Il brano di vangelo che la Chiesa ci propone per questa dodicesima domenica del tempo ordinario è un brano molto noto, anche perché presente in tutti e tre i sinottici. In tutti, in qualche modo, è presentato come un momento fondamentale (un momento di svolta) nella vita di Gesù: in essi è infatti raccontata – resa narrazione – la problematica di Gesù rispetto al suo impatto sugli altri (sulla gente, prima; sui suoi, poi). Dopo cioè che ha iniziato la sua vita pubblica (battesimo nel Giordano, 40 giorni nel deserto), dopo che ha iniziato a predicare il Regno di Dio (con parabole e con i segni della liberazione dal male), dopo che ha iniziato a raccogliere intorno a sé diversa gente (discepoli e folle), dopo che ha iniziato a suscitare le prime resistenze nel potere costituito, ora è il momento del fermarsi un attimo a guardare… cosa la gente ha capito di lui… cosa pensa… cosa vede…
E al di là della risposta, talmente conosciuta da poter essere citata a memoria da molti («Giovanni il Battista; altri dicono Elìa; altri uno degli antichi profeti che è risorto»), e sulla quale potremmo fare anche varie considerazioni (per esempio quella di Bruno Maggioni nel suo Il racconto di Luca: «L’errore della gente è di pretendere di capire Gesù confrontandolo con le figure del passato già conosciute. È questa una strada inadeguata. La strada giusta è sforzarsi di capire Gesù partendo da lui stesso, da quanto dice e fa. I confronti si potranno fare, ma solo dopo. E si capirà che Gesù non rinnega il passato, ma è oltre»), ciò che veramente merita attenzione – o per lo meno ha suscitato la mia – è il fatto che Gesù senta come il bisogno di “misurare” la comprensione che gli altri hanno di lui. A dire che allora forse una visione un po’ troppo frettolosa e riduttiva di un Gesù che non vive un’autentica drammatica umana (perché tanto sapeva già tutto, perché tanto era Dio, perché tanto muore ma sa che poi risorge, ecc…) non è certo in consonanza col testo evangelico… Dal quale piuttosto emerge come sia vero ciò che diciamo ogni domenica nel Credo: «Si è fatto uomo», che non si riferisce solo al momento puntuale dell’incarnazione (di cui per altro il Credo ha già parlato: «Si è incarnato e si è fatto uomo»), ma anche al lento percorso che l’ha portato a prendere consapevolezza della sua identità e a decidersi per essa (come due film, per altri versi criticabili, mostrano invece molto bene: I giardini dell’Eden di D’Alatri e L’ultima tentazione di Cristo di Scorsese). E in questo senso quanto sia contato anche il confronto con la vita altrui (emblematico in questo senso il brano della donna siro-feinicia, Mt 15,26 e paralleli: la donna che ha fatto cambiare idea al Figlio di Dio!). Come a dire che nemmeno Gesù si è tirato fuori da quella dinamica che, molto più laicamente, Povia ha descritto nella sua canzone I bambini fanno oh, quando dice che «senza qualcuno nessuno può diventare un uomo».
E i “qualcuno” con cui Gesù è diventato un uomo, in questo brano (e nei versetti seguenti) sono come chiamati a raccolta: la gente (che di lui dice: “è un profeta”), il discepolo (“è il messia”), il Padre (“il Figlio del Padre”)… E dentro a questo gioco di rimandi e rispecchiamenti, la sua parola su di sé: «Il Figlio dell’uomo – disse – deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno».
La “voce” che “manca” – oggi – è quella del lettore, è la nostra, è la mia. Dove l’importanza di dire una parola su chi sia Gesù per noi – se è vero quanto detto finora – non va solo nel senso di rispondere noi – per noi – a questa domanda (nell’unico senso cioè per cui dire chi è lui, è importante perché ci fa contemporaneamente anche dire chi siamo noi), ma anche in quello di far sì che lui possa essere sé; esattamente come un padre è padre, quando ha un figlio che lo riconosce tale; un marito è marito, quando ha una moglie, ecc… Quasi che non solo ci sia chiesto di cogliere l’importanza di Dio nella nostra vita, ma anche l’importanza nostra nella sua.
Perché se è vero che l’amore è amore anche quando non è corrisposto (e cioè che Dio resta Dio anche quando non è riconosciuto, così come un padre resta padre anche quando il figlio lo rifiuta, e un innamorato resta innamorato anche quando non è corrisposto e comunque il suo amore è sensato perché umanizza lui per primo) è altrettanto vero che la pienezza della relazione si ha in una reciprocità e corrispondenza, con tutte le gradualità e fragilità che essa può avere.
Ecco perché allora è importante, di fronte ad un vangelo come questo, fermarci un attimo anche noi – dopo che abbiamo già vissuto un pezzo della nostra vita e della nostra relazione col Signore – a chiederci “Chi dico che lui sia?”, “Chi dico che lui sia se mi fermo un attimo a rifletterci / pregarci su?”, “Chi dico che lui sia con la vita che conduco?” e infine: “Cosa / Chi lo sto facendo essere?”.
E inevitabilmente la risposta non può essere totalmente avulsa da quanto lui dice di se stesso… o meglio: può esserlo, ma con l’onestà di fondo di “parlare per aria”, senza alcun criterio orientativo. Mentre, per quanto resti il problema di una non fruibilità immediata della persona di Gesù, delle vie di accesso percorribili a lui ci sono e sono quelle che il NT stesso e poi la tradizione della Chiesa presentano ai cristiani di tutti i tempi: la Parola di Dio (e in particolare i vangeli, come ricorda DV 18: «A nessuno sfugge che tra tutte le Scritture, anche quelle del Nuovo Testamento, i Vangeli possiedono una superiorità meritata, in quanto costituiscono la principale testimonianza relativa alla vita del Verbo incarnato»), i sacramenti (e in particolare l’eucaristia, come ci ricorda LG 11, per cui il «sacrificio eucaristico [è] fonte e apice di tutta la vita cristiana»), i volti degli altri (in particolare i poveri, come dice Paolo, che mentre fa il resoconto del suo incontro con gli apostoli, si premura di annotare: «Ci pregarono soltanto di ricordarci dei poveri, ed è quello che mi sono preoccupato di fare», Gal 2,10).
È allora dentro a queste vie d’accesso (insostituibili e non aggirabili) valide per tutti che deve trovare fondamento la risposta di ciascuno, che sarà comunque – appunto – “per ciascuno la sua” e non invece una posizione omologabile; perché appunto dentro ci (si) gioca la libertà singolarissima di ogni individuo, che agli occhi di Dio, benché non sia l’unico è però sempre unico!
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