloce, “Gesù, il crocifisso risorto”, nella realtà dei fatti e nella portata di senso che li accompagna è in realtà qualcosa di molto più consistente, lento a elaborarsi, ribaltante ogni schema di comprensione della storia. Nella concentrazione di una o più apparizioni, cioè, ai discepoli si è presentato qualcosa che “non stava né in cielo né in terra”, come usano dire i bergamaschi per sottolineare la straordinarietà positiva o negativa di qualche evento… Gesù risorto, cioè quello stesso uomo con tutti gli elementi di continuità e discontinuità con il Maestro conosciuto descritti sopra, non sta né in cielo né in terra, cioè non c’è nessuno schema comprensivo della realtà dell’aldiqua (non è un malato risanato, un morto redivivo che poi morirà ancora come Lazzaro, non è uno che aveva fatto finta di morire, ecc…) né della realtà dell’aldilà (non è un angelo, non è una voce dal cielo, ecc…) che renda ragione dell’esperienza che i suoi, nell’incontrarlo, vivono. Ecco perché l’invito pressante di tutte le letture di oggi è quello della conversione: è quello cioè della rottura, quasi dell’esplosione di tutti gli schemi mentali, gli orizzonti di senso, le prospettive di significazione che finora avevano guidato quegli uomini. Non c’è nessun contenitore simbolico – fra quelli costruiti finora nella loro vita – che possa contenere questo evento nuovo.
Ecco da dove arriva il dubbio, l’incredulità, la paura: dal fatto che è chiesto un salto antropologico; un salto antropologico che finché non hanno incontrato Gesù risorto non era nemmeno immaginabile (quante volte infatti Gesù aveva preannunciato la sua risurrezione? Eppure le sue parole – stando alla narrazione evangelica – sembrano cadute nel nulla, nella dimenticanza, nell’oblio): già durante la sua vita terrena Gesù aveva condotto a tante conversioni i suoi, a tanti cambi di mentalità, a tanti salti antropologici. Ma questo non si era ancora dato; non era possibile prima: ma essi questo immediatamente non lo comprendono (poi sì, tant’è che gli evangelisti poi mettono per iscritto la memoria ritrovata degli annunci di risurrezione) e si chiedono perché Gesù non gli abbia fatto fare questo pezzetto di percorso quando era ancora con loro, riconoscibile, in carne e ossa.
Ecco perché il dubbio, l’incredulità, la paura: perché, immediatamente senza orientamenti, si ritrovano di fronte a un evento che fa saltare ogni possibilità di comprensione (secondo gli schemi vecchi, cfr Mt 9,16-17: «Nessuno mette un pezzo di stoffa grezza su un vestito vecchio, perché il rattoppo porta via qualcosa dal vestito e lo strappo diventa peggiore. Né si versa vino nuovo in otri vecchi, altrimenti si spaccano gli otri e il vino si spande e gli otri vanno perduti. Ma si versa vino nuovo in otri nuovi, e così l’uno e gli altri si conservano») e stavolta – a differenza dei tre anni di vita pubblica precedente – sono chiamati a farlo in prima persona, senza una conduzione passo passo del Maestro, senza una rintracciabilità di senso nelle sue parole di spiegazione (cfr per esempio Mt 13,36: «Poi congedò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si avvicinarono per dirgli: “Spiegaci la parabola della zizzania nel campo”», o Mc 9,28: «Entrato in casa, i suoi discepoli gli domandavano in privato: “Perché noi non siamo riusciti a scacciarlo?”»), nella sua vicinanza, nella sua fruibilità quotidiana.
Ecco dunque la drammaticità della situazione, soprattutto della situazione interiore di questi uomini e donne che si ritrovano di fronte a Gesù risorto: l’angoscia del tradimento, lo smarrimento per quello che era apparso il fallimento della loro vita, la paura della persecuzione e della morte… e dentro lì il prorompere di un evento, di un incontro, che mostra di non essere com-prensibile, intelligibile, organizzabile con gli schemi mentali soliti e che dunque chiede una conversione, un’esplosione antropologica, teologica, mentale…
Forse per questo le prime parole di Gesù sono sempre parole di pace… Perché si rende conto davvero di quello cui sta mettendo di fronte i suoi…
Perché invece noi passiamo via così lisci su questo mistero della risurrezione? Perché – scrivevo anche sopra – oggi noi siamo così propensi a stimare l’operato storico di Gesù e lo spessore umano rivelato durante la sua passione e morte, e così lontani, forse addirittura scettici, sull’evento di risurrezione, che ci appare sempre così vaporoso? Quasi che Gesù lì diventasse evanescente, inconsistente e dunque superfluo?
Forse il percorso fatto finora può aiutarci un po’ nel rispondere a queste domande: forse infatti il problema nostro è diventato quello di aver concentrato così tanto il racconto di risurrezione, che esso è diventato quasi uno slogan, un modo di dire, qualcosa di ovvio, su cui non c’è più bisogno di soffermarsi… Forse purtroppo bisogna constatare che non solo questo, ma tutto il mistero cristiano è stato come liofilizzato, spezzettato e fatto conoscere attraverso brevi formulazioni (pensate al catechismo di Pio X), da imparare a memoria, sradicate dalla storia narrata nei vangeli e vissuta da Gesù e dai suoi e sradicate dalla domanda di senso che esse contengono; che è della stessa qualità e profondità delle domande di senso che anche l’uomo di oggi si pone, il quale però dal messaggio evangelico si sente tutto, fuorché intercettato in verità! E questo per quelli di fuori, ma anche per quelli di dentro (alla Chiesa)!
Ecco il problema, che l’annuncio evangelico non ci intercetta più a quel livello radicale che ha sconvolto i discepoli, a quel livello dove in discussione non entrano comportamenti morali o atteggiamenti liturgici, ma l’adeguatezza del mio orizzonte di senso con la realtà, con la verità, con la vita. Per i discepoli il dramma è stato convertirsi fino a questo punto di fronte al loro Gesù morto e risorto… è stato cambiare la ragione con cui pensare la vita, la storia, il senso… e decider-si (decidere cioè di se stessi) di fronte ad essa! A noi invece sembra non far molto problema né che sia morto, né che sia risorto, come se si parlasse di qualcosa d’altro da noi, di qualcosa che non ci riguarda, di un bel raccontino edificante, che però è lontano anni luce dalla nostra vita…
Il dramma dei discepoli – descritto nelle pagine di vangelo di queste domeniche – dovrebbe invece aiutarci a venir fuori dal nostro oblio e a confrontarci davvero con quello che stiamo dicendo annunciando al mondo Gesù risorto… perché davvero non è facile credere alla risurrezione e non possiamo andare a gridare uno slogan, se prima (e incessantemente) non accettiamo di passare nel crogiuolo della conversione radicale (e gioiosa, ma solo dopo, non immediatamente e banalmente) che la risurrezione di Gesù inevitabilmente impone: credere nella risurrezione di Gesù vuol dire infatti far esplodere la struttura antropologica del mors tua vita mea, perché finalmente e radicalmente liberati dalla paura sappiamo fin morire per gli altri. Ma questo non è né banale, né troppo gioiosamente annunciabile…
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4 commenti:
Si, è vero, spesso si rischia di banalizzare una Storia vera, di un Uomo vero, in una storiella non più credibile perché noi stessi non ci crediamo. Quindi, avendo noi stessi una fede evanescente,il nostro annuncio del Risorto perde della sua forza. In sintesi. Per questo più volte ho sottolineato che la Fede è un dono divino, non una lezione che si impara. Quel terzo occhio che ci fa vedere oltre la nostra realtà, a cui crediamo perché la vediamo e la viviamo. Ancorati ai nostri limiti, non riusciamo a volare dentro il concetto di un Dio onnipotente, onnipresente e onnisciente. E non mi riferisco al Catechismo di Pio X, ma alla consapevolezza sostanziale di un Dio che è Altro, totalmente diverso da noi e quindi non rinchiuso in schemi umani. Se Dio è onnipotente, tutto può, quindi anche la Risurrezione è possibile. Se Dio è onnipresente, ecco che quindi è il Vivente, se è onnisciente, Egli non è avvolto nella nostra ignoranza, per quanto istruita. Gesù è quindi certamente Risorto, non può essere che così, perchè se Gesù fosse morto, come capita ad ogni comune mortale, sarebbe morto Dio stesso (io sono nel Padre e Lui è in me) e tutta la nostra fatica di vivere non avrebbe alcun senso, se non ci fosse la Speranza (oserei dire la certezza) di riunirci a Lui, oltre questa misera vita terrena. Il testimone del Risorto deve portare in sé una fede assoluta in questo, allora e solo allora riuscirà a far passare il messaggio più vero: questa vita è il banco di prova e contemporaneamente la rampa di lancio verso la Vita che ci aspetta oltre lo strappo del velo che ce la nasconde, allora non saremo più così disperatamente aggrappati a questi pochi anni, e non ci spaventerà mettere in gioco la nostra vita per gli altri, anche fino alla morte, se occorresse.
Non è facile e gli stati d'animo dei discepoli sono anche i miei, con tutte le alternanze possibili....
ma cerco di puntare il mio sguardo su Gesù, il crocifisso risorto e non riesco mai a spiegare agli altri cos'è per me, è una cosa tutta mia, troppo personale e non trovo mai parole adatte.
Però dopo aver letto il commento di Chia e quello di Danila, invio un abbraccio "materno" alla prima e "fraterno" alla seconda.
Cara 'ntonia, ricambio di cuore l'abbraccio fraterno! Sto leggendo un magnifico libro di Padre Alex Zanotelli, missionario comboniano per molti anni, in Africa. Titola "Korongocho - alla scuola dei poveri", e spiega molto bene chi è per lui il Crocifisso. Lo trova nei volti di tutti i crocifissi (sofferenti nella carne e nell'anima) del mondo. E' sconvolgente, e suggerisco volentieri la lettura a tutti coloro che non conoscono la fatica dei missionari e la sofferenza dei loro "Poveri". Anch'io non so spiegare con parole mie chi è il Risorto, per questo sono necessari sacerdoti che vivono intensamente la fede in Lui, e la sappiano "contagiare" al mondo intero!!!
Ciao a tutti!
Conosco la figura di Padre Alex e qualche suo scritto e ne condivido tanti aspetti, anche quello di essere tornato in Italia e muoversi nelle nostre città meridionali.
Ieri ho incontrato alcune famiglie molto vicine a noi, italiane, dove la forza di camminare sembra mancare, dove tutto sembra crollare e sopraffarti..... eppure una luce si deve riescire a trovare. Qualcuno ne è consapevole, altri, tanti no.
E' questo il vangelo che noi scriviamo con la nostra vita. Non è facile Chia, ma è quello che ci chiede Gesù: la testimonianza di una semplice ma sentita, vera ...vicinanza, comunione con loro.
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