Il vangelo non è sulle nuvole!
Sono forti e non insensate le obiezioni che sorgono spontanee da questa parabola evangelica, sconvolgente come poche altre ( il figliol prodigo, l’amministratore disonesto…). Sconvolge infatti non solo il nostro sistema normale di vita, ma sconcerta l’etica umana più seria. La giustizia, anche nei suoi aspetti retributivi, è una conquista irrinunciabile. Educare gli uomini alla fatica dell’impegno, il dovere di guadagnare ciò che si mangia, tenere conto dei meriti, rimangono principi assolutamente necessari e encomiabili nella dinamica della vita sociale pur rimanendo attenti ai più deboli e agli inabili… a meritare! L’ordine intramondano, sia privato che pubblico, non viene affatto abolito, ma solo superato (cioè, non è l’ultima parola!) nel “comportamento” di Dio e nella prassi dei discepoli di Gesù. Il discorso della montagna denuncia chiaramente l’insufficienza e le contraddizioni della giustizia umana, sottolinea però anche il fatto che Gesù non è venuto ad abolire la legge e le istituzioni umane, ma a dar loro compimento… Niente è annullato dello sforzo umano nell’elaborazione delle relazioni economiche, sociali e politiche, delle quali, in qualche modo, tutti siamo responsabili, perché la loro necessità è insostituibile nel cammino dell’umanizzazione. Ma queste vanno incessantemente riesaminate e sottoposte al vaglio del vangelo e al discernimento dello Spirito di Cristo, proprio perché sono necessarie, ma insieme incapaci di salvare l’uomo. Ogni altra interpretazione o applicazione di queste parabole, che trascura la permanente necessità della legge e delle istituzioni, anche per quanto riguarda l’amore ai nemici e la resistenza inerme al male… rischia di essere monca e non realistica, e porta ad un evangelismo che di fatto annulla l’efficacia critica e propulsiva del vangelo stesso nella nostra vita concreta – rischiando di ridurre il sale e il fermento del regno di Dio a utopia poetica indifferente alla storia e alla sofferenza dell’uomo.
Cosa vuol dire, allora, la Parabola?
I Giudei contemporanei di Gesù si sentivano privilegiati rispetto ai pagani, essendo stati fin dai loro antichi patriarchi, gli “eletti” a lavorare nella vigna del Signore, sprezzanti quindi dei… pagani, che erano estranei all’Alleanza e ignari della Legge. Gesù vuol aprire loro gli occhi e il cuore, mostrando come ormai è arrivato il tempo di una nuova alleanza, un nuovo “contratto” con gli uomini, cercati su tutte le piazze del mondo, un nuovo rapporto di fede, nel quale tutti, in ore e in modi diversi, sono chiamati a godere della misericordia di Dio, da sempre annunciata, proprio attraverso la storia di salvezza del popolo di Israele. Il nodo problematico della parabola, che suscita sconcerto e polemica, sta nel comportamento di Dio al momento della paga finale. E, più propriamente, nel giudizio di Gesù sull’atteggiamento e le pretese di chi si sente primo rispetto agli ultimi. Il risentimento e la protesta nascono dal pensare che la salvezza è un merito, una cosa guadagnata e perciò dovuta, una ricompensa alle nostre opere buone e non un dono gratuito… un regalo (una grazia!). E quindi, questo dono dovrebbe essere vissuto e faticato, sì, ma deve soprattutto essere goduto come un privilegio immeritato che ci inonda di riconoscenza e di gratificazione, per essere stati chiamati, appunto, da un atto di compassione! Qui sta l’equivoco. Vivere l’elezione (la propria situazione di grazia) come un riconoscimento dovuto, almeno dopo l’impegno del dovere compiuto. Col risultato di trasformare (spesso inconsapevolmente) l’attitudine interiore di “poveri beneficati” a “padroncini esigenti e presuntuosi”, duri e sprezzanti con quelli che … non ce l’hanno fatta o sono arrivati tardi e male!
Ma Dio, da che parte sta?
Da qui l’impressione scandalizzata per gli ebrei, ascoltatori di Gesù, che il Dio raccontato dalla parabola non stia dalla parte degli Israeliti osservanti, ma degli impuri, dei peccatori e dei pubblicani… O (nella situazione nuova della comunità di Matteo) la delusione amara che Dio non stia più dalla parte dei giudei, eredi del popolo eletto e convertiti alla fede cristiana, ma degli ultimi arrivati alla fede dal paganesimo, ignoranti di ogni legge e tradizione sacra e neanche circoncisi… Infine (nelle orecchie di tanti cristiani di oggi) l’insofferenza che questo stesso Dio della parabola simpatizzi per gli ultimi arrivati nella chiesa, con le loro culture eterogenee un po’ primitive, le loro teologie contestuali di liberazione, le loro prassi morali molto elastiche, le liturgie improvvisate con il popolo… e non sia invece schierato con la chiesa e la teologia classica, irreversibilmente modulata sulla cultura grecoromana, la veneranda liturgia in lingua latina e in vestiti barocchi, la gerarchia sacra docente e i laici discenti… Effettivamente, Gesù, con questa parabola, lancia una provocazione forte: un volto, o meglio, un cuore di Dio diverso, molto più aperto, premuroso e accogliente di quello che noi potevamo immaginare, preoccupato non tanto di chi è già a lavorare in vigna (in chiesa… o nell’ovile!), ma di chi è abbandonato negli elenchi delle agenzie di disoccupazione, perso nell’inutile attesa di una dignità e di una incerta collocazione. E magari anche rimproverato, perché fannullone o disimpegnato o fuggito dalla propria patria… Il Dio di Gesù è veramente “buono”, cioè sbilanciato con i più sprovveduti e invita incessantemente tutti, perfino l’empio… perché ritorni al Signore che avrà misericordia di lui e al nostro Dio che largamente perdona.
L’undicesima ora: poco prima della fine
C’è un indizio mortifero, un germe patogeno, nell’uomo che si lamenta del bene altrui, perché lo pensa “non meritato”. Un ‘bene’ che quindi ritiene premio ingiusto e come rubato a sé (che invece ciò che ha, lo ha meritato!). L’“altro” uomo è sempre percepito come un concorrente, un nemico potenziale. Di conseguenza, la propria visione del mondo e di Dio è assolutizzata a giustificazione incontrovertibile della propria posizione ideologica, sociale e morale … Allora un Dio che “mangia coi peccatori e siede a tavola con essi” (Mc 2,15); un Dio “che fa sorgere il sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e gli ingiusti” (Mt 5,45); infastidisce e irrita, perché dona gratuitamente il Regno a chi non l’ha meritato.
Ma proprio da qui s’illumina il punto centrale di tutta la nostra fede: il segreto di Dio! Non siamo al livello misurabile e in qualche modo quantificabile delle relazioni economiche o affettive o culturali… Nel rapporto di fiducia e amore, come totale dono di sé, al quale ci invita Gesù, non è vero che alcuni hanno meritato e altri no, ma siamo tutti salvati mentre eravamo ancora incapaci e peccatori: “Ora si è manifestata la giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono. E non c'è distinzione: tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Gesù Cristo. Dove sta dunque il vanto? Noi riteniamo infatti che l'uomo è giustificato per la fede indipendentemente dalle opere della legge” (Rm 3,21-28).
Rimane l’impatto della parabola, che certo mina alla radice la logica della competizione e dell’appropriazione, cioè della pretesa del “capitalismo” tanto economico come spirituale (o religioso, ma è ideologico) di essere la soluzione migliore per far funzionare la società umana. Se lo stimolo della realizzazione e dell’affermazione di sé e della propria identità, nella conquista e nell’accumulo dei beni, fa funzionare alcune dinamiche psicologiche e sociali, porta però inguaribilmente alla sperequazione e alla discriminazione, e abbandona gran parte dell’umanità… in piazza, ad aspettare inutilmente chi li chiami al lavoro e alla dignità. In più ci rende incapaci di guardare l’operaio dell’ultima ora (gran parte dell’umanità) con occhi “buoni”, come fratelli amici, e non come rivali… Gioire e far festa con loro della loro paga piena, non diminuisce la mia, ma mi spinge a far festa con loro. Così siamo tutti più ricchi, di una ricchezza condivisa, e tutta, comunque, regalata! Solo che, per entrare nell’orbita della parabola, bisogna aver provato a sussultare di gioia per la gioia altrui, più che per la propria. Anche questo è un regalo dei poveri! Bisogna pregare il Signore, che arrivi a noi prima dell’undicesima ora, perché non ci trovi col cuore triste e lo sguardo cattivo… gelosi, perche Dio è buono!
Sono forti e non insensate le obiezioni che sorgono spontanee da questa parabola evangelica, sconvolgente come poche altre ( il figliol prodigo, l’amministratore disonesto…). Sconvolge infatti non solo il nostro sistema normale di vita, ma sconcerta l’etica umana più seria. La giustizia, anche nei suoi aspetti retributivi, è una conquista irrinunciabile. Educare gli uomini alla fatica dell’impegno, il dovere di guadagnare ciò che si mangia, tenere conto dei meriti, rimangono principi assolutamente necessari e encomiabili nella dinamica della vita sociale pur rimanendo attenti ai più deboli e agli inabili… a meritare! L’ordine intramondano, sia privato che pubblico, non viene affatto abolito, ma solo superato (cioè, non è l’ultima parola!) nel “comportamento” di Dio e nella prassi dei discepoli di Gesù. Il discorso della montagna denuncia chiaramente l’insufficienza e le contraddizioni della giustizia umana, sottolinea però anche il fatto che Gesù non è venuto ad abolire la legge e le istituzioni umane, ma a dar loro compimento… Niente è annullato dello sforzo umano nell’elaborazione delle relazioni economiche, sociali e politiche, delle quali, in qualche modo, tutti siamo responsabili, perché la loro necessità è insostituibile nel cammino dell’umanizzazione. Ma queste vanno incessantemente riesaminate e sottoposte al vaglio del vangelo e al discernimento dello Spirito di Cristo, proprio perché sono necessarie, ma insieme incapaci di salvare l’uomo. Ogni altra interpretazione o applicazione di queste parabole, che trascura la permanente necessità della legge e delle istituzioni, anche per quanto riguarda l’amore ai nemici e la resistenza inerme al male… rischia di essere monca e non realistica, e porta ad un evangelismo che di fatto annulla l’efficacia critica e propulsiva del vangelo stesso nella nostra vita concreta – rischiando di ridurre il sale e il fermento del regno di Dio a utopia poetica indifferente alla storia e alla sofferenza dell’uomo.
Cosa vuol dire, allora, la Parabola?
I Giudei contemporanei di Gesù si sentivano privilegiati rispetto ai pagani, essendo stati fin dai loro antichi patriarchi, gli “eletti” a lavorare nella vigna del Signore, sprezzanti quindi dei… pagani, che erano estranei all’Alleanza e ignari della Legge. Gesù vuol aprire loro gli occhi e il cuore, mostrando come ormai è arrivato il tempo di una nuova alleanza, un nuovo “contratto” con gli uomini, cercati su tutte le piazze del mondo, un nuovo rapporto di fede, nel quale tutti, in ore e in modi diversi, sono chiamati a godere della misericordia di Dio, da sempre annunciata, proprio attraverso la storia di salvezza del popolo di Israele. Il nodo problematico della parabola, che suscita sconcerto e polemica, sta nel comportamento di Dio al momento della paga finale. E, più propriamente, nel giudizio di Gesù sull’atteggiamento e le pretese di chi si sente primo rispetto agli ultimi. Il risentimento e la protesta nascono dal pensare che la salvezza è un merito, una cosa guadagnata e perciò dovuta, una ricompensa alle nostre opere buone e non un dono gratuito… un regalo (una grazia!). E quindi, questo dono dovrebbe essere vissuto e faticato, sì, ma deve soprattutto essere goduto come un privilegio immeritato che ci inonda di riconoscenza e di gratificazione, per essere stati chiamati, appunto, da un atto di compassione! Qui sta l’equivoco. Vivere l’elezione (la propria situazione di grazia) come un riconoscimento dovuto, almeno dopo l’impegno del dovere compiuto. Col risultato di trasformare (spesso inconsapevolmente) l’attitudine interiore di “poveri beneficati” a “padroncini esigenti e presuntuosi”, duri e sprezzanti con quelli che … non ce l’hanno fatta o sono arrivati tardi e male!
Ma Dio, da che parte sta?
Da qui l’impressione scandalizzata per gli ebrei, ascoltatori di Gesù, che il Dio raccontato dalla parabola non stia dalla parte degli Israeliti osservanti, ma degli impuri, dei peccatori e dei pubblicani… O (nella situazione nuova della comunità di Matteo) la delusione amara che Dio non stia più dalla parte dei giudei, eredi del popolo eletto e convertiti alla fede cristiana, ma degli ultimi arrivati alla fede dal paganesimo, ignoranti di ogni legge e tradizione sacra e neanche circoncisi… Infine (nelle orecchie di tanti cristiani di oggi) l’insofferenza che questo stesso Dio della parabola simpatizzi per gli ultimi arrivati nella chiesa, con le loro culture eterogenee un po’ primitive, le loro teologie contestuali di liberazione, le loro prassi morali molto elastiche, le liturgie improvvisate con il popolo… e non sia invece schierato con la chiesa e la teologia classica, irreversibilmente modulata sulla cultura grecoromana, la veneranda liturgia in lingua latina e in vestiti barocchi, la gerarchia sacra docente e i laici discenti… Effettivamente, Gesù, con questa parabola, lancia una provocazione forte: un volto, o meglio, un cuore di Dio diverso, molto più aperto, premuroso e accogliente di quello che noi potevamo immaginare, preoccupato non tanto di chi è già a lavorare in vigna (in chiesa… o nell’ovile!), ma di chi è abbandonato negli elenchi delle agenzie di disoccupazione, perso nell’inutile attesa di una dignità e di una incerta collocazione. E magari anche rimproverato, perché fannullone o disimpegnato o fuggito dalla propria patria… Il Dio di Gesù è veramente “buono”, cioè sbilanciato con i più sprovveduti e invita incessantemente tutti, perfino l’empio… perché ritorni al Signore che avrà misericordia di lui e al nostro Dio che largamente perdona.
L’undicesima ora: poco prima della fine
C’è un indizio mortifero, un germe patogeno, nell’uomo che si lamenta del bene altrui, perché lo pensa “non meritato”. Un ‘bene’ che quindi ritiene premio ingiusto e come rubato a sé (che invece ciò che ha, lo ha meritato!). L’“altro” uomo è sempre percepito come un concorrente, un nemico potenziale. Di conseguenza, la propria visione del mondo e di Dio è assolutizzata a giustificazione incontrovertibile della propria posizione ideologica, sociale e morale … Allora un Dio che “mangia coi peccatori e siede a tavola con essi” (Mc 2,15); un Dio “che fa sorgere il sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e gli ingiusti” (Mt 5,45); infastidisce e irrita, perché dona gratuitamente il Regno a chi non l’ha meritato.
Ma proprio da qui s’illumina il punto centrale di tutta la nostra fede: il segreto di Dio! Non siamo al livello misurabile e in qualche modo quantificabile delle relazioni economiche o affettive o culturali… Nel rapporto di fiducia e amore, come totale dono di sé, al quale ci invita Gesù, non è vero che alcuni hanno meritato e altri no, ma siamo tutti salvati mentre eravamo ancora incapaci e peccatori: “Ora si è manifestata la giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono. E non c'è distinzione: tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Gesù Cristo. Dove sta dunque il vanto? Noi riteniamo infatti che l'uomo è giustificato per la fede indipendentemente dalle opere della legge” (Rm 3,21-28).
Rimane l’impatto della parabola, che certo mina alla radice la logica della competizione e dell’appropriazione, cioè della pretesa del “capitalismo” tanto economico come spirituale (o religioso, ma è ideologico) di essere la soluzione migliore per far funzionare la società umana. Se lo stimolo della realizzazione e dell’affermazione di sé e della propria identità, nella conquista e nell’accumulo dei beni, fa funzionare alcune dinamiche psicologiche e sociali, porta però inguaribilmente alla sperequazione e alla discriminazione, e abbandona gran parte dell’umanità… in piazza, ad aspettare inutilmente chi li chiami al lavoro e alla dignità. In più ci rende incapaci di guardare l’operaio dell’ultima ora (gran parte dell’umanità) con occhi “buoni”, come fratelli amici, e non come rivali… Gioire e far festa con loro della loro paga piena, non diminuisce la mia, ma mi spinge a far festa con loro. Così siamo tutti più ricchi, di una ricchezza condivisa, e tutta, comunque, regalata! Solo che, per entrare nell’orbita della parabola, bisogna aver provato a sussultare di gioia per la gioia altrui, più che per la propria. Anche questo è un regalo dei poveri! Bisogna pregare il Signore, che arrivi a noi prima dell’undicesima ora, perché non ci trovi col cuore triste e lo sguardo cattivo… gelosi, perche Dio è buono!
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