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giovedì 21 luglio 2011

XVII Domenica del Tempo Ordinario. E se il Signore mi chiedesse: “Chiedimi ciò che vuoi?”

Il vangelo che la Chiesa ci propone per questa diciassettesima domenica del Tempo Ordinario – tratto anch’esso, come quelli delle due domeniche precedenti dal discorso parabolico di Matteo (cap.13) – inizia con la narrazione di due similitudini sul Regno: «Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo. Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra».

Sono immagini che, per la loro immediatezza, non necessitano di una spiegazione. Fanno parte di quel tipo di parabole brevi ed istantaneamente comprensibili che Gesù dispensava alle folle, dunque ai semplici, senza necessità di far grandi giri di parole.

Nonostante questo, esse, però, veicolano comunque degli interrogativi che chi le ascolta/legge non può non porsi: Nella mia vita ho incontrato il Regno dei cieli di cui parla Gesù? C’è stato qualcosa nella mia storia che ha avuto questa conformazione? Che cosa è stato come un tesoro, come una perla preziosa? Per che cosa sono o sono stato disposto a vendere tutto?


Certo le cose non sono immediatamente sovrapponibili… Non sempre ciò che ci è sembrato un tesoro (e per il quale magari abbiamo anche venduto tutto) si è poi rivelato tale! Spesso noi prendiamo e abbiamo preso degli abbagli… Ci siamo entusiasmati e spesi per ciò che forse non si è rivelato così promettente come sembrava all’inizio…

Ma – nonostante questo – io credo che ciascuno, anche solo perché l’ha sforato, sappia cogliere la differenza tra “la gioia di aver trovato” di cui parla il vangelo e qualche altra ambigua fascinazione.

In proposito, mi pare che le letture che accompagnano il vangelo di questa domenica, siano particolarmente istruttive per comprendere meglio il “cosa c’è in gioco” nelle parole di Gesù.

In particolare due frasi, che – a mio parere – hanno un rimando potentissimo.

Innanzitutto i vv. 11-12a di 1Re 3: «Poiché hai domandato questa cosa [un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male] e non hai domandato per te molti giorni, né hai domandato per te ricchezza, né hai domandato la vita dei tuoi nemici, ma hai domandato per te il discernimento nel giudicare, ecco, faccio secondo le tue parole».

In questo testo – che lasciamo agli esegeti stabilire se storico o leggendario – il re Salomone si trova di fronte al Signore che gli fa la domanda che – probabilmente – tutti vorrebbero sentirsi porre da Dio: «Chiedimi ciò che vuoi che io ti conceda».

Al di là delle eco puerili del genio di Aladino e dei suoi tre desideri che ci tornano alla mente, la situazione è di quelle che davvero danno da pensare… Che cosa chiedere a Dio per sé?

Spesso noi anneghiamo le nostre preghiere in un elenco (anche serio, ma) molto contingente di richieste e bisogni (che non vanno disdegnati, perché sono l’anelito – in quel momento – del nostro cuore); ma se si trattasse di fermarsi un attimo e chiedere qualcosa al Signore per sé, su come si è fatti, sulle nostre ferite, sulle nostre speranze… Cosa chiederemmo? Cioè dov’è il nostro tesoro («Perché, dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore», Mt 6,21)?

Interessante che il Signore ponga la domanda in termini personali: «Chiedimi ciò che vuoi che io ti conceda», cioè “conceda a te”, sbaragliando il campo da tutte quelle risposte moralistiche (fintamente pan-agapiche) – che a Salomone non sono nemmeno venute in mente, ma a noi sì – sulla pace universale e la fame nel mondo ecc ecc ecc… Di cui – come si vede bene dalla scelte economiche di tutti i giorni – non interessa niente a nessuno (cioè non interessa a sufficienza da far cambiare la struttura economica del primo mondo), ma di cui ci ricordiamo sempre quando dobbiamo fare i grandi proclami sui nostri desideri profondi…

Sbaragliato il campo da tutto questo (cioè da una risposta che è una non risposta perché non è vera e contemporaneamente fornisce una facile scappatoia per non pensare veramente a cosa vorrei “per me”), il problema rimane: “per me” che cosa chiederei al Signore?

E Salomone – che prende molto sul serio la domanda di Dio – risponde: «un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male»! Tra tutto quello che poteva chiedere, chiede “un cuore docile”.

Ecco, questo è uno che ha proprio capito! Anche se ha vissuto circa 1000 anni prima di Gesù, ha capito cos’Egli avrebbe inteso dire con “perla” e “tesoro”…

Ha capito cioè che in gioco, quando si ha a che fare con Dio e con le cose serie della vita, ci sono io… c’è la costruzione di sé, della propria interiorità e personalità (prima ancora che di progetti o idealità) … c’è il chi voglio essere e chi voglio diventare come uomo, come donna… il come vorrei essere ricordato… la consistenza interiore con la quale vorrei arrivare al momento di salutare questo mondo…

Ecco perché incontrarsi con Dio, con le cose importanti della vita, col suo Regno, magari anche inconsapevolmente, è come trovare un tesoro, come trovare una perla. Perché lì dentro c’è la possibilità di una costruzione di se stessi che ha una pienezza inaudita: scegliere di essere figli (dunque di accogliere un Padre nelle cui braccia tornare sempre a mettersi) e di essere fratelli.

Ecco perché Paolo può dire – ed è la seconda frase cui facevo cenno prima –: «Fratelli, noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio». Perché se uno ha capito che la questione si gioca tutta sulla scelta di chi essere (in ciascuna situazione), sulla scelta di essere sempre figlio e fratello, allora nulla di ciò che può accadere esce (sta fuori) dall’orizzonte di senso del vivibile (bene), anche le ferite più grosse. Come ci hanno insegnato tanti eroi della Shoah: incatenati e uccisi, nei campi, c’erano uomini liberi! Cioè capaci di libertà! Capaci di scegliere, nella situazione di prigionia, oppressione e disumanizzazione, di essere uomini e non vittime.

Io credo che alla fine è di questo che si tratta… in tutta la vita… scegliere chi essere… perché è quello che di noi rimarrà…

Non a caso, il discorso parabolico di Matteo, si conclude con la parabola della rete: «il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. Quando è piena, i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi». Dove, innanzitutto, onde evitare fraintendimenti, c’è una precisazione da fare: la scelta tra “buoni” e “cattivi” è un problema “della fine del mondo”. La cernita viene fatta dopo la pesca, non durante… Anzi – durante – il Regno dei cieli è simile ad una rete che tira su tutti!

In secondo luogo, va notato come la finale («i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi»), che non gode della nostra simpatia, perché istintivamente richiama in noi l’immagine di un Dio giudice, calcolatore insensibile che ci fa paura (che è esattamente l’immagine di dio che il serpente da sempre tenta di instillare nel cuore dell’uomo e che Gesù da sempre tenta di distruggere!), in realtà ha la valenza tipica della “minaccia pedagogica”, come la mamma che dice “guarda che se non fai i compiti, non ti voglio più bene!”; dove l’accento non è sulla minaccia (fasulla), ma sulla preservazione della cosa importante e bella che si deve custodire (“fare i compiti!” o “essere pesci buoni”, dove appunto, l’essere “buoni” coincide esattamente con ciò che tentavamo di delineare in precedenza… “costruirsi dentro come figli… come fratelli”!).

Il problema storicamente è stato che nella cultura è stata veicolata maggiormente la minaccia (“Guarda che se fai così o non fai così vai all’inferno!”) – che aveva solo uno scopo pedagogico – che il nucleo incandescente da custodire (la buona notizia di Gesù) e così spesso ne son venuti fuori cristiani impauriti, che sceglievano non per adesione a qualcosa che riconoscevano come bello (un tesoro, una perla!), ma per evitare una punizione minacciata (l’inferno!)… cristiani moralistici e non evangelici! Che in più si sono messi a far la morale anche agli altri, dividendo già nell’aldiqua i pesci buoni dai pesci cattivi secondo i loro criteri!

L’invito di Gesù invece – attraverso il genere letterario della minaccia che sottolinea qualcosa di importante – è quello di rendersi conto che “durante la pesca”, cioè in questa vita qua che c’è donata, in gioco c’è qualcosa di radicale, di assoluto… in gioco ci siamo noi… nella nostra vita è di noi che ne va! L’essere “buono” o “cattivo” dunque non ha un senso morale, ma esistenziale e sempre recuperabile! Perché in ogni istante a ciascuno è chiesto di scegliere chi essere!

Mi pare dunque che queste tre parabolette, che ad una prima lettura sembravo qualcosa di fin troppo semplice per prestargli una grande attenzione, in realtà vadano a cogliere il problema più serio della nostra esistenza. E per questo meritano davvero di essere lasciate sedimentare in noi, perché arrivino a scardinarci negli anfratti più duri del nostro moralismo e ci facciano star lì un po’ seduti a pensare a chi siamo e a chi vogliamo essere…

1 commento:

maria sole ha detto...

In questo momento Ti chiedo il coraggio di non scappare ma di restare. Ti chiedo SOLO di farmi comprendere il come, sempre che io riesca.
Sono anche sicura che quando la "pesca" nel vivere quotidiano sarà ultimata Tu mi dirai abbracciandomi: "Che testa dura sei stata, quanta fatica hai fatto a comprere il mio volere... Ma ti voglio bene lo stesso"
Chiedo poco?

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