Come nelle domeniche precedenti, anche in questa (ventottesima del tempo ordinario) ci troviamo nel contesto della polemica di Gesù (appena entrato a Gerusalemme) con i capi dei sacerdoti e i farisei. Il testo di Matteo che la liturgia ci propone è costituito nuovamente da una parabola: l’ultima di questa serie, dopo quella dei due fratelli (Mt 21,28-32) e quella dei vignaioli omicidi (Mt 21,33-45): si tratta della parabola della grande cena.
La trama è nota, anche se l’abitudine ad ascoltarla non deve farci perdere di vista la capacità di cogliere le numerose sorprese e i colpi di scena che la caratterizzano: si parla di un re che manda i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze del figlio. L’invito è presentato a due riprese, con insistenza, ma entrambe le volte, nonostante le aspettative, esso viene rifiutato: questa è la prima sorpresa.
Ciò che colpisce è che si tratta di un diniego senza motivo: per alcuni infatti l’invito non è importante («non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari»); per altri è addirittura irritante e fonte di una reazione omicida («altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero»). Il rifiuto degli invitati suscita così la rabbia del re, che reagisce duramente («il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città»), ma egli – e questa è la seconda sorpresa – non desiste dalla sua iniziativa. Manda così di nuovo i suoi servi con l’ordine, questa volta, di invitare «tutti quelli che trovano, cattivi e buoni». «E la sala delle nozze si riempì di commensali».
La storia potrebbe finire qui... Invece prosegue con un’ultima scena. Anch’essa immancabilmente contenente una sorpresa (la terza del brano): il re infatti, entrato nella sala, vede un uomo senza abito nuziale e decide di ordinare ai servi: «Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti».
Questa la parabola. Ma come va intesa questa narrazione? Chi rappresentano questi personaggi? E che senso hanno i colpi di scena che l’autore continuamente inserisce?
Per rispondere a queste domande non bisogna dimenticare il contesto in cui è inserita la parabola, né quello in cui è stata scritta.
1) Matteo inserisce questa parabola come III di una serie che Gesù avrebbe raccontato ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo a Gerusalemme, quando ormai il conflitto con loro aveva raggiunto livelli incandescenti che sfoceranno nella sua uccisione. È dunque inevitabile – in questo primo “strato” – rilevare come i destinatari della parabola siano propri questi capi religiosi: sono loro gli invitati (indegni) al banchetto di nozze del figlio (Gesù stesso) che si rifiutano di partecipare, diventando addirittura omicidi e inaugurando – con il loro rifiuto – l’allargamento dell’invito a nozze a chiunque si trovi nei crocicchi delle strade.
Riguardo a questo primo strato interpretativo, è interessante notare come questa lettura parabolica che Gesù fa del suo rapporto conflittuale con i capi religiosi ebrei, si discosti poi però rispetto al “come sono andate le cose” nella realtà. Nella parabola infatti «il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città»; nella realtà Gesù morirà con «l’inumano amore di chi rantola senza rancore» [De Andrè] («Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno», Lc 23,34).
A dire che la durezza delle parole con cui nella parabola si esprime la reazione del padrone, hanno più il valore dell’ammonimento preventivo (affinché ciò non accada!), che della minaccia di un castigo che si realizzerà.
2) Il secondo strato interpretativo è, invece, quello che fa riferimento al momento in cui la paraola è scritta. Il primo faceva riferimento a Gesù che la racconta; il secondo a Matteo che la inserisce nel suo vangelo (decenni dopo la morte e risurrezione di Gesù). Indubbiamente per la comunità cristiana di Matteo (fatta di ebrei convertiti al cristianesimo), il grande problema era il fatto che la maggior parte degli ebrei (soprattutto i capi religiosi) avevano rifiutato Gesù, non lo avevano cioè riconosciuto come Messia, anzi avevano considerato il cristianesimo come un’eresia dell’ebraismo. In questo contesto – allora – è evidente che Matteo usa le parole di Gesù per riferirsi non più solo all’episodio contingente dello scontro a Gerusalemme coi capi religiosi ebraici, ma a tutto il popolo ebraico che aveva rifiutato “l’invito al banchetto di nozze”. In quel contesto – di scontro, anche duro, tra ebrei convertiti al cristianesimo ed ebrei rimasti tali – la parabola identifica gli invitati indegni col popolo di Israele e quelli dei crocicchi delle strade con le genti a cui l’invito si è allargato.
Ciò che, a questo secondo livello, è interessante notare è la terza ed ultima sorpresa che la parabola riserva: quella dell’uomo senza abito nuziale che – dopo essere ammutolito – viene legato mani e piedi e gettato nelle tenebre.
Lungo la storia sono stati moltissimi i tentativi di identificare cosa si celasse dietro a questo abito... ma io credo che il punto nodale sia un altro: non tanto capire quale identificazione associare a questo simbolo della parabola, ma piuttosto – seguendo la narrazione – concludere che non è perché si è parte di “tutti gli altri” – di quelli raccolti ai crocicchi delle strade – che automaticamente si è parte del banchetto di nozze. Come a dire che il far parte del Regno di Dio non ha confini razziali né in un verso, né nell’altro: con Gesù, cioè, è chiaro che il Regno non è più solo per gli ebrei (già prima di Gesù, peraltro i profeti – come testimonia la prima lettura – lo avevano ribadito); ma è anche chiaro che non basta essere non-ebrei per farne parte. La discriminazione cioè non deve andare né in un senso, né nell’altro: non è lì (non è sull’appartenenza o la non appartenenza ad un popolo) che si gioca l’appartenenza al Regno, e nemmeno sulla moralità degli invitati («Usciti per le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali»), ma su altro… che la parabola chiama “abito nuziale”, cioè la consapevolezza di esser lì per quello e non per altro…
Infine ci siamo noi… I lettori contemporanei della parabola… Noi che non abbiamo il medesimo contesto immediato di Gesù (il conflitto coi capi religiosi ebraici), né quello della comunità di Matteo (il problema dei rapporti tra ebrei convertiti al cristianesimo e ebrei rimasti tali). Cosa ha da dire a noi, allora, questa parabola (che non sarebbe nel Nuovo Testamento se non riguardasse anche la chiesa [von Balthasar])?
Mah… Io credo:
- Innanzitutto che c’è un invito! Che la storia è abitata da un invito di Dio ad un banchetto di nozze (un invito per l’aldiqua, che si eternizzerà nell’aldilà; non un invito per l’aldilà che tralascia l’aldiqua!). E dunque che la storia (sia personale che dell’umanità) andrebbe guardata, pensata e decisa così, come l’invito di Dio ad una festa, ad una gioia, ad una bellezza, ad una pienezza, ad una convivialità. L’immaginare lo sguardo di Dio sulla storia in altro modo è l’anti-vangelo;
- In secondo luogo, che questo invito di Dio è per tutti, non per alcuni a danno di altri: la vita deve essere una festa per tutti! E ogni qual volta questa realtà è tradita (e quante volte è stata ed è tradita ogni giorno che passa!!!), si tradisce la volontà di Dio sulla storia!
- Infine, che è un invito che non va perso, né fatto perdere! La parabola, infatti, «è diventata per noi un drammatico manifesto di istruzioni per “contrasto”. Come dire: ecco come si fa, dall’inizio della storia della salvezza fino ad oggi … a perdere il treno del Regno di Dio!» [Giuliano]… Cioè, come ammonimento, per non perderlo più:
o Perché si vede bene come si fa a perderlo:
§ Rimanendo indifferenti all’invito al banchetto, cioè increduli a quel volto di Dio annunciato da Gesù, che guarda alla storia come l’invito ad una festa;
§ Rimanendo indispettiti dal fatto che l’invito al banchetto è per tutti;
§ Presentandosi al banchetto con altri scopi rispetto a quelli della festa.
o E perché si vede bene cosa vuol dire perderlo:
§ non, come troppo spesso si pensa, ricevere i castighi di Dio sotto forma di «fulmini di collera o vendetta», ma permettere che nella storia si annidino «processi provocati dai nostri “rifiuti”. Non appena l’egoismo e la paura, la competizione e il dio mammona ci fanno deragliare dal progetto del Regno (la festa per tutti!), un velo di accecamento ci cala sugli occhi, una barriera ci intontisce il cuore, balbettiamo ammutoliti e ci troviamo impossibilitati a trovare soluzioni, legati mani e piedi, precipitati nel buio politico e progettuale più profondo… come si può vedere in questi giorni. E il Regno di Dio rallenta i suoi passi, perché i nostri egoismi e tradimenti li pagano i più poveri» [Giuliano].
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