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domenica 11 settembre 2011
Il perdono possibile
postato da
Mario
Perdonare settanta volte sette, è la risposta di Dio antitetica ed esponenziale (sette di Caino e settanta di Lamech moltiplicate tra loro!) alla voglia di vendetta dell’uomo.
Ma come è possibile perdonare “oltre” il “sempre” (sette!)?
Occorre forse dapprima studiare le dinamiche del nostro odio…
Aveva ragione quel professore di esegesi nel dire che la bibbia, se la si vuole veramente comprendere, “va guardata”. Solo guardando con gli occhi il testo si possono scoprire cose che nell’ascolto facilmente sfuggirebbero.
Come quel vuoto, incredibile, assurdo tra la fine del versetto 27 (gli condonò il debito) e l’inizio del 28 (Appena uscito). Un capitolo che non c’è e che invece avrebbe dovuto esserci… Uno spazio, un vuoto immenso che dice tutta la differenza, ad esempio, tra la parabola del figliol prodigo e questa. Tra la gioiosa baraonda di una festa in un abbraccio ritrovato e l’assordante silenzio di un cambio di scena vissuto come una fuga da uno scampato pericolo. Neanche un “grazie!” neanche una stretta di mano… l’importante era “farla franca”.
Però c’erano le premesse che qualcosa in quel dialogo non andava, anzi che dialogo proprio non era. Gesù mentre racconta sottolinea come “costui non era in grado di restituire” il debito iperbolico, eppure si ostina a chiedere (letteralmente) “magnanimità” (macrothimia) con lui (sic! Come dire “non fare come con gli altri”?) “…e ti restituirò ogni cosa”!
Mente sapendo di mentire! Forse mentiva anche a se stesso: l’orgia del denaro si sa, è per sua natura alienante, perché rende ubriachi nella menzogna di un mondo che non c’è. Comunque sia, non gliene fregava niente di riconciliarsi, a lui bastava salvarsi. Certo non si aspettava che gli rimettesse il debito, gli bastava che fosse dilazionato. Fino alla prossima volta, poi si vedrà, qualcosa si escogiterà… Così esce dall’incontro convinto d’aver fregato il creditore! “Che fesso!” si sarà detto… Il suo cinismo (microthimia?) è già tutto qui. Con un rancore in più verso quella “carogna di re” (si rodeva dentro) che – dal suo punto di vista – l’aveva costretto a umiliarsi… gettarsi per terra, supplicare, come fosse un pezzente…
Al che mi veniva da pensare alla povera moglie e ai poveri figli… Chissà che inferno di vita con un uomo così. Forse avrebbero preferito essere schiavi di un re magnanimo piuttosto che familiari di uno del genere…
Quello che segue è semplice conseguenza di quanto descritto: Inevitabile che sul primo che trova sulla soglia (letteralmente: uscendo) scarica tutto il suo rancore.
Non potrebbe esserci ricostruzione più plastica del vero problema che ci assilla: Noi non crediamo veramente di essere stati perdonati! In fondo siamo vittime dell’idea di Dio che ci siamo fatti! Con quel che ne consegue. Così gli attribuiamo una giustizia che è semplicemente la proiezione della nostra idea di giustizia. L’inferno forse è proprio questo.
Come uscirne?
Se ricordo bene, è il Concilio di Trento che afferma che nessuno, senza una grazia speciale, può essere certo di essere salvato! Certo se uno pensa che la salvezza non sia “una grazie speciale”… Ma dico io, come si fa a vivere con la paura di non essere perdonati! Solo quelli di radioMaria possono predicarlo, consegnando se stessi e chi li alscolta, alla dannazione di quella paura da cui non credono di essere stati liberati… Ma non sono i soli, e non vengono dal nulla! C’è una malsana tradizione in proposito… E alcuni vi hanno fondato pure la propria spiritualità!
Sono secoli che la chiesa orientale e occidentale considera preziosa – e la propone pure come modello! – la cosiddetta “preghiera di Gesù” detta anche “preghiera del cuore” o “preghiera esicasta”, in cui si ottiene la quiete (esychia) interiore ripetendo continuamente le parole “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me!”… che è come dire ripetere all’infinito il gesto di questo servo cinico… Avete contato quante volte domandiamo “pietà” al Signore durante la messa? Ma non è “eucaristia”? cioè ringraziamento? E quando lo manifestiamo? Persino la comunione la facciamo come se stessimo ingoiando un tizzone ardente! Eppure è un “ringraziamento di una salvezza che si compie”. È – dovrebbe essere – il capitolo che manca alla parabola… della nostra vita.
Che ci sia gente che è diventata e diventa santa con questa pseudo-spiritualità, lo si deve all’infinita magnanimità di Dio, non certo alla preghiera o al “metodo” usato. Avrebbero potuto diventarlo con qualunque altro mantra! Ma ve la immaginate una persona che passa tutto il tempo a chiedervi scusa per quello che ha fatto o peggio sta facendo? O ci crede al perdono o smetta di fare quello che sta facendo, altrimenti vada al diavolo! Tediamo pure Dio, citando – come fa satana nel deserto – la sua stessa Parola!
Molto più fine la polacca suor Faustina che dice che la più grande offesa fatta al Signore è dubitare della sua misericordia, cioè del suo costante perdono! E allora uno non passa il tempo a chiedere perdono a Dio e al fratello, ma cerca di vivere con Dio e il fratello del perdono avvenuto! Cioè passa dal perdono alla riconciliazione! Dal “lutto” alla “festa”! Dalla morte alla vita, come dice appunto il padre della parabola al figlio maggiore che non vuol festeggiare (evidentemente ascoltava radioMaria)… E questo non può non generare “rapporti nuovi”: come constatano, con tristezza, gli altri servi… La giustizia nasce sempre dalla pienezza di un perdono sperimentato, accolto, creduto, testimoniato…
E così arriviamo al cuore stesso dell’avvenimento cristiano: il cristiano è colui che si sa salvato, non ha bisogno di rivelazioni particolari per saperlo, perché si sa perdonato! Questa è la condizione “normale” del cristiano! E vive di questo e in questo perdono! Questo è il cuore della fede! Cioè di ogni avvenimento della vita che prende origine dal perdono pasquale di Cristo! Questo è quello che ci ricordano e comunicano tutti i sacramenti (memoriali). E ci ricordano continuamente gli apostoli. Per questo apparteniamo – persino nella morte – alla gioia (Paolo, nella seconda lettura) e non alla paura. Questa appartiene al passato, al futuro del presente appartiene la consapevolezza della vittoria donata. Come sa ogni buon sportivo e tifoso! Ecco perché il perdono ricevuto non può non manifestarsi nella gioiosa responsabilità di manifestare l’avvenuta riconciliazione: è il perdono da noi offerto sempre e a tutti che ci fa sacramento vivente di questo perdono ricevuto: c’è forse altro da testimoniare? Altrimenti ha ragione l’apostolo Giacomo… sono solo parole e la rimessa del debito, non può che trasformarsi in strumento ulteriore di oppressione (Lo prese per il collo e lo soffocava).
Il fallimento delle nostre confessioni, in fondo sta tutto qui: andiamo per scaricare il nostro senso di colpa, consolandoci delle parole e dei gesti benedicenti del sacerdote (a questo livello inutili), non per riconciliarci con Dio e con i fratelli, unico modo per eliminare il peso che ci opprime. Abbiamo trasformato il sacramento della penitenza come il luogo luttuoso dove Dio ci perdona e non come il “luogo di festa” in cui noi prendiamo coscienza del suo perdono che ci precede. Il sacramento della penitenza non è il luogo dove noi “ci gettiamo a terra” supplicando una dilazione dalla meritata punizione (sperando di scamparla poi al momento della morte e del giudizio finale!), ma il luogo nuziale dove noi, riconosciutici perdonati prima ancora di pentircene, vogliamo ristabilire un rapporto nuovo con la vita e il suo autore. Solo incamminandoci in questa via, possiamo uscirne veramente rinnovati nel cuore: magnanimi e non meschini.
E scopriremmo infine che se c’è una “verità” nella vendetta (costringere l’altro a cambiare, riparare il torto subito, togliere il male che ci opprime, ridare vita a una morte subita, “fargliela pagare”…) solo la forza del perdono così vissuto è in grado di ottenerla. Ma questa è l’affascinante scoperta di ogni drammatico giorno…
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1 commento:
Questo Signore che nemmeno prende in considerazione la possibilità di non perdonarci, ci lascia la libertà di scegliere se sprofondare nel suo abbraccio o voltargli le spalle. E nel secondo caso non dovremmo avere paura di essere rinnegati, allontanati. Diversamente non ci sarebbe libertà, né dignità. Essere amati così è come il riposare del neonato tra le braccia della mamma.
Dal momento in cui prendiamo coscienza di questo la nostra vita diventa uno stare faccia a faccia con il Signore in cui ad ogni passo si ripropone la scelta di quanto amore siamo disposti a donargli.
Senza sforzi di volontà, cavolate ascetiche, questo mi pare un pervertire ciò che è puro, ridurre la relazione con Dio ad un esercizio di contabilità aziendale. Alla fine dev'essere l'amore a guidare quello che facciamo e non c'è sforzo in questo. Fatica sì, ma non sforzo, semmai slancio.
Non c'è dare e avere, c'è solo un circolo amoroso.
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