La parabola che costituisce il vangelo di questa ventiseiesima domenica del tempo ordinario, per essere ben compresa, va collocata nel contesto in cui Matteo la inserisce. Il rischio, altrimenti, sarebbe quello di una sua interpretazione riduttiva: qui infatti il senso non è tanto quello di un generico appello alla pronta osservanza della volontà di Dio, o una sottolineatura del primato dell’azione sulla parola, per cui elogiato sarebbe il primo figlio che, nonostante all’invito del padre in prima battuta, avesse detto «Non ne ho voglia, poi si pentì e vi andò»; il senso piuttosto va cercato altrove: in particolare tentando di delineare chi è rappresentato in questi due figli.
Per non rischiare di fare identificazioni campate per aria, fondamentale è riferirsi al contesto prossimo di questo brano: il capitolo 21 di Matteo in cui il nostro testo è collocato, inizia narrando l’ingresso messianico di Gesù a Gerusalemme; dopo l’accoglienza osannante della folla, che lo dichiara profeta, Gesù si dirige subito verso il tempio dove scaccia tutti i venditori e i cambiavalute; qui ha un primo confronto duro con i sommi sacerdoti e gli scribi, che si sdegnano nel sentirlo chiamare figlio di Davide dai bambini; confronto che si riaccende la mattina seguente quando «i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo gli dissero: “Con quale autorità fai questo?”»; domanda cui Gesù risponde a sua volta con un altro interrogativo, riguardante il Battista «Il battesimo di Giovanni da dove veniva? Dal cielo o dagli uomini?», interrogativo a cui i capi religiosi ebrei non rispondono per timore della folla; Gesù conclude allora dicendo: «Neanch’io vi dico con quale autorità faccio questo».
È chiaro che il tono è ormai quello del battibecco, di chi non spera più di usare le parole per farsi comprendere, ma semplicemente le affila per mettere in difficoltà l’altro. E infatti è proprio a questo punto che Gesù, rendendosi conto dell’andamento che ha preso il discorso, cambia registro e tenta di coinvolgere i suoi interlocutori (sommi sacerdoti, scribi e anziani del popolo) con una parabola (le parole «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli...» seguono infatti immediatamente le ultime citate: «Neanch’io vi dico con quale autorità faccio questo»).
L’intento di Gesù è infatti quello di portare i suoi interlocutori a sbilanciarsi in un parere, in modo da stanarli dai loro apparati concettuali preconfezionati e poter così far breccia nella loro logica di pensiero: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. Ed egli rispose: “Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?».
Quando essi «risposero: “Il primo”», la trappola è ormai scattata e a Gesù il gioco riesce facile; ribalta infatti contro di essi il giudizio da loro stessi formulato: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto».
Incredibilmente, il primo figlio viene così a rappresentare i pubblicani e le prostitute, cioè il così vasto gruppo di uomini e donne per antonomasia lontani dalla religione, (e dunque – direbbero i sommi sacerdoti) da Dio (quelli cioè «che con la loro vita avevano detto tanti ‘no’ al Padre, ma che, di fatto, commossi dal messaggio di Giovanni Battista, avevano finito per accogliere la sua volontà» [Giuliano]); il secondo figlio invece, viene a rappresentare la minuta schiera di intransigenti uomini religiosi («coloro – cioè – che sono l’esempio dell’assenso religioso ufficiale a Dio e sono impegnati a lavorare (… insegnare e comandare) nella vigna del Signore, e che però di fatto dicono di no, quando Giovanni propone loro, a nome di Dio, la conversione dai loro privilegi fallaci alla vera umiltà del cuore» [Giuliano]).
Questa identificazione però, anche a questo punto (dopo cioè la fatica dell’analisi del contesto prossimo), risulta in prima battuta paradossale: delinquenti e prostitute passerebbero davanti, nel regno di Dio, ai pii e devoti uomini religiosi?
Bisogna che andiamo più a fondo, perché questa è una “materia che scotta”…
Cos’è infatti che fa dire a Gesù una frase tanto forte («In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio»)? Che cosa ha visto, nella sua vita di uomo, nei volti e nelle storie di questi personaggi che abitualmente i benpensanti condannano? E che cosa non ha trovato invece in quelli che rappresentavano, per la mentalità comune (di allora e di oggi), il mondo della sacralità, dell’osservanza, della inappuntabilità?
- Stando alla narrazione dell’intero vangelo ha trovato in questi ultimi la durezza di cuore (di loro dice infatti: «Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli», Mt 5,20; oppure rivolgendosi direttamente ad essi: «Se aveste compreso che cosa significa: “Misericordia io voglio e non sacrificio”, non avreste condannato individui senza colpa», Mt 12,7; inoltre vengono tratteggiati come pedanti osservatori delle regole, ma dimentichi dell’uomo, tanto che visto Gesù guarire un uomo in giorno di sabato «usciti, tennero consiglio contro di lui per toglierlo di mezzo», Mt 12,14; o addirittura, vedendo Gesù risanare un indemoniato, «presero a dire: “Costui scaccia i demoni in nome di Beelzebul, principe dei demoni», Mt 12,24; sono sempre i farisei insieme agli scribi poi che «vennero da Gesù e gli dissero: “Perché i tuoi discepoli trasgrediscono la tradizione degli antichi? Poiché non si lavano le mani quando prendono cibo!”. Egli rispose loro: […] avete annullato la parola di Dio in nome della vostra tradizione. Ipocriti! Bene ha profetato di voi Isaia dicendo: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano essi mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini”», Mt 15,1-9; di essi dice infine: «Lasciateli! Sono ciechi e guide di ciechi», Mt 15,14; per non citare quanto aggiungerà poi nei capitoli successivi al nostro, cfr. il cap. 23);
- mentre nei primi (“pubblicani e prostitute” e tutti i “senza dio” che queste categorie rappresentano) ha trovato invece sempre una disponibilità a farsi incontrare, quasi un anelito della loro interiorità che accoglie da lui una parola nuova (come sa Matteo stesso, chiamato ad essere discepolo, proprio mentre era al banco dei pubblicani: «Gesù vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: “Seguimi”», Mt 9,9; o come ha appreso lo stesso Gesù, «che ha fatto anche lui il faticoso passaggio dal dire di no (un no durissimo: Mt 15,22ss) ad una di queste povere di Dio, per scoprire poi che la sua “presunzione razziale e religiosa”, ereditata dalla cultura corrente, lo chiudeva alla compassione… fino a concludere che la sirofenicia (impura e pagana) “lo precedeva” nella comprensione dei disegni del Padre: “Donna, davvero grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri”. Una donna, di religione e razza sbagliata, un cane infedele per i giudei osservanti, gli insegna a dire di sì a un disegno più grande di lui… a riscoprire anche per sé il monito antico di Dio attraverso il profeta: Non è retta la mia condotta o piuttosto non è retta la vostra?» [Giuliano]).
Sono proprio questi “senza dio” infatti che, forse perché privi di un apparato concettuale che gli fa da maschera, ma anzi denudati e svergognati davanti a tutti, hanno la possibilità/capacità di porsi di fronte a Gesù in trasparenza e verità, al di là delle condizioni che vivono.
«Eretici e scismatici o credenti di altre fedi e religioni, schiavi e servi della gleba, prostitute e peccatori pubblici, ‘perfidi’giudei, poveri e ignoranti, laici e laiche, operai, indios e neri, carcerati, omosessuali, aidetici, ubriachi, drogati, divorziati, sacerdoti sposati o infedeli, atei, ragazze madri… cioè tutti coloro che sono emarginati dal consesso religioso e civile, per la loro incapacità o rifiuto a portare sulle spalle pesi superiori alle loro forze o doveri che sovrastano le loro risorse… morali o psicologiche. Tutti costoro, rispetto a noi che viviamo da buoni cristiani e cittadini per bene, tante volte, hanno affinato un intuito istintivo più attento a percepire il cammino della giustizia» [Giuliano] e dunque ad accogliere il Signore e il suo Regno di misericordia.
Ma questa parabola… oggi a chi si rivolge?
Come allora, a chi è tra «i più vicini a Dio, i più osservanti, i più capaci di dedizione alle forme esplicite di culto e di riti per onorare Dio» [Giuliano]…
Il meccanismo è infatti il medesimo che si configurava anche nei vangeli di queste ultime domeniche (la parabola del servo spietato, la parabola dei lavoratori pagati tutti lo stesso salario…), dove il punto di vista era sempre quello di chi si credeva giusto… che è un meccanismo molto presente nel vangelo, basti pensare alla parabola del figliol prodigo, dove – certo – c’è un grande lieto annuncio per chi è tra le fila dei “senza dio” (chi si identifica col figliol prodigo appunto), ma dove al centro resta la figura dell’altro fratello, quello che si ritiene giusto e del quale non si sa, alla fine, se decide di rientrare in casa e unirsi alla festa per il fratello ritrovato o di starsene fuori chiuso nella sua durezza. La parabola ha infatti una “finale aperta”, cioè è il lettore nella sua vita a decidere come va a finire quella storia… L’interlocutore è dunque qualcuno che si può identificare con questo fratello… quello che si sente giusto, appunto…
Siamo allora, di fronte, nuovamente (il vangelo sembra sempre portarci lì) a questo nodo: Come guardiamo a questo mondo e a chi lo abita? Con gli occhi di chi si sente giusto, arrivato, dalla parte giusta, dalla parte dei giusti, con l’inevitabile durezza di cuore che questo punto di vista implica? Oppure stiamo pian piano macerando il nostro perbenismo nel tentativo di avere in noi «gli stessi sentimenti di Cristo Gesù» che ha guardato ciascuno sentendolo suo?
Forse anche a noi ‑ cosiddetti credenti impegnati e osservanti ‑ «tocca imparare, secondo il detto di Gesù, da chi, del tutto inconsapevolmente, ci sta “avanti” nel cammino del Regno dei cieli… Affiancarci a chi attorno a noi, appartiene ai nuovi elenchi di quelli che nell’opinione civile ed ecclesiastica corrente sono, con la loro vita, dalla parte sbagliata. Capita infatti che costoro “ci precedono”, perché sono più disponibili al vangelo, di noi che, analogamente agli antichi Ebrei, abbiamo l’appartenenza ecclesiale, i sacramenti, il culto, le devozioni e la giusta formazione morale…», [Giuliano] ma il cuore duro!
1 commento:
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
Posta un commento