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domenica 4 dicembre 2011

Solo la comunione di Dio, cambia il nostro cuore

Nel fallimento che nasce dall’impossibilità di vivere le esigenze della conversione, la necessità di un’altra Via
Nella seconda settimana dell’Avvento continuiamo ad approfondire la riflessione sul senso vero e profondo dell’attesa di una venuta che si annuncia rivoluzionaria per la storia dell’umanità. Lo facciamo a partire dal Vangelo di oggi, che introduce la “venuta pubblica” di Gesù: Qual è il senso del presentarsi di Giovanni Battista? Perché Gesù ha dovuto essere annunciato e annunciato da un uomo così? In che senso cioè è necessario un precursore?
Facciamo un passo indietro. Quando leggiamo il vangelo ci capita alcune volte di identificarci con i personaggi che agiscono. Spesso ci rendiamo conto insomma che in noi c’è un po’ di quel personaggio. Davanti a un san Tommaso che prima di credere vuole toccare con mano, non facciamo fatica ad ammettere che anche noi siamo un po’ come san Tommaso… Siamo anche un po’ come san Pietro, pronti a giurare fedeltà… e allo stesso tempo constatiamo che invece fuggiamo spaventati davanti alle nostre responsabilità. Come constatiamo che ci è molto facile in certe situazioni “lavarci le mani” come Pilato… Insomma non facciamo fatica a capire che c’è un Tommaso, un Giuda, un Pilato, un Pietro in ciascuno di noi.
Più inusuale forse è rendersi conto che in noi c’è anche un Giovanni Battista!
Per accorgercene dobbiamo comprendere chi è Giovanni Battista.
Giovanni Battista, per come il Vangelo lo descrive e per come ne scrive, è la quintessenza di tutto ciò che è l’Antico Testamento. Gesù dirà che è il più grande profeta, il più grande tra i nati da donna (Lc 7,20)… Giovanni Battista, riassume in sé, nel suo stile di vita, nel suo orientamento esistenziale, nella sua religiosità, nella sua missione, nella sua predicazione, tutto quanto dalla Genesi fino a lui, il pio israelita ha compreso e vissuto di sé e del suo rapporto con Dio e con gli uomini. In altre parole riassume tutto quello che la religione e l’etica ebraica insegnano. E cioè che l’uomo – suo malgrado! – è stato liberato da Dio (Esodo) e che ora deve impegnarsi (Es 20,1ss; Dt 5,16) a vivere da uomo libero “raddrizzando i suoi sentieri” per costruire un mondo di pace, giustizia, fratellanza, comunione con Dio e con i fratelli: Tutta la Torah e i Profeti predicano questo!

Solo che, come testimonia la Bibbia stessa e la storia, tutti questi appelli, non solo non sono serviti a niente e sono caduti nel vuoto, ma hanno peggiorato le cose in quanto gli stessi profeti sono stati tutti uccisi o esiliati o ignorati… Tutti! Come anche Gesù farà notare accusandoli di ipocrisia perché solo dopo averli ammazzati li veneravano costruendo loro sontuose tombe e meditando i loro scritti – per i quali li avevano perseguitati! – come sacri e ispirati da Dio (cfr Mt 23,29).
Come è possibile? Dove sta il problema? Il problema è che la religiosità proclamata da san! Giovanni Battista e di cui egli è il culmine, è fondamentalmente incapace di dare risposta adeguata al desiderio dell’uomo di fare del bene, di vivere in pace, di costruire un mondo di relazioni giuste! In una parola di salvarsi e di salvare! Non a caso questa si traduce in ogni religione in una moltiplicazione compulsiva di opere (di preghiere e di penitenze, ecc.) da compiere…
 
Su questo gli evangelisti sono lucidissimi e direi – passatemi il termine – spietati e senza appello…
Ad esempio nel quadretto dell’annunciazione di Giovanni Battista, suo padre Zaccaria sacerdote (!), viene descritto da san Luca, pio e giusto, ma di una giustizia che – a differenza del buon vino – invecchia sterilmente per approdare nell’incredulità acida e quindi è sostanzialmente una religiosità atea: e si noti che tutta la scena si volge nel cuore del tempio!… che non a caso si squarcerà alla morte di Gesù per indicarne il superamento. Tutt’altra cosa invece, se lo paragoniamo al racconto che segue dell’annunciazione di Gesù a Maria, con la freschezza giovanile e feconda della fede di Maria (donna e laica e in casa!)… E questo contrasto è ovviamente voluto e accentuato dai parallelismi culturalmente antitetici: uomo-maschio/adulto/sacerdote/tempio/sterile/incredulità cinica, da un lato e donna-femmina/ragazza/laica/casa/fede semplice/fecondità, dall’altro. Come dire la quintessenza del prototipo credente in un confronto perdente con la quintessenza dell’insignificanza storica e religiosa!
 
Come mai questo esito della fede del Vecchio Testamento?… Mi sembra di poter cogliere il punto nodale sul fatto che esso tace su verità radicali sull’uomo e quindi – prospetticamente – su Dio. E non ne tace per scelleratezza ma perché esso ne è strutturalmente incapace. Vediamo in che senso.
 
La predicazione di Giovanni, abbiamo detto è la sintesi di ogni predicazione di ogni profezia di ogni tempo, di ogni pretesa religiosa. Ora questa impostazione religiosa ha il torto di affermare implicitamente che la conversione è possibile a ogni uomo, basta che lo voglia, purché naturalmente si sforzi un po’ mettendoci della “buona volontà” (espressione spesso usata anche nei documenti del magistero).
 
Da questo consegue che se l’uomo non si converte la colpa è tutta sua… Non è questo anche il nostro parere? Ebbene, questo è il Giovanni che è in noi!
 
Questa impostazione religiosa ed etica e profetica, ha però come conseguenza la “criminalizzazione” di ogni peccatore, la sua emarginazione religiosa e sociale, il puntare su di lui il dito accusatorio – proprio come spesso facciamo anche noi –. “Dito” o chiacchiera – direbbe Gesù – più assassini di ogni lapidazione: infatti con la sua predicazione Gesù è proprio questa impostazione culturale che stigmatizza contestando quell’atteggiamento religioso che ne è all’origine e di cui Giovanni, san Giovanni!, è l’ultimo e supremo rappresentante.
 
E anche questo spiega perché non bastava più inviare profeti ma occorresse veramente che venisse Dio stesso nel suo Figlio a dircelo.
 
Infatti quando Giovanni chiede all’uomo di convertirsi, nasconde la verità che l’uomo è “strutturalmente” incapace di convertirsi da sé, se convertirsi vuol dire, come vuol dire, cambiare il proprio cuore (cfr Mc 7,6)! Perché questo male è così radicato nell’uomo, che per quanto egli cerchi di convertirsi non può allontanare da sé l’inclinazione al male, al dubbio, alla diffidenza, alla vendetta, al piacere sfrenato di godere e possedere…
 
Pensare che l’uomo possa convertirsi da sé o perché qualcuno gli urla dietro di farlo come fa Giovani Battista, magari su minaccia di chissà quali sofferenze future (Lc 3,7-10!), rasenta il ridicolo se non fosse così tragico per la nostra vita… Infatti cambiare comportamento per paura, non è conversione, perché nel cuore ci resta la convinzione che sarebbe stato bello poter continuare a fare quello che si faceva, tant’è vero che se cessasse la minaccia (o ci fosse una minaccia più forte o imminente cfr il tradimento di Pietro) si ritornerebbe sui propri passi. Sono cose che ciascuno di noi può attingere dalla propria esperienza…
 
Non secondaria a questa impostazione è l’immagine deleteria che ne consegue di un Dio (tiranno) che perdona solo dopo che l’uomo si è convertito e a patto che faccia ampia penitenza e “purgato” il male che ha fatto. Ma questa sembra più una proiezione del nostro concetto di perdono: Ci è infatti impossibile perdonare se l’altro per lo meno non si pente e riconosce di aver sbagliato…
 
In che senso allora il Battista – quello biblico e quello che ritroviamo in noi – annuncia e prepara l’avvenuta di Cristo nella storia e nella nostra vita? La risposta a questo punto non può che essere ovvia: Nel suo e nostro fallimento! La sua funzione o se volete la sua “missione” (come quella di tutto l’AT) è proprio quella di far emergere – nell’impossibilità di vivere le esigenze della conversione nell’esperienza concreta della vita – il bisogno di un’altra Via (Atti 9,2!; Mc 6,11 e ||; Gv 14,6), di un’altra antropologia, di un altro approccio alla santità, a Dio, alla preghiera… Di un altro modo di vivere la fede nella vita e nelle sue manifestazioni anche religiose ed etiche.
 
Solo se abbiamo il coraggio di andare fino in fondo nella nostra vita alla logica etico-religiosa (e quindi antropologica e teologica) di Giovanni Battista, ci accorgiamo che essa non basta più e avvertiamo la necessità di una nuova impostazione, di un incontro con un uomo nuovo che ci insegni un modo nuovo di essere uomo dando risposte vere alla nostra domanda di salvezza da noi stessi. Che insomma ci apra veramente la strada a un fecondo e non sterile processo di umanizzazione.
 
Lo constatiamo ogni giorno: Vogliamo veramente convertirci e fare del bene, ma proprio non ci riusciamo e non sappiamo neanche perché… Questo è anche il grido di Paolo che vede il bene ma si sente portato al male (formidabile la sua analisi in Rm 7,14-25). Ed è l’esperienza dei santi di ogni ordine e grado. Siamo quindi in buona compagnia… È come se la radice del male fosse in noi e, a volte, sembra che proprio noi siamo quel male che è in noi. E avvertiamo che per quanto ci si converta resta sempre ancora qualcosa da convertire, da purificare. E il bene che facciamo, quando riusciamo a farlo, non basta più a compensare quello che non riusciamo a fare. Ora se questo è vero per me perché non può essere vero anche per gli altri? Quello che constatiamo insomma, proprio grazie a tentativo di obbedire all’appello di conversione che ci viene da Dio, è la universale impotenza di ogni uomo a diventare buono, a convertirsi, a salvarsi… Paradossale, ma vero! 
 
E qui sta l’ulteriore paradosso: come possiamo fare esperienza della nostra impotenza se non mettiamo in atto tutte le nostre forze per cercare di compiere quel bene, di cui solo allora ci scopriremmo per esperienza concreta, fisica, incapaci? Insomma il nostro sforzo seppur inutile è necessario, non per dimostrare la nostra buona volontà, ma per riuscire finalmente a fare esperienza della nostra impotenza a salvarci. Solo a partire dal fallimento dei nostri sforzi potremo, non smettere di impegnarci, ma certamente smettere di disprezzarci sforzandoci inutilmente e poter tornare così ad essere quei bambini tra le braccia di Dio che riconoscono con gratitudine in Colui che viene, l’unico che può compiere ciò che con tutte le nostre forze e in tutta la nostra vita non siamo riusciti a compiere. È interessante notare come Paolo, nel testo su citato,  termini il suo grido disperato in una lode, o come Zaccaria, finalmente “ceda” all’evidenza del suo fallimento e si converta alla storia di Dio lodandolo. Questa è anche l’esperienza dei santi e di san Paolo, quando scoprono che la Grazia basta a vivere le fatiche della vita senza soccombervi. A sintesi di questa riflessione basterebbe ricordare quanto Paolo scopre – e noi con lui – in 2Cor 12,9!
 
Davanti alla impossibilità di uscire dal fallimento ci possono però essere altri due atteggiamenti, solo apparentemente contrapposti. Uno è quello di rinunciarci, non credendo più alla possibilità di cambiamento nella nostra vita. L’altro è continuare ad ammazzarsi torturandosi anima e corpo nel tentativo di riuscirci. L’esito in entrambi è lo stesso: la morte spirituale dell’uomo che preclude ogni possibilità di vita, presente e futura.
 
L’attesa, di un Salvatore invece, l’attesa in Colui che solo può cambiarci il cuore perché ne ha assunto le ferite guarendole in sé, è l’unica possibilità concreta che ci resta di salvezza. Ed è credo il confine, il momento discriminante nel quale avviene il passaggio del testimone nella nostra vita da Giovanni Battista a Gesù Cristo. È il punto in cui finalmente diventiamo veramente cristiani al modo il Cristo e non cristiani al modo del  Battista (espressione in sé prima di senso in quanto è ovvio che non saremmo effettivamente cristiani! Ma serve a rendere l’idea della nostra illusione…).
 
Ecco perché il Battista può dire, che il suo battesimo è semplicemente acqua… e solo quello di Gesù è quello vero. Non tanto perché viene da Dio, ma perché ci immerge in Dio innestando in noi il cuore della relazione d’amore tra il Figlio e il Padre, lo Spirito d’amore. Ma questo è possibile solo se Dio non aspetta la nostra conversione per entrare in comunione con noi, per perdonarci: il perdono non arriverebbe mai perché abbiamo visto che il cambiamento del cuore non è in nostro potere! Ma, capovolgendo le pretese su di noi di Giovanni Battista (come di ogni struttura religiosa), subito si dona a noi nella comunione col Padre – perché questo è il perdono – che ci cambia profondamente le dinamiche del cuore da consentirci di vivere fin da ora quella dimensione d’amore, di pace, di giustizia, di salvezza che da sempre Lui sperimenta. Purché accettiamo di cambiare mentalità passando dallo “sforzo” all’affidamento… Solo allora il giogo sarà leggero (Mt 11,30).
 
Nascere dall’alto, essere battezzati nello Spirito, vuol dire questo: essere rinnovati dal di dentro perché il nostro agire, non sia più finalizzato a convertirci, ma a gustare e far gustare quanto è bello riconoscersi salvati, convertiti da Dio. Così ciò che a Maria è dato fin dall’inizio a noi è offerto ogni giorno.
 
Solo così saremo in grado di consegnarci, magari sfiniti da inutili sforzi, a Colui che solo può cambiare il nostro cuore e il nostro modo di vivere. Prepararsi al Natale, prepararsi all’incontro offertoci ogni giorno da Gesù, vuol dire prendere consapevolezza di questa nostra impotenza per accogliere nel deserto della nostra religiosità sterile una dinamica nuova, quella dello Spirito che è stata all’origine della nostra stessa gioiosa conversione (cfr Lc 1,28: “Rallegrati Maria”).

1 commento:

maria sole ha detto...

Un grazie ancora a Dio ...... leggerti è come bere ad una sorgente di alta montagna.
Grazie a Dio

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