In questa seconda domenica del Tempo Ordinario, la Chiesa ci invita a riflettere sui primi versetti del II capitolo del vangelo di Giovanni. Dopo il Tempo di Natale infatti, la liturgia ci avvia alla scoperta della vita pubblica di Gesù, inaugurata col Battesimo al Giordano (celebrato domenica scorsa), e approcciata oggi dal punto di vista giovanneo. Non a caso infatti il nostro testo (Gv 2,1-12), fa parte di quella sezione inaugurale del vangelo di Giovanni, chiamata “prologo storico” (Gv 1,19-2,12), che ha precisamente la funzione di introdurre il lettore al resto della narrazione.
Di questa sezione è immediatamente importante sottolineare una particolare caratteristica strutturale: «Giovanni ha disposto le sequenze narrative di questa sezione in maniera molto chiara, secondo uno schema caratteristico. Lo segnala anche la Bibbia di Gerusalemme mettendo un titolo significativo a questa sezione: “la settimana inaugurale”. L’inizio della vicenda di Gesù è racchiuso nello spazio di una settimana di sei giorni; tale disposizione a noi ricorda subito un’altra settimana, quella dell’inizio per eccellenza: la settimana della Creazione, al sesto giorno della quale ci fu la creazione dell’uomo. Si osservino dunque i seguenti versetti:
- 1,29: “il giorno dopo”, il che significa che c’è stato un giorno precedente con la comparsa del Battista e adesso c’è un secondo giorno in cui è ancora il Battista il protagonista;
- 1,35: di nuovo l’annotazione: “il giorno dopo…”;
- 1,43: “il giorno dopo”;
- 2,1: “tre giorni dopo” [che la liturgia sostituisce con “in quel tempo”], una traduzione di per sé imprecisa, bisognerebbe infatti tradurre “due giorni dopo”, perché tale è nella lingua greca il significato dell’espressione “il terzo giorno” che compare nel testo originale.
Il materiale degli avvenimenti iniziali che riguardano Gesù e i discepoli è disposto quindi su un film che è fatto di sei grandi scene, e le nozze di Cana stanno come il culmine di un cammino: da una parte il culmine degli eventi di cui si compone la presentazione iniziale di Gesù e, dall’altra, il sorgere della fede nei discepoli: “Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui”.
Al termine dunque della settimana iniziale che ci riporta alla creazione, la comparsa e l’azione di Gesù hanno il valore di una ri-creazione del mondo; in particolare vi si allude alla ri-creazione dell’uomo (sesto giorno). […] Ciascuno dei sei giorni è caratterizzato da qualcosa di particolare e di unico:
- La prima giornata (1,19-28) è la giornata del testimone, del Battista […];
- Il secondo giorno (1,29-34), è il giorno di Gesù, della sua prima comparsa sulla scena […];
- Il terzo giorno (1,35-42) è il giorno dei primi discepoli […];
- Nel quarto giorno (1,43-51) la figura centrale è Natanaele […];
- La quinta giornata non c’è;
- La sesta giornata è Cana, con la rivelazione della gloria di Gesù nel segno del vino nuovo», [P.PEZZOLI, La testimonianza del discepolo amato, in AAVV, Scuola della Parola, Litostampa Istituto Grafico, Bergamo 1997, 174-176].
Il testo di questa II domenica del Tempo Ordinario, allora, corrisponde al sesto giorno di questa settimana inaugurale: è quindi quello che più di tutti si carica di attesa da parte del lettore; anche perché la locuzione con cui è introdotto – «il terzo giorno» – (omessa come visto dal testo evangelico usato per la liturgia che la sostituisce con «in quel tempo»), produce essa stessa nei lettori un effetto d’attesa potentissimo: «“il terzo giorno” nell’Antico Testamento, era stato, per esempio, quello dell’arrivo al Sinai, il luogo dell’Alleanza (Es 19,10-11), oppure era il giorno in cui Os 6,2 annunciava l’azione di Dio che interviene per dare vita al suo popolo e salvarlo (“dopo due giorni ci ridarà vita e il terzo ci farà rialzare e noi vivremo alla sua presenza”, un brano che un antico commento ebraico spiega così: è il giorno in cui Dio ‘consola i morti’, cioè salva il suo popolo). Senza dire che a un lettore cristiano “il terzo giorno” richiama anticipatamente la Pasqua di Gesù» [Ivi, 184].
Dunque: Cosa avviene in questo sesto giorno della settimana inaugurale, in questo giorno inaugurato dall’espressione “il terzo giorno”, in questo giorno che suscita così grandi attese?
Avviene un miracolo… anzi… più precisamente: un segno!
La grande attesa del lettore si risolve in questo modo: ad un banchetto di nozze, in cui viene a mancare il vino, Gesù trasforma una spropositata quantità d’acqua (500/700 litri) in vino nuovo.
Il problema dunque diventa quello di capire questo segno.
Innanzitutto perché è meglio dire “segno” e non “miracolo”? Perché Giovanni stesso sceglie questo linguaggio. Egli infatti non vuole porre tanto l’accento sul fatto prodigioso, quanto piuttosto sull’intenzionalità di Gesù che lì si mostra: «Questo primo gesto di Gesù [infatti] è un gesto attraverso il quale traspaiono le intenzione di Dio» [Ivi, 185].
«Chi ha seguito Gesù viene portato a conoscere Dio; chi ha incominciato a seguirlo, magari ancora un po’ nell’oscurità, intuendo che Gesù offre una nuova familiarità, intuendo che in lui si trova una dimora in cui è bello fermarsi, a questo punto percepisce che le intenzioni di Dio sono queste, cioè che l’uomo viva, che l’uomo faccia festa, che abbia abbondanza; là dove la sua gioia viene meno, incontra il Dio che gli dà la gioia, che lo vuole invitare a nozze» [Ivi, 185]!
L’uomo nuovo creato nel sesto giorno della nuova settimana inaugurale, è dunque l’uomo felice; l’uomo come lo vuole Dio è l’uomo che fa festa, è l’uomo che è nella gioia, nella convivialità, nell’amicizia…
Questo dato evangelico inequivocabile è il medesimo che altrove è espresso con la categoria di “Regno di Dio”: esso infatti non è altro che “il mondo come Dio lo vuole”, e cioè, la pienezza della vita dell’uomo, l’umanizzazione della sua interiorità ed esteriorità, la dilatazione dell’amore… (cfr. la descrizione del Regno di Dio di Mt 11,2-6: «Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?”. Gesù rispose loro: “Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!»).
Ma…
Se questo è Dio, se questa è l’idea di uomo che ha in testa…
Perché spesso viene veicolato, all’interno dello stesso cristianesimo, un volto altro di Dio? Un volto ambiguo, un volto da cui all’uomo può venire sia il bene che il male?
E inoltre: Perché se questo è il progetto di Dio per l’uomo, noi oggi ci troviamo molto più spesso di fronte a un mondo dis-umanizzato che a un mondo in festa?
Forse le due problematiche non sono slegate…
Di certo la prima ha a che fare con la strutturale incapacità dell’uomo (ben delineata attraverso il mito genesiaco di Adamo ed Eva) di fidarsi del volto promettente di Dio: l’uomo ha sempre paura che in fin dei conti la bontà di questo Dio sia fasulla, illusoria… che prima o poi Dio chiederà il conto… Nessuno scampa al dubbio insinuato dal serpente che Dio si mostri apparentemente tanto buono, ma solo per poter colpire alle spalle («Il serpente era il più astuto di tutti gli animali selvatici che Dio aveva fatto e disse alla donna: “È vero che Dio ha detto: ‘Non dovete mangiare di alcun albero del giardino’?. Rispose la donna al serpente: “Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: ‘Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete’”. Ma il serpente disse alla donna: “Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male”», Gn 3,1-5). Oggi il dubbio è divenuto addirittura radicale: non solo la sua bontà potrebbe essere illusoria, ma addirittura Lui in persona potrebbe non esistere.
Questo dubbio su Dio ha come inevitabile conseguenza, lo smarrimento dell’uomo: se Dio mi si mostra buono, ma poi non lo è, o addirittura se non esiste, vuol dire che la mia vita non è al sicuro nelle sue mani… vuol dire che dunque non posso affidargliela… vuol dire che o mi salvo da solo… o non mi salva nessuno…
Ed ecco la seconda problematica… Per chi si deve salvare da sé tutto diventa un probabile pericolo… Non mi posso fidare nemmeno di chi mi dorme accanto… Mi devo guardare da tutti… Chi mi sta intorno è un potenziale nemico, di certo un rivale nella lotta per la sopravvivenza (fisica, affettiva, carrieristica, ecc…).
Non c’è spazio per la festa nella gara per la sopraffazione: se devo emergere io, qualcun altro deve soccombere… Ed ecco che la spirale di competizione e morte che la guerra tra fratelli ingenera porta alla dis-umanizzazione che oggi ci si palesa dinnanzi con così tanta evidenza…
Ma il Signore aveva detto un’altra parola sull’uomo e sulle sue relazioni con i fratelli…
E precisamente questa parola dovrebbe ridiventare per i cristiani il centro della vita, il motore propulsore della loro azione e preghiera, il senso ultimo della loro passione: fare dei piccoli spazi che ci sono dati in questa storia, angoli di Regno di Dio!
Ed è molto interessante che proprio in questa domenica in cui leggiamo dell’uomo com’è pensato da Dio, si celebri la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, simbolo mai così eloquente come in questi giorni, della lontananza del mondo che stiamo costruendo, dal Regno che il Signore ci ha proposto… Paura, respingimenti, violenza… proprio là dove il Signore dice: accoglienza, fraternità, amore…
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