La parabola del vangelo di Luca che la Chiesa ci propone in questa ventiseiesima domenica del Tempo Ordinario, è una di quelle che merita una spiegazione previa. Infatti il riferimento al povero Lazzaro «portato dagli angeli accanto ad Abramo» e al ricco epulone che stava «negli inferi fra i tormenti […] lontano», ci porta subito a pensare a quelli che noi abitualmente chiamiamo “paradiso” e “inferno” e rischia di farci fraintendere il tutto.
Sentendo infatti parlare di aldilà, di inferno e paradiso, di angeli e di tormenti, il contesto culturale cattolico in cui siamo immersi da quando nasciamo e cresciamo, fa scattare come un meccanismo automatico per cui non ascoltiamo più cosa dice davvero la parabola, ma ci fissiamo sul “già noto”, sulla necessità di comportarsi bene per “meritarsi” il paradiso, sull’imperativo di evitare il male per non finire all’inferno, identificando con “l’essere buoni” o “l’essere cattivi” qualcosa che da sempre ci dicono: una rigorosità morale in ambito sessuale, una mortificazione della nostra spontaneità, una puntualità legalistica nella partecipazione alle celebrazioni sacre, ecc… ecc… ecc…
Questa prospettiva però – che probabilmente ha avuto una sua ragion d’essere in passato – oggi risulta un po’ riduttiva: ciò che infatti all’uomo odierno non risulta chiaro è il perché (o se volete il per chi) di tutti questi moniti e accorgimenti. In una società in cui l’aldilà non è più dato per scontato – come invece avveniva un tempo – la grande preoccupazione dei più infatti è molto più legata al “come tirare a campare nell’aldiqua” piuttosto che al come porsi per l’aldilà.
Questa prospettiva, che forse qualcuno giudicherà di cattivo auspicio, sottolineando come si sia persa la tensione per l’infinito, l’eterno, la cura dell’anima, ecc., in realtà ha la sua buona dose di bontà nella misura in cui arriva forse a cogliere meglio la prospettiva autentica con cui Gesù intendeva la parabola.
La preoccupazione di Gesù infatti – ad una lettura scevra dai nostri preconcetti sul paradiso e sull’inferno – non è affatto quella di delineare un’escatologia: qui Gesù non sta dicendo che c’è l’inferno, che è fatto in un determinato modo, che alcune tipologie di persone sicuramente ci finiranno… La sua preoccupazione è per la vita nell’aldiqua!
Certo usa la cultura del suo tempo – che implica una certa visione del dopo morte – facendo riferimento agli inferi e agli angeli, ma con lo scopo di parlare della storia di questo nostro mondo, non di quell’altro.
È come se, a partire dalla prospettiva finale della vita di ciascuno, provasse a illuminarne il percorso, fissando quindi l’interesse non sulla meta, ma sul cammino da fare: come un atleta che immagina il traguardo, ma per sapere come allenarsi per correre i 100 m che precedono la linea finale; o come un regista, che a partire dall’idea di “lieto fine” che vuol dare al suo film, pensa a come raccontarne la trama…
Questo va detto, perché altrimenti le parole del vangelo di questa domenica (che – come vedremo – non sono per niente scontate rispetto alla nostra idea di aldilà e aldiqua), rischiano di scivolarci via senza nemmeno interpellarci, perché tanto – pensiamo – dell’escatologia cristiana sappiamo già tutto: sappiamo dell’inferno in cui vanno i cattivi, del paradiso in cui vanno i buoni, del purgatorio per i “così così” e di cosa si deve o non si deve fare per arrivarci.
In realtà, a far lo sforzo di lasciar da parte tutto quanto “già sappiamo” e di andare a leggere bene quel che dice Gesù, un primo grosso pregiudizio cade: non si dice che il ricco fosse malvagio, né che il povero Lazzaro fosse buono. Si dice solo che l’uno «indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti» e che l’altro «stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe».
Certo, qualcuno potrebbe obiettare che la colpa del ricco sta nel fatto che durante tutta la sua vita non ha fatto nulla per questo povero (non gli ha fatto l’elemosina!), pur sapendo della sua esistenza (era proprio lì, fuori da casa sua), ma in tutta la parabola non si fa cenno a questa colpa; perfino quando Gesù mette in bocca ad Abramo le parole di spiegazione per il ricco della situazione in cui si viene a trovare dopo morto («Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti») non v’è riferimento alcuno alla “mancata elemosina” o al fatto che il problema stia nel non essersi accorto e preso cura del povero seduto alla sua porta.
Queste spiegazioni – pur legittime – ce le diamo noi, le ha date per decenni l’omiletica, ma in sé la parabola non vi fa cenno: la parabola cioè non moralizza il problema, non si concentra su “che cosa ha sbagliato il ricco per finire all’inferno”, che invece a noi interessa molto, perché – come tentavo di dire prima – la nostra lettura è sempre inficiata da questa prospettiva: nel vangelo c’è scritto cosa fare e non fare per non andare all’inferno; dove a predominare è sempre la logica della paura di Dio (che mi può spedire all’inferno) e la “giusta” ansia di capire come non farlo arrabbiare…
Il vangelo invece non segue questa prospettiva: il cosa fare / cosa non fare per non andare all’inferno non è la sua preoccupazione; la paura di Dio e la relativa ansia sul da farsi per non farlo arrabbiare, non rispecchia l’immagine del Padre che Gesù tratteggia. Il vangelo vuol dire altro, Gesù vuole dire altro! Qualcosa che lascia del tutto in secondo piano il “da farsi” e vuole piuttosto concentrarsi sull’ingenerare in chi lo ascolta una logica diversa, una prospettiva, una mentalità, un volto di Dio e di uomo diversi.
Non a caso – come dicevo – la questione non sembra essere morale. Il ricco è all’inferno non perché è cattivo, ma perché è ricco. E il povero è con gli angeli, non perché era buono (non si sa, stando al testo!), ma perché era povero.
Ciò che emerge allora pare essere non tanto una (o più) azioni malvagie, una (o più) azioni buone, ma l’ingiustizia radicale dell’essere ricco: «Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti». Una frase che sembra quasi portare a dire: era meglio nascere povero e patire per un po’ (nell’aldiqua), ma godere per sempre (nell’aldilà), che nascere ricco e godere per un po’ (nell’aldiqua) e patire per sempre (nell’aldilà).
Siccome però – come mostrato prima – a Gesù sembra interessare poco in questa circostanza l’aldilà, bisognerebbe quasi arrivare a dire, semplicemente: meglio nascere povero, che nascere ricco nell’aldiqua: non perché si avrà il contraccambio nell’aldilà, ma perché nella visione di Gesù della storia dell’aldiqua (guardata, sì, a partire dalla fine, ma solo per averne il giusto punto prospettico) è meglio essere poveri.
Questa è la paradossalità della parabola. Nessuno di noi infatti direbbe questa cosa così nuda e cruda: noi – appunto – diremmo “è meglio essere poveri nell’aldiqua, per essere ricchi nell’aldilà”; oppure “il problema ricchi-poveri andrebbe risolto non con l’eliminazione dei ricchi, ma con l’eliminazione dei poveri”, e via discorrendo…
Gesù invece “entra a gamba tesa” su questi giri di parole e dice “meglio essere poveri”.
Tra l’altro non lo dice solo qui, di modo che uno possa sempre pensare che magari è stata una svista dell’evangelista, o del copiatore, o del traduttore, o dell’interprete… ma lo ripete continuamente: basti guardare alle beatitudini («Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio», Lc 6,20; tra l’altro – a fugare ogni dubbio – unica beatitudine di Luca al presente, onde evitare che “regno di Dio” voglia dire “paradiso”), al giovane ricco («Il giovane se ne andò, triste; possedeva infatti molte ricchezze», Mt 19,22), o a tutti i passi in cui la ricchezza è identificata come un ostacolo alla bellezza della vita per l’uomo (questo è il regno di Dio!): «Non potete servire Dio e la ricchezza», Mt 6,24; «la seduzione della ricchezza soffoca la Parola ed essa non dà frutto», Mt 13,22; «è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio», Mt 19,24… Senza contare che lui per primo visse da povero…
Come a dire che dentro a questa categoria dell’umano che noi istintivamente rifuggiamo, c’è qualcosa che invece è in sintonia col “mondo come Dio lo pensa”, con l’idea che Lui ha della nostra felicità, della nostra “buona riuscita”, della pienezza della vita. E al di là di tutte le poesie che si possono fare sulla povertà, sulla libertà interiore che essa “regala”, ecc… credo che l’elemento decisivo stia nella restituzione della qualità originaria e autentica della vita dell’uomo cui la povertà fa accedere, a renderla così ben vista agli occhi di Dio.
L’essere ricco infatti è la grande illusione per l’uomo, è il grande inganno sulla sua vera realtà, su chi è lui veramente: cioè povero e dunque inevitabilmente necessitato da un affidamento… cioè figlio. Illudersi di non essere poveri, fa dimenticare di essere figli, che – avendo un Dio che è Padre – vuol dire condannarsi all’infelicità.
«L’uomo è povertà. In quanto oggetto e destinatario dell’agape l’uomo è l’essere-di-bisogno; dove bisogno dice a un tempo la relazione a un insieme di beni da fruire e la problematicità del possesso di quei beni. Nella prima faccia il bisogno dice ricchezza, almeno virtuale, potenzialità di espansione e di felicità; nella seconda, dice che ogni bene conquistato non è mai garantito, che ogni ricchezza acquistata è sempre insicura, ogni espansione precaria, ogni felicità fragile. Non siamo mai le cose che abbiamo, neppure le più intime: il nostro modo di essere è l’avere, in un senso più profondo di quanto dica l’abituale distinzione tra essere e avere. Infatti quella distinzione si istituisce sul piano valutativo, come discriminazione tra beni autentici e beni estranianti; ma sia gli uni che gli altri non diventano mai noi stessi al punto da essere inalienabili, rimangono sempre sotto il segno dell’aleatorietà. Qui non siamo più sul piano della valutazione, ma della struttura dell’esistenza umana, di quella che possiamo chiamare povertà radicale dell’uomo. […] Povertà non è sinonimo di finitezza. Un essere finito potrebbe avere tutto ciò che gli compete, e averlo in maniera così salda e sicura da non correre pericoli per la propria realizzazione: […] parlare di povertà in questo caso avrebbe senso soltanto misurando l’uomo su un metro, a lui estrinseco, di infinito. […] Povertà non è limite del proprio essere; è limite dentro il proprio essere. […] Ma abbiamo detto povertà radicale. E con questo intendiamo porre una distinzione tra le situazioni attuali, effettive, di povertà e quella condizione di base, quella fragilità che permane anche nelle situazioni di opulenza e di esteriore sicurezza, e che nessun possesso o potere può superare. […] È questa crepa che chiamo povertà radicale; quella che una famosa immagine biblica chiama i piedi d’argilla che reggono la statua di metalli preziosi. […] Ma: gloria Dei vivens pauper. Quest’espressione di Oscar Romero, che riprende e precisa quella di Ireneo (gloria Dei vivens homo), costituisce la definizione dell’essere umano alla luce dell’agape divina. Dire che Dio ama l’uomo come altro da sé equivale a dire che nell’uomo egli ama il povero: non ciò che l’uomo ha ed è, ma quell’essere-di-bisogno che è bisogno di avere e di essere. […] Ma proprio questa povertà, che in sé non ha né è nulla di amabile, viene amata da Dio e da lui colmata: e in questo gesto Dio si rivela Dio. Dunque, la volontà di colmare il povero – ogni uomo in quanto povero – è la parola originaria che Dio dice su di sé: è la sua gloria. Quando parliamo della predilezione di Dio per i poveri non tracciamo un limite al suo amore – quasi Dio amasse soltanto coloro che sono attualmente poveri – ma indichiamo il luogo privilegiato in cui riconoscere questo amore. Nella preferenza di Dio per i poveri attuali si testimonia la qualità del suo amore per tutti gli uomini nella loro povertà radicale» [A. RIZZI, Dio in cerca dell’uomo].
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