Il vangelo che la Chiesa ci propone in questa quarta domenica del tempo ordinario, è la precisa continuazione di quello letto la settimana scorsa. Là la liturgia aveva fatto la scelta di concentrarsi sulla prima parte della vicenda di Gesù a Nazaret – quella della sua auto-proclamazione come compimento della citazione di Isaia 61,1-2, ripresa anche all’inizio del brano odierno –, senza preoccuparsi delle reazioni suscitate nei suoi ascoltatori. Qui invece l’attenzione va precisamente su queste conseguenze: la meraviglia iniziale («tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca») si tramuta improvvisamente in rifiuto («tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fino al ciglio del monte per gettarlo giù»).
Curiosamente non sono i compaesani di Gesù ad esprimere la motivazione di questo cambiamento, ma è Gesù stesso che li previene: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!”». Il problema immediato sembra dunque consistere nel fatto che Gesù faccia miracoli fuori dal suo paese e non li faccia invece in patria…
Problema che solo Luca identifica in questo modo: Marco (6,1-6) e Matteo (13,53-58) fanno infatti piuttosto riferimento ad un’altra ragione che avrebbe originato il rifiuto dei nazaretani, e cioè l’umile origine di Gesù, la sua condizione di falegname, che anche Luca ricorda (dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?»), ma sulla quale non si attarda. Inoltre rispetto agli altri sinottici, Luca è l’unico a porre quest’episodio all’inizio del ministero pubblico di Gesù, trasformando quest’esperienza del rifiuto in un episodio di apertura. Gli altri infatti ne parlano più avanti, a missione inoltrata.
Certo, come precisa B. Maggioni, dal punto di vista storico paiono più corretti Marco e Matteo: «l’episodio di Nazareth non è la prima apparizione in pubblico di Gesù: tanto è vero che gli abitanti di Nazareth gli rimproverano di aver già compiuto molti miracoli altrove. Né – sempre dal punto di vista storico – si può dire che il rifiuto sia stato la prima reazione che Gesù ha incontrato: raccontando, infatti, subito dopo i miracoli compiuti a Cafarnao, Luca annota che “la sua fama si diffondeva in tutta la regione” (4,37) e che “le folle lo cercavano” (4,42). Tuttavia – pur essendo al corrente di tutto questo – l’evangelista ha scelto come episodio iniziale un rifiuto. Non c’è dubbio sulla sua intenzione. Storicamente l’opposizione alle parole e alle azioni di Cristo è cresciuta a poco a poco, ma Luca vuole che il lettore la incontri subito, fin dalle prime pagine, e vi rifletta. In tal modo il punto più delicato dell’intera storia di Gesù – il fatto cioè che abbia incontrato l’opposizione del suo popolo e sia stato crocifisso – non è differito, ma affrontato immediatamente. Da una parte il Messia che annuncia l’oggi di Dio e offre la sua liberazione ai poveri e ai peccatori, dall’altra gli uomini che ne provano irritazione: ecco il contrasto già chiaro nell’episodio di Nazareth e di cui l’intero vangelo vuole essere un’ampia illustrazione».
Il problema che dunque ci si profila a partire da questo vangelo è il rifiuto a cui il volto di Dio che Gesù rivela, va incontro. Più precisamente: il problema non è il rifiuto di Dio. Ci sono infatti immagini di dio che doverosamente sono da rifiutare! Ma il rifiuto di questo Dio, di Colui che – come dicevamo settimana scorsa e anche quella prima – è incontrovertibilmente il Dio della Vita degli uomini, dell’umanizzazione delle loro dis-umanizzazioni… Colui dal quale inequivocabilmente giunge all’uomo solo il bene.
Il problema profilato da Luca allora non è semplicemente quello della particolare malvagità da imputare a quella generazione o a quegli abitanti di Nazareth, ma la comune durezza di cuore che si incontra dappertutto e in ogni tempo.
Perché, dunque, il rifiuto di questo Dio?
Io credo che il testo di Luca indichi una duplice e complementare linea interpretativa. Innanzitutto il fatto che precisamente questo volto di Dio faccia problema; e in secondo luogo il tratto di questo volto in cui emerge l’universalità della dedizione.
In altre parole, Luca sembra dire che, per un verso, il rifiuto di questo volto di Dio dipenda dal fatto che è un volto che non giustifica più la cattiveria umana, la ricerca di potere, il continuo riproporre logiche di sopraffazione; questo Dio infatti, in quanto Dio della Vita dell’uomo, di ogni uomo – in particolare del più debole –, non può più essere strumentalizzato contro qualcun altro (il povero non è il maledetto, il malato non è il peccatore, l’altro non è il nemico, l’eretico non è quello contro cui scagliare un guerra santa…); l’altro – anzi – proprio a partire da questo volto di Dio è sempre e solo fratello… Ecco perché diventa un Dio scomodo… perché non giustifica più la mia lotta per imporre me stesso, il mio popolo, la mia razza, il mio partito, la mia ideologia…
Per altro verso, il rifiuto di questo volto di Dio che si propone come Padre di tutti, dipende dal fatto che precisamente questo suo essere di tutti, immediatamente viene percepito dalla logica competitiva umana come meno mio: il problema degli abitanti di Nazareth è infatti che lui faccia miracoli anche altrove.
È sempre la medesima insofferenza che ci nasce dentro quando capita qualcosa di buono a qualcuno che non siamo noi o che non è dei nostri: come se il bene che capita ad un altro fosse immancabilmente qualcosa che è tolto a me, ai miei…
Ecco, precisamente queste sono le dinamiche del rifiuto che Luca vuole mettere in risalto: l’inaccettabilità di un Dio che non coincide con il mio idolo, con il vessillo della mia ideologia, con il “come lo avevo pensato io”; e l’inaccettabilità di un Dio che è anche il Dio di qualcun altro… anzi il Dio di tutti!
Sostanzialmente l’inaccettabilità di un Dio che mi chiede di essere fratello/sorella del mio prossimo, sempre e comunque, dell’altro, sia esso ricco o povero, oppresso o oppressore, libero o prigioniero, cieco o vedente, peccatore o santo, eterosessuale o omosessuale, ebreo o nazista, berlusconiano o bersaniano, buono o cattivo… Solo chi vede l’altro come un fratello/sorella, infatti, non sente come rubato a sé il bene che gli capita, ma anzi, sa dare la vita perché il bene capiti all’altro…
Ma appunto… tutto questo non è altro che inaccettabile, impossibile… e un Dio così, in-credibile, cioè non degno di fede… Non conviene credere a un Dio così, si finisce male… Perché è vero – e Gesù l’ha sperimentato sulla sua pelle: non c’è nulla di più feribile dell’amore che si dona.
Eppure è altrettanto vero che se, per paura di donarsi (di morire), ci si trattiene da questa modalità di stare al mondo, il vivere si tramuta in un triste e sterile sopravvivere impaurito, dove l’altro rimane sempre e solo colui che mi potrebbe fare del male e da cui dunque devo difendermi, e dio sempre e solo l’ultimo baluardo idolatrico della mia ideologia...
L’inaccettabile Dio della Vita e la sua impossibile logica dell’amore che si dona (sempre) sono allora davvero la più autentica possibilità per l’uomo di essere Uomo e per la sua vita di essere Vita…
Io almeno non ne ho trovate altre così affascinanti e credibili, così appassionanti e dilatanti, così azzardate e così belle… Così vivificanti e umanizzanti…
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1 commento:
Come è reale e positiva la tua conclusione, Chia.
La nostra paura di donarci e quindi morire. L'altra scelta (ma è veramente solo nostra?) vivere in modo afascinante, appassionato, dilatante, azzardato, bello.... umano, vivo... Eh!
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