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martedì 19 agosto 2014

XX Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro del profeta Isaìa (Is 56,1.6-7)

Così dice il Signore: «Osservate il diritto e praticate la giustizia, perché la mia salvezza sta per venire, la mia giustizia sta per rivelarsi. Gli stranieri, che hanno aderito al Signore per servirlo e per amare il nome del Signore, e per essere suoi servi, quanti si guardano dal profanare il sabato e restano fermi nella mia alleanza, li condurrò sul mio monte santo e li colmerò di gioia nella mia casa di preghiera. I loro olocausti e i loro sacrifici saranno graditi sul mio altare, perché la mia casa si chiamerà casa di preghiera per tutti i popoli».

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani (Rm 11,13-15.29-32)

Fratelli, a voi, genti, ecco che cosa dico: come apostolo delle genti, io faccio onore al mio ministero, nella speranza di suscitare la gelosia di quelli del mio sangue e di salvarne alcuni. Se infatti il loro essere rifiutati è stata una riconciliazione del mondo, che cosa sarà la loro riammissione se non una vita dai morti? Infatti i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili! Come voi un tempo siete stati disobbedienti a Dio e ora avete ottenuto misericordia a motivo della loro disobbedienza, così anch’essi ora sono diventati disobbedienti a motivo della misericordia da voi ricevuta, perché anch’essi ottengano misericordia. Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per essere misericordioso verso tutti!

 

Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 15,21-28)

In quel tempo, partito di là, Gesù si ritirò verso la zona di Tiro e di Sidòne. Ed ecco una donna Cananèa, che veniva da quella regione, si mise a gridare: «Pietà di me, Signore, figlio di Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio». Ma egli non le rivolse neppure una parola. Allora i suoi discepoli gli si avvicinarono e lo implorarono: «Esaudiscila, perché ci viene dietro gridando!». Egli rispose: «Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele». Ma quella si avvicinò e si prostrò dinanzi a lui, dicendo: «Signore, aiutami!». Ed egli rispose: «Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini». «È vero, Signore – disse la donna –, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni». Allora Gesù le replicò: «Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri». E da quell’istante sua figlia fu guarita.

Il vangelo che la liturgia ci propone è molto noto e, rispetto a quanto scrivevo 6 e 3 anni fa, non avrei molto altro da dire.

Userò perciò lo spazio del commento di questa domenica per provare a riflettere sul mio presente a partire da quanto i testi suggeriscono.

(Chi invece fosse interessato ad un commento più puntuale del brano può andarsi a rileggere le vecchie lectio su questo blog)

venerdì 12 agosto 2011

XX Domenica del Tempo Ordinario: Dio anche per noi stranieri

Le letture che la Chiesa ci propone per questa ventesima domenica del Tempo Ordinario mi hanno suscitato un vero e proprio fermento di riflessioni, spunti, intuizioni… io vorrei provare a mettere tutto per iscritto, ma temo che l’effervescenza che m’ha preso, mi porti a fare un po’ di confusione… perché vorrei dire tutto quanto m’è passato nell’anima, ma non sempre è facile tradurre questi “attraversamenti” in pensieri razionali e in discorsi compiuti… Ne risulterà perciò forse – e me ne scuso fin da ora – una lectio un po’ turbolenta, che – appunto – vuol più provare a metter lì delle suggestioni, che a compiere un percorso organico…

Innanzitutto vorrei sottolineare come tutte e tre le letture contengano un riferimento chiarissimo agli stranieri:

-          Isaia dice: «Gli stranieri li condurrò sul mio monte santo e li colmerò di gioia nella mia casa di preghiera. I loro olocausti e i loro sacrifici saranno graditi sul mio altare, perché la mia casa si chiamerà casa di preghiera per tutti i popoli» (Is 56,7).

-          San Paolo scrive alla comunità cristiana di Roma (dunque a cristiani non ebrei, anzi a cristiani romani… romani esattamente come coloro che occupavano la Palestina…); scrive cioè a stranieri – particolarmente non amati – e gli scrive riconoscendo la loro piena titolarità cristiana;

-          Infine il vangelo parla dell’incontro di Gesù con una donna straniera (una Cananea), con la quale Egli ha un confronto proprio in merito alla sua “estraneità” al popolo eletto…

E allora, mi veniva da pensare al grande problema degli immigrati, degli stranieri che arrivano nella nostra Italia, delle inconsulte reazioni che tutto ciò ha provocato nei mesi scorsi (e di cui oggi ci siamo totalmente scordati, perché presi da altro… dal terrore che i nostri soldi diventino carta straccia), della strumentalizzazione della sofferenza della gente, del razzismo inconsapevole di tanti di noi, ecc… ecc… ecc… Ci sarebbe da andare avanti fino a domani mattina solo a parlare di questo…

Ma ciò che invece vorrei far notare è come la reazione a tutto ciò – cioè a queste letture che ci richiamano a questi problemi – solitamente sia di stampo morale: bisogna accogliere gli stranieri, bisogna aiutarli, bisogna rispettare la loro diversità, ecc… che son tutte cose vere e sacrosante, ma che – mi pare – non arrivino fino al nodo vero della questione, che invece il testo biblico centra in pieno: gli stranieri siamo noi!


È un po’ come il discorso dei peccatori… Leggendo il vangelo noi ci mettiamo spesso a guardare le cose dal punto di vista (morale) dei giusti invitati a usare misericordia verso i peccatori, dato che Dio è misericordioso… Poche volte (magari legate a particolari situazioni della vita) ci viene istintiva l’identificazione col peccatore (non a caso nei nostri discorsi vien sempre fuori la necessità che – va bene tutto – però poi: “Che il Signore venga e faccia una bella distinzione finale – inferno/paradiso – tra i peccatori e noi!” ci scappa detto…). Ecco… per gli stranieri è la stessa cosa… Ogni volta che si parla di loro nella Bibbia, noi pensiamo non ad un messaggio rivolto a noi, ma un messaggio rivolto a loro (poverini!), mentre a noi non rimane altro che collaborare con Dio (da bravi figli che siamo – cosa che loro invece, così implicitamente pensiamo, non sono) al suo progetto di accoglienza anche nei loro confronti, ecc…

In realtà gli stranieri (così come i poveri e i peccatori) non sono l’occasione per la mia carità, ma sono un luogo teologico vero e proprio, in quanto paradigmatici della vera identità di ciascuno di noi. Noi siamo gli stranieri a cui pensava Isaia, cioè quelli non appartenenti per razza al popolo ebraico. Noi siamo i Romani a cui Paolo scrive per riconoscergli la possibilità di essere cristiani nonostante non siano ebrei. Noi siamo quella donna cananea che ha aperto la missione di Gesù al di là dei confini giudaici!

Cioè, queste letture sono rivolte a noi! E ciò che ci dicono è la buona notizia che Dio non è solo il Dio di un popolo, di una razza, di un gruppo (a cui noi non apparteniamo), ma può e vuole essere anche il Dio della mia vita… della mia vita non abilitata (per razza, eredità o merito) ad esserlo!

Allora, vedete che le cose cambiano… La prospettiva cambia… E diventa stupefacente andare a vedere come questa cosa è accaduta nella storia… quella volta… che poi ha spalancato le porte a tutti...

È ciò che è raccontato nel brano di vangelo di questa domenica attraverso tre passaggi sconvolgenti:

1-      Gesù cambia idea;

2-      è una donna straniera a fargliela cambiare;

3-      e la cambia su una questione fondamentale: Dio non è solo il Dio degli ebrei.

Per capire davvero la portata di questi elementi, che coraggiosamente la prima comunità cristiana ha voluto tramandare per sempre a tutta la Chiesa, proviamo a guardarli uno alla volta, da vicino.

1- Innanzitutto, dire che Gesù – che noi crediamo il Figlio di Dio – abbia cambiato idea “strada facendo”, lasciandosi provocare dalla storia che man mano viveva e dagli incontri che in essa faceva, non è una cosa così indolore. Ancora oggi (anzi forse molto più oggi che allora), affermare una cosa del genere scatena immediatamente reazioni di iper-prudenza, di attenuazione delle parole, di ridimensionamento della cosa. Non fa niente se è scritto in modo inequivocabile nel vangelo: la paura atavica della dissacrazione di Dio e della sua possibile ritorsione (eterna) è più forte. E allora si ha bisogno come di liofilizzare la vicenda terrena di Gesù, di renderla eterea, di de-storicizzarla.

Ma perché fa così paura dire che Gesù ha cambiato idea? Il timore è che questo possa mettere in discussione la sua divinità e – di conseguenza – la nostra salvezza. Cioè che, se Gesù non sapeva già tutto in anticipo (con l’esclusione quindi della possibilità per lui di cambiare idea, di evolvere nella presa di coscienza di sé, del Padre e della sua missione), ma “si è fatto” strada facendo (come fanno tutti i figli di questo mondo – e come peraltro di Lui dice anche il Credo…), allora forse non era Dio... Ecco il terrore sottostante!

Ma il problema è che in tutto questo ragionamento, che forse non esplicitiamo mai, ma che soggiace al nostro modo di rapportarci a Dio e dunque a noi stessi e agli altri, c’è un pregiudizio di fondo: il fatto che siamo noi a decidere il modo in cui Gesù deve essere Dio: deve sapere tutto e in anticipo (onniscienza), deve potere tutto ciò che vuole (onnipotenza), deve essere forte, grande, eterno... Insomma un plenipotenziario degli attributi degli abitanti dell’Olimpo... questo è il dio che abbiamo in testa noi, perché – ci chiediamo – se non fosse così, come potrebbe salvarci?

E seppur il vangelo è lì a smentire continuamente questa immagine e a invitarci a convertirla, essa rispunta sempre. Come per esempio qui, nella fatica, personale ed ecclesiale di prendere sul serio il fatto che Gesù abbia cambiato idea, che Gesù cioè fosse uomo per davvero e che questo, lungi dal diminuire la sua divinità, la rivela invece in pienezza: Gesù è Dio così, facendosi uomo. Tutti i tentativi di ridurre, mitigare, diluire la sua personale vicenda storica, pensando così di salvaguardarne la divinità, in realtà perdono l’una e non trovano l’altra, se non, al massimo, in una forma evanescente, inconsistente, insapore e incolore, tanto lontana dalla vita dell’uomo da apparire superflua, se non addirittura inutile (come di fatto accade oggi).

E pensare che tutta la vita di Gesù dice il contrario... nasce povero e nudo dal grembo di una donna; di lui il vangelo dice che «cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,52); che ha provato la lotta col male (Mt 4,1 ss); che si è lasciato provocare dalle discussioni con gli altri uomini (Mt 9,14 ss); che «si meravigliava» (Mc 6,6); che si intristiva e piangeva (Gv 11,35); che si commuoveva (Mt 14,14); che incontrava, andava, ritornava, amava, pregava; che provava «paura e angoscia» (Mc 14,33)… che – per dirla alla De Andrè – «è morto come tutti si muore, come quegli altri, cambiando colore».

E a meno di dire – come è stato detto dall’eresia docetista –che Gesù facesse finta, è necessario, di fronte a questa evidenza, assumere con serietà e radicalità il fatto che Gesù sia Dio proprio nel modo di farsi uomo! E che – viceversa – dentro a questo “farsi uomo” di Gesù, fatto di storia e incontri, riflessioni e esperienze, ci sia anche il suo modo di essere Dio: un Dio che sceglie di essere Dio-con-gli-uomini o Dio-mai-senza-l’uomo, che dunque sceglie di non scrivere la storia a prescindere da lui, ma di inventarla insieme con lui… sapendo il rischio che corre…

2- Secondo sconvolgimento: anche le donne in maniera inconcepibile per la mentalità ebraica di allora ed ecclesiastica di oggi – sono entrate in questo flusso di presa di coscienza di Gesù! E lo hanno fatto in modo radicale. È curioso quanto peso – ancora una volta con un coraggio smisurato – la prima comunità cristiana abbia riservato nei vangeli agli incontri di Gesù con le donne. Non solo per la loro quantità o frequenza, quanto per la loro decisività: Gesù nasce dal grembo di una donna; non ha paura di andare contro le prescrizioni ebraiche e di suscitare scandalo facendosi da loro toccare («Ed ecco una donna, che soffriva d'emorragia da dodici anni, gli si accostò alle spalle e toccò il lembo del suo mantello. […] Gesù, voltatosi, la vide e disse: “Coraggio, figliola, la tua fede ti ha guarita”», Mt 9,20.22) e amare («Ed ecco una donna, una peccatrice di quella città, saputo che si trovava nella casa del fariseo, venne con un vasetto di olio profumato; e fermatasi dietro si rannicchiò piangendo ai piedi di lui e cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di olio profumato», Lc 7,37-38), difendendole pubblicamente («Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei», Gv 8,7); addirittura attribuendo all’incontro con una di esse la stessa necessità di farne memoria che assegna all’eucaristia («In verità vi dico: dovunque sarà predicato questo vangelo, nel mondo intero, sarà detto anche ciò che essa ha fatto, in ricordo di lei» Mt 26,13); scegliendo tra tutti, appena risorto, di andare dalla sua Maria Maddalena («Maria!», Gv 20,16)…

E poi la nostra di oggi… quella donna che ha fatto cambiare idea al Figlio di Dio… una donna… che era straniera!

3- Testimone emblematica del fatto che il Signore è uno che accetta di avventurare la sua libertà nell’intreccio con quella della sua creatura, a prescindere da qualsiasi barriera razziale, culturale, di genere, incontrandola invece in quell’intimità di sé (la stanza interiore) che fa l’uomo umano (e cioè abilitato all’incontro col divino – il divino di Gesù Cristo).

Ecco il terzo sconvolgimento! Il più sconvolgente perché ha sconvolto per primo Gesù stesso! Egli infatti ha dovuto prendere coscienza di dover cambiare idea e di dover uscire dalla mentalità giudaica del suo tempo che pensava la salvezza come dono esclusivo per Israele. A ben guardare infatti Gesù inizialmente si dedica «alle pecore perdute della casa d’Israele», non va nei territori pagani e non a caso chiama dodici discepoli: egli infatti vede la sua missione come la costruzione del nuovo Israele!

Ma… la vita gomito a gomito con la gente, nonostante il tentativo, anche duro, di trattenersi («egli non le rivolse neppure una parola») lo “converte”… gli fa cambiare strada… e spalancare le porte dell’incontro con Dio, in lui, a tutti gli uomini! Anche a noi stranieri!
Forse perché «dire no a chi ‘da vicino’ ti chiede qualcosa, è sempre più difficile» [Relazione per i 25 anni della fraternità di Lessolo].

venerdì 15 gennaio 2010

Nella Giornata Mondiale del Migrante, l'uomo come Dio lo vuole

In questa seconda domenica del Tempo Ordinario, la Chiesa ci invita a riflettere sui primi versetti del II capitolo del vangelo di Giovanni. Dopo il Tempo di Natale infatti, la liturgia ci avvia alla scoperta della vita pubblica di Gesù, inaugurata col Battesimo al Giordano (celebrato domenica scorsa), e approcciata oggi dal punto di vista giovanneo. Non a caso infatti il nostro testo (Gv 2,1-12), fa parte di quella sezione inaugurale del vangelo di Giovanni, chiamata “prologo storico” (Gv 1,19-2,12), che ha precisamente la funzione di introdurre il lettore al resto della narrazione.
Di questa sezione è immediatamente importante sottolineare una particolare caratteristica strutturale: «Giovanni ha disposto le sequenze narrative di questa sezione in maniera molto chiara, secondo uno schema caratteristico. Lo segnala anche la Bibbia di Gerusalemme mettendo un titolo significativo a questa sezione: “la settimana inaugurale”. L’inizio della vicenda di Gesù è racchiuso nello spazio di una settimana di sei giorni; tale disposizione a noi ricorda subito un’altra settimana, quella dell’inizio per eccellenza: la settimana della Creazione, al sesto giorno della quale ci fu la creazione dell’uomo. Si osservino dunque i seguenti versetti:
- 1,29: “il giorno dopo”, il che significa che c’è stato un giorno precedente con la comparsa del Battista e adesso c’è un secondo giorno in cui è ancora il Battista il protagonista;
- 1,35: di nuovo l’annotazione: “il giorno dopo…”;
- 1,43: “il giorno dopo”;
- 2,1: “tre giorni dopo” [che la liturgia sostituisce con “in quel tempo”], una traduzione di per sé imprecisa, bisognerebbe infatti tradurre “due giorni dopo”, perché tale è nella lingua greca il significato dell’espressione “il terzo giorno” che compare nel testo originale.
Il materiale degli avvenimenti iniziali che riguardano Gesù e i discepoli è disposto quindi su un film che è fatto di sei grandi scene, e le nozze di Cana stanno come il culmine di un cammino: da una parte il culmine degli eventi di cui si compone la presentazione iniziale di Gesù e, dall’altra, il sorgere della fede nei discepoli: “Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui”.
Al termine dunque della settimana iniziale che ci riporta alla creazione, la comparsa e l’azione di Gesù hanno il valore di una ri-creazione del mondo; in particolare vi si allude alla ri-creazione dell’uomo (sesto giorno). […] Ciascuno dei sei giorni è caratterizzato da qualcosa di particolare e di unico:
- La prima giornata (1,19-28) è la giornata del testimone, del Battista […];
- Il secondo giorno (1,29-34), è il giorno di Gesù, della sua prima comparsa sulla scena […];
- Il terzo giorno (1,35-42) è il giorno dei primi discepoli […];
- Nel quarto giorno (1,43-51) la figura centrale è Natanaele […];
- La quinta giornata non c’è;
- La sesta giornata è Cana, con la rivelazione della gloria di Gesù nel segno del vino nuovo», [P.PEZZOLI, La testimonianza del discepolo amato, in AAVV, Scuola della Parola, Litostampa Istituto Grafico, Bergamo 1997, 174-176].

Il testo di questa II domenica del Tempo Ordinario, allora, corrisponde al sesto giorno di questa settimana inaugurale: è quindi quello che più di tutti si carica di attesa da parte del lettore; anche perché la locuzione con cui è introdotto – «il terzo giorno» – (omessa come visto dal testo evangelico usato per la liturgia che la sostituisce con «in quel tempo»), produce essa stessa nei lettori un effetto d’attesa potentissimo: «“il terzo giorno” nell’Antico Testamento, era stato, per esempio, quello dell’arrivo al Sinai, il luogo dell’Alleanza (Es 19,10-11), oppure era il giorno in cui Os 6,2 annunciava l’azione di Dio che interviene per dare vita al suo popolo e salvarlo (“dopo due giorni ci ridarà vita e il terzo ci farà rialzare e noi vivremo alla sua presenza”, un brano che un antico commento ebraico spiega così: è il giorno in cui Dio ‘consola i morti’, cioè salva il suo popolo). Senza dire che a un lettore cristiano “il terzo giorno” richiama anticipatamente la Pasqua di Gesù» [Ivi, 184].
Dunque: Cosa avviene in questo sesto giorno della settimana inaugurale, in questo giorno inaugurato dall’espressione “il terzo giorno”, in questo giorno che suscita così grandi attese?
Avviene un miracolo… anzi… più precisamente: un segno!
La grande attesa del lettore si risolve in questo modo: ad un banchetto di nozze, in cui viene a mancare il vino, Gesù trasforma una spropositata quantità d’acqua (500/700 litri) in vino nuovo.
Il problema dunque diventa quello di capire questo segno.
Innanzitutto perché è meglio dire “segno” e non “miracolo”? Perché Giovanni stesso sceglie questo linguaggio. Egli infatti non vuole porre tanto l’accento sul fatto prodigioso, quanto piuttosto sull’intenzionalità di Gesù che lì si mostra: «Questo primo gesto di Gesù [infatti] è un gesto attraverso il quale traspaiono le intenzione di Dio» [Ivi, 185].
«Chi ha seguito Gesù viene portato a conoscere Dio; chi ha incominciato a seguirlo, magari ancora un po’ nell’oscurità, intuendo che Gesù offre una nuova familiarità, intuendo che in lui si trova una dimora in cui è bello fermarsi, a questo punto percepisce che le intenzioni di Dio sono queste, cioè che l’uomo viva, che l’uomo faccia festa, che abbia abbondanza; là dove la sua gioia viene meno, incontra il Dio che gli dà la gioia, che lo vuole invitare a nozze» [Ivi, 185]!
L’uomo nuovo creato nel sesto giorno della nuova settimana inaugurale, è dunque l’uomo felice; l’uomo come lo vuole Dio è l’uomo che fa festa, è l’uomo che è nella gioia, nella convivialità, nell’amicizia…
Questo dato evangelico inequivocabile è il medesimo che altrove è espresso con la categoria di “Regno di Dio”: esso infatti non è altro che “il mondo come Dio lo vuole”, e cioè, la pienezza della vita dell’uomo, l’umanizzazione della sua interiorità ed esteriorità, la dilatazione dell’amore… (cfr. la descrizione del Regno di Dio di Mt 11,2-6: «Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?”. Gesù rispose loro: “Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!»).
Ma…
Se questo è Dio, se questa è l’idea di uomo che ha in testa…
Perché spesso viene veicolato, all’interno dello stesso cristianesimo, un volto altro di Dio? Un volto ambiguo, un volto da cui all’uomo può venire sia il bene che il male?
E inoltre: Perché se questo è il progetto di Dio per l’uomo, noi oggi ci troviamo molto più spesso di fronte a un mondo dis-umanizzato che a un mondo in festa?
Forse le due problematiche non sono slegate…
Di certo la prima ha a che fare con la strutturale incapacità dell’uomo (ben delineata attraverso il mito genesiaco di Adamo ed Eva) di fidarsi del volto promettente di Dio: l’uomo ha sempre paura che in fin dei conti la bontà di questo Dio sia fasulla, illusoria… che prima o poi Dio chiederà il conto… Nessuno scampa al dubbio insinuato dal serpente che Dio si mostri apparentemente tanto buono, ma solo per poter colpire alle spalle («Il serpente era il più astuto di tutti gli animali selvatici che Dio aveva fatto e disse alla donna: “È vero che Dio ha detto: ‘Non dovete mangiare di alcun albero del giardino’?. Rispose la donna al serpente: “Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: ‘Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete’”. Ma il serpente disse alla donna: “Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male”», Gn 3,1-5). Oggi il dubbio è divenuto addirittura radicale: non solo la sua bontà potrebbe essere illusoria, ma addirittura Lui in persona potrebbe non esistere.
Questo dubbio su Dio ha come inevitabile conseguenza, lo smarrimento dell’uomo: se Dio mi si mostra buono, ma poi non lo è, o addirittura se non esiste, vuol dire che la mia vita non è al sicuro nelle sue mani… vuol dire che dunque non posso affidargliela… vuol dire che o mi salvo da solo… o non mi salva nessuno…
Ed ecco la seconda problematica… Per chi si deve salvare da sé tutto diventa un probabile pericolo… Non mi posso fidare nemmeno di chi mi dorme accanto… Mi devo guardare da tutti… Chi mi sta intorno è un potenziale nemico, di certo un rivale nella lotta per la sopravvivenza (fisica, affettiva, carrieristica, ecc…).
Non c’è spazio per la festa nella gara per la sopraffazione: se devo emergere io, qualcun altro deve soccombere… Ed ecco che la spirale di competizione e morte che la guerra tra fratelli ingenera porta alla dis-umanizzazione che oggi ci si palesa dinnanzi con così tanta evidenza…
Ma il Signore aveva detto un’altra parola sull’uomo e sulle sue relazioni con i fratelli…
E precisamente questa parola dovrebbe ridiventare per i cristiani il centro della vita, il motore propulsore della loro azione e preghiera, il senso ultimo della loro passione: fare dei piccoli spazi che ci sono dati in questa storia, angoli di Regno di Dio!
Ed è molto interessante che proprio in questa domenica in cui leggiamo dell’uomo com’è pensato da Dio, si celebri la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, simbolo mai così eloquente come in questi giorni, della lontananza del mondo che stiamo costruendo, dal Regno che il Signore ci ha proposto… Paura, respingimenti, violenza… proprio là dove il Signore dice: accoglienza, fraternità, amore…

domenica 8 febbraio 2009

La gioia di una accoglienza inaspettata

Quando incomincia questo incontro - il racconto che Matteo (15, 21-28) ora ci ha fatto riascoltare - le distanze sembrano davvero enormi e quindi parrebbe davvero inavvicinabile la possibilità che la vita di questa donna e il Maestro di Nazareth si possano davvero incontrare, perché già il territorio è straniero, la zona di Tiro e di Sidone e per di più lei è donna straniera, dice “è una donna cananea”, che veniva da quella regione, e poi questo modo sgraziato, grida, è tipico di chi non sa contenere il disagio e il dolore che ha dentro e allora lo butta fuori come può, come sa, e in una forma fastidiosa se è vero che i discepoli dicono “esaudiscila perché, vedi, ci viene dietro gridando”. Ma poi questa distanza si acuisce ancora di più e, direi, sorprendentemente per questi due primi atteggiamenti di Gesù, quando annota che “non gli rivolse neppure la parola”, non è lo stile consueto di Gesù, ma Matteo lo registra questo e anzi ci aggiunge anche una risposta più tagliente, “io non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa di Israele” e lei non è di quelle; quindi, davvero sembra impossibile l’incontro. Ma i poveri hanno una loro forza, innata, e il dolore di una mamma per la sofferenza del proprio figlio - malata sua figlia gravemente - il dolore di una mamma sa sfondare, si propone e lo fa con quelle frasi divenute bellissime e indimenticabili, - come vi inviterei a tenerle nel cuore queste espressioni, come invito ad una confidenza sempre grande con il Signore - perché a quella frase forte e dura di Gesù, “non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini”, quindi marca ancora la distanza: “tu non sei di casa, tu sei straniera!”, lei restituisce una risposta inaspettata e bellissima “è vero, Signore, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni”, non si offende d essere messa nel numero dei cagnolini, non pretende di divenire figlia, ma “anche loro, i cagnolini, hanno una loro dignità e il mio dolore te lo affido”. Questo atteggiamento umile e intensissimo di fiducia sfonda e Gesù le restituisce la gioia di una accoglienza inaspettata “donna grande è la tua fede! Avvenga di te come desideri”. E’ entrata, non c’era ragione per tenerla fuori perché la fede, la fede vera, fa diventare di casa, introduce, crea una famigliarità reale, e Gesù la riconosce in questa mamma affranta dal suo dolore. Questa è la parola del Vangelo affidata oggi alla Chiesa perché a questa Parola attinga, perché da questa Parola impari questa magnanimità di cuore, questa accoglienza ospitale, questa grandezza d’animo: Dio non fa selezioni, non butta fuori quando vede la sincera apertura del cuore, accoglie, introduce e non importa chi è colui che bussa, da dove viene, se straniero o del paese nostro, se lontano o vicino, se segnato da sbagli che schiacciano la vita oppure già retto ed onesto, “adesso mi cerca con cuore sincero e io non lo faccio aspettare”. “Donna grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri”. Ecco questa Parola è proprio un regalo grande del Signore per questa domenica e consentiamole di entrare, nel cuore, quando una Parola così cominci non solo ad udirla, ma a farla tua, a crederla profondamente vera, molti aspetti della vita cambiano, molti linguaggi, stili, comportamenti, atteggiamenti, cambiano perché in qualche modo sei profondamente toccato da questo stile magnanimo e ospitale di Dio e allora dopo che fai, il piccino con gli altri ? Il gretto? Quello che fa finta di non udire, di non vedere, quello che non raccoglie il grido di chi soffre? Ma se non lo fa Dio con noi! E per fortuna che Dio è così. Qui poggia la nostra speranza più vera. I testi, tra l’altro, sia quello del profeta (Is 60, 13-14) e quello che già richiamavo all’inizio di Paolo (Rm 9, 21-26), sembrano volerci dire guarda che questo non è capitato a caso nel territorio di Tiro e di Sidone, questo progetto di magnanimità stava da sempre nel cuore di Dio. Il profeta lo aveva intravisto quando parlava degli oppressori che vengono ospitati, e Paolo lo riconosce come dono meraviglioso dell’Evangelo del Signore. Ecco oggi la nostra preghiera sia questa, che l’accoglienza che diamo alla Parola abbia questa schiettezza, questa profondità.

don Franco Brovelli, omelia al Carmelo di Concenedo, 8 feb ’09. V domenica dopo l’Epifania
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